Reportage

#19 NEPAL DISCOVERY

testo e foto di Eugenio Gaggero  / Genova

29/11/2020
8 min
Il Bando del BC20

Nepal discovery

di Eugenio Gaggero

In fila per salire sull’aereo avevo notato cinque signori poco più avanti a me: indossavano un giubbetto arancione che presentava vari marchi legati all’alpinismo.

Era logico pensare che sarebbero andati a fare una spedizione sull’Himalaya. Fortuna vuole che il mio posto sull’aereo si trovasse proprio dietro alle due file che questi signori occupavano. Sulla mia destra c’era Niccolò, uno dei miei undici compagni di viaggio appena conosciuti; gli altri si trovavano sparsi un po’ per tutto l’aereo che da Milano ci avrebbe portato ad Istanbul. Solo dopo l’atterraggio nella città turca iniziamo a parlare con questi signori, che scopriamo essere di Trento. Ci chiedono se anche noi fossimo diretti in Nepal e andassimo a fare trekking, spiego loro che avremmo fatto principalmente turismo a cui avremmo aggiunto un piccolo pezzo dell’Annapurna Circuit di quattro giorni.

«Invece voi che montagna andate a scalare?» chiedo, ormai divorato dalla curiosità.
«Un ottomila», mi rispondono.
«Quale?»
«Il Manaslu». Sull’onda dell’entusiasmo chiedo se avessero già fatto qualche altro ottomila.
«Noi ci siamo fermati al massimo a settemila, solo lui ne ha fatto uno», mi indicano un componente del gruppo che deve aver passato da poco la quarantina, alto e decisamente robusto che effettivamente sembra il più “tosto” dei cinque. Nonostante avessero voglia di chiacchierare (successivamente mi consiglieranno dove andare a bere e a mangiare una buona bistecca a Kathmandu), sono molto restii a parlare delle loro imprese, denotando molta modestia.
«Quale ottomila hai fatto?»
«Mah niente di che» mi risponde. Ma non esiste un ottomila che sia “niente di che” penso tra me e me, mentre aggiunge, avviandosi verso l’uscita dell’aereo: «Il K2». Credo che a quel punto mi sia letteralmente caduta la mascella. Il K2!

Usciti dall’aereo, con Niccolò ci ricongiungiamo ai nostri compagni di viaggio, e, nel tragitto verso il gate designato per l’aereo che ci porterà a Kathmandu, di due gruppetti che siamo se ne forma in realtà solo uno. Si chiacchiera tutti insieme, ognuno è entusiasta dell’avventura che lo sta spettando. Il gate è lontanissimo, dall’altra parte dell’aeroporto, ma facendo conversazione quasi non ce ne rendiamo conto. Mi accorgo invece che uno degli alpinisti, un signore dai capelli brizzolati che deve aver superato la cinquantina (probabilmente il più “âgée” del gruppo), zoppica vistosamente. Timido come sono non ho il coraggio di chiedergli cosa si sia fatto, ma penso che in quelle condizioni sia difficile arrivare in vetta. Mi viene in soccorso Sara, fresca di laurea in Medicina, che, probabilmente per deformazione professionale mista a curiosità, gli domanda cosa si fosse fatto alla gamba e come farà ad affrontare la montagna.

«Me la tolgo» ci risponde. Il mio sguardo interrogativo incrocia quello di Sara.
«Ma cosa ti togli?» chiediamo quasi in coro.
«La gamba!». Per una frazione di secondo ho creduto stesse scherzando, poi, per la seconda volta in pochi minuti, resto a bocca aperta. Nel poco tempo che ci rimane per arrivare al gate ci racconta di come avesse perso la gamba qualche anno prima in un incidente in bicicletta, e di come abbia continuato ad andare in montagna. Ci spiega che ha già superato quota seimila e che sul Manaslu proverà ad arrivare fino a dove riuscirà, senza troppe pressioni.

Siamo arrivati, facciamo ancora insieme la fila per salire sull’aereo, una volta all’interno è troppo grande e noi troppo sparpagliati per riuscire a chiacchierare ancora un po’, in più arriveremo alle 7 del mattino a Kathmandu ora locale, quindi cerchiamo di dormire qualche ora.
Incontriamo i cinque alpinisti per l’ultima volta il mattino seguente all’immigration e li salutiamo rapidamente, c’è molto caos e noi siamo più veloci avendo già stampato il visto. Nessuno di noi si è scambiato un contatto e questo è il mio grande rammarico; dopo il rientro mi sono chiesto più volte se ce l’avessero fatta, ho effettuato anche qualche ricerca su internet, ma non ha prodotto risultati. Mi piace pensare che se uno di loro dovesse leggere questo breve racconto, possa poi contattarmi per raccontare il resto della loro avventura.
Il mio “Nepal discovery” iniziò così.

Dopo qualche giorno di turismo a Bhaktapur e dintorni ci dirigiamo in pullman verso Pokhara; il viaggio è lunghissimo a causa di una frana che ha provocato lunghe code. Non rinunciamo tuttavia al rafting sul fiume, ma arriviamo che è ormai buio. Smistiamo i vestiti necessari riducendo così i nostri dodici borsoni a tre, uno per ogni sherpa che ci accompagnerà; cammineremo leggeri solo con i nostri zaini, lasciando il resto del bagaglio nell’albergo dove torneremo alla fine del trek. Mi sento già un privilegiato. Questo sentimento accresce quando scendiamo dal Pullman a Nayapul pronti per iniziare il trekking e conosciamo i nostri tre portatori: uno di loro indossa le infradito. Sapendo che ci aspetterà sicuramente un po’ di pioggia e probabilmente faremo la conoscenza delle sanguisughe (cose che puntualmente si verificheranno) tentiamo invano, anche grazie alla traduzione della nostra guida, di convincerlo ad indossare un paio di scarpe: sostiene che le “flip-flops” siano più comode.

La prima tappa prevede di arrivare ad Ulleri, dove passeremo la notte. Durante il percorso attraversiamo inizialmente diversi villaggi. In uno di questi incontriamo moltissimi bambini in divisa scolastica che ci vengono incontro e tendono la mano chiedendoci quasi in coro: «Candy?».

Per fortuna c’è chi è più attrezzato del sottoscritto, così mi preoccupo solo di scattare alcune delle mie foto preferite di questo viaggio.
Per arrivare ad Ulleri affrontiamo poi un numero elevatissimo di scalini, d’altronde la nostra guida, Ram, ci aveva avvisati: «Many many steps today guys!» aveva sentenziato chiudendo la frase con la sua risata contagiosa.
La destinazione del secondo giorno è Ghorepani e nel tardo pomeriggio è poi prevista la salita a Poon-Hill, dove è presente una terrazza panoramica da cui ammirare diverse vette. Dopo pranzo ci coglie però un temporale e facciamo anche, nostro malgrado, la conoscenza delle sanguisughe. La visita a Poon-Hill è rimandata al mattino seguente per vedere l’alba. “Non tutto il male vien per nuocere” penso tra me e me, ignorando che la tappa del terzo giorno fosse già di per sé la più lunga.

La sveglia è fissata alle quattro. Alle 4:20 siamo già in cammino, porto solo la borsa della macchina fotografica e indosso tutti gli strati a disposizione. Oltre alle pile frontali, a fare un po’ di luce è anche la luna e questo ci fa ben sperare; dopo una mezzoretta siamo a Poon-Hill e non ci resta che attendere l’alba. Tremo, un po’ per il freddo, ma in gran parte per l’eccitazione. Verso le 5:10, con la prima luce, inizia a delinearsi una montagna: è il Machapuchare, 6993 metri di altitudine, vetta sacra per i nepalesi e ufficialmente inviolata. La luce aumenta e si riesce a distinguere quello che speravo essere l’Annapurna I, invece è “solo” l’Annapurna South, che con i suoi 7219 metri è la vetta numero 101 per altezza nel mondo. Infine, anche se lontano, si riesce a vedere molto bene il Dhaulagiri: 8167 metri, settima vetta della terra; è il primo ottomila che vedo in vita mia. Questo panorama mi provoca un’emozione particolare, che mi ricorda quella piacevole sensazione al termine di una discesa in neve fresca quando felice e sorridente osservo la traccia appena disegnata.

Però “friggo” anche, perché spero che le nuvole si spostino permettendoci di vedere l’Annapurna I. Anni prima avevo letto il libro di Simone Moro che racconta i tragici fatti del Natale 1997 e mostra alcune fotografie spettacolari. Ho letto molti libri sull’alpinismo ma sono rimasto particolarmente colpito da quell’episodio e mi sarebbe piaciuto poter ammirare quella vetta. Le nuvole però non si spostano; ho comunque il sorriso stampato in faccia, penso non mi sia mai capitato ad un orario così antelucano, per di più a stomaco vuoto.

Il cammino per tornare al rifugio è magnifico, al buio non ci eravamo accorti di quanto fosse vicino il Machapuchare. Scendendo lo abbiamo proprio di fronte e anziché guardare dove poso i piedi continuo ad ammirarlo e a scattargli qualche fotografia. Metto a fuoco solo adesso il motivo di uno dei suoi soprannomi: “Fishtail”.

La giornata prosegue poi con una lauta colazione e alle 7:30 rimettiamo lo zaino in spalla alla volta di Ghandruk. Superiamo il Deurali Pass mentre il meteo sta già iniziando a cambiare: le montagne attorno a noi spariscono tra le nuvole e ricompaiono in continuazione, generando un’atmosfera quasi spettrale, che dà un tocco di magia al nostro percorso.
Da lì in poi però è solo pioggia. Arriviamo a Ghandruk verso le 16:30; sono fradicio ma non a causa dell’acqua bensì del sudore: mi ero infatti “sigillato” nella cerata per paura delle sanguisughe e il calore corporeo non era stato smaltito granché. Non mi sento particolarmente bene e alle 20:30 sono già a letto.
Mi alzo verso le 5:30 con i sintomi della febbre, esco per andare a fare colazione e incontro Ram che mi invita a salire sul tetto per ammirare le montagne. Non ricordo quali vette si stagliassero davanti a noi, forse per la febbre, ho solo memoria di aver assistito ad un altro scenario spettacolare.

Il paracetamolo mi dà la forza di affrontare l’ultimo giorno di cammino e di godermi la bellezza del paesaggio. Scendiamo di quota attraverso villaggi circondati da terrazzamenti di riso di un verde acceso, tipici di molti paesi asiatici. Incontriamo nuovamente molti bambini che rientrano a casa da scuola, alcuni ci chiedono le “candies”. Uno di questi riceve una sonora sgridata dalla mamma, e sebbene il nepalese sia a me incomprensibile, se non per il “Namaste” che chiunque ti rivolge unendo le mani sotto il mento, inclinandosi in avanti e sorridendo con grandissima cordialità, il senso appariva chiaro: “Non accettare caramelle dagli sconosciuti!”.
Rientrati a Pokhara, salto la cena e mi concedo un’altra lunga dormita. Il mattino dopo sono quasi ristabilito e nell’arco della giornata mi riprendo del tutto grazie alle molte ore di pullman, intervallate da alcune bellissime visite come quella alla Word Peace Pagoda.

Il viaggio prosegue con un giorno a Bandipur, poi una notte passata in un tempio buddhista (compresa di lezione sulla religione, cena e colazione insieme a tutti i monaci), un’altra siamo ospiti a Panauti di una famiglia del posto grazie alla community homestay. Ci svegliamo al mattino con la città circondata dalle montagne, il giorno precedente non si erano viste per via della molta foschia. Ci spostiamo quindi a Kathmandu, la città è caotica ma tutta da vivere, il ricordo più bello è legato al Boudhanath Stupa. Il penultimo giorno ci concediamo il “mountain flight” e riusciamo a vedere moltissime vette: tra gli ottomila l’Everest, il Lhotse, il Makalu e il Cho Oyu. Poi altre montagne sui settemila, a me sconosciute fino ad allora e riconoscibili solamente grazie al libretto illustrato fornito dalla compagnia aerea, la Buddha air. Tra queste vorrei ricordare il Melungtse, vetta di 7023 metri situata oltre il confine nepalese, in Tibet, molto facile da individuare.

 Passiamo nella capitale ancora un giorno, che dedico all’acquisto di alcuni regali negli innumerevoli negozi di Thamel. Mi aspetta poi un compito “delicato”: scegliere il posto sul volo di ritorno dal lato che permetta di vedere ancora alcune montagne. Mi avvalgo “dell’aiuto da casa” e grazie al consiglio di mio papà azzecco il posto. Assisto praticamente ad un secondo mountain flight, ma in una zona diversa da quella precedente visto che stiamo tornando verso casa. Riconosco, o almeno credo, il massiccio del Dhaulagiri e quello dell’Annapurna. È un altro spettacolo mozzafiato, lo apprezzo forse più degli altri perché non ci contavo molto, anche se mi resta un po’ di amaro in bocca perché non riesco ad individuare l’Annapurna I.
Una volta mi è stato detto che bisogna lasciarsi sempre un buon motivo per tornare in un posto. Penso che ci siano mille motivi per fare ritorno in Nepal, mille più uno.

_____
foto:
1. Al sorgere del sole mentre osservo il Machapuchare (sulla destra) e l’Annapurna South (sulla sinistra) con la vetta oscurata da una nuvola in quel momento.
2. Il Machapuchare alle 6:23 del 14/9/2019.
3. Il Melungtse visto dal finestrino dell’aereo.

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Eugenio Gaggero

Eugenio Gaggero

Sono uno studente, nato in una città di mare (Genova), ma con una passione smisurata per la montagna. Il mio habitat naturale? Boschetto, neve fresca e sci ai piedi!


Il mio blog | Non ho un blog/pagina digitale, eleggo altitudini.it come la mia rivista digitale. Mi piace altitudini perché racconta la montagna in tutte le sue dimensioni e da diverse angolazioni, con un denominatore comune: la passione.
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