Reportage

#34 LA DISCESA È INTROSPEZIONE

testo e foto di Salvatore Bondi  / Palermo

discesa da Monte San Calogero
12/12/2020
8 min
Il Bando del BC20

La discesa è introspezione (Monte San Calogero)

di Salvatore Bondì

C’è un momento, giusto un attimo, in cui ti rendi conto che manca solo un passo per raggiungere la vetta.

Un singolo movimento di gamba e sarai sul punto più alto di quel monte. Sai già bene cosa succederà. Il vento ti investirà in pieno, gelandoti la faccia e mozzandoti il respiro. La vista, finora concentrata sul sentiero a pochi metri dal tuo naso, d’improvviso avrà un enorme orizzonte davanti, sconfinato e impossibile da abbracciare ad un solo sguardo. La testa girerà per pochi istanti, col sangue che pompa furioso. Lo sentirai nelle orecchie. Nonostante i passi non ci sono più, lui scandirà ancora il tempo come un tamburo. È fatta. Hai conquistato un’altra vetta.

«È un peccato che si ricordino sempre le ascese, e mai le discese» dico ad Ale, mio compagno di avventure. Siamo sul punto più alto di Monte San Calogero (1326 m). Lontano, ad Est, l’Etna sbuffa furioso, con quei pennacchi ribollenti che si vedono fin da qui, nella Sicilia Occidentale. Davanti a lui le Madonie ornano il tutto di bianco, con i loro aspri rilievi calcarei e la prima neve di quest’anno. L’occhio continua sulle sinuose curve del fiume Imera. Serpeggiante, avanza proprio verso di noi, per poi tuffarsi sotto ai nostri piedi, in una piana alluvionale devastata dalle attività industriali. Capannoni su capannoni, in file perfette, ma senza più uno scopo. Vuoti e tristi come spettri. Giusto uno sguardo veloce per rendere omaggio anche all’Ovest dove ci sono i monti di Trabia e di Palermo. I monti in cui sono cresciuto, quelli di cui so il nome di ogni singolo pizzo. Quelli di cui so disegnare il profilo anche ad occhi chiusi.
Il maestrale soffia sempre più forte. Basta, è arrivato il momento di scendere.

Mi piacciono i nostri panorami perché il mare incornicia sempre tutto.
Ovunque tu sia, qualsiasi sicula asperità tu decida di scalare, dalla cima vedrai sempre il mare.
Le cime -ti ricorda il mare- ti danno una grande opportunità: le discese!
È a me che devi tornare, mio caro. Torna al mare, scendi dal tuo piedistallo roccioso e ridiventa mortale.
A me le discese piacciono un sacco. Poca o nulla fatica e tanto tempo per ritrovare sé stessi. Per godere della fluidità del proprio corpo. Per pensare. Soprattutto per concentrarsi, anche solo su una sensazione. La salita ti ha sgombrato la testa dallo sfarfallio continuo della mente. E allora perché non dedicare un articolo alle discese? Sempre e solo salite rendono l’uomo un tantino pretenzioso. Le discese sono fatte per tornare indietro. A volte dentro di noi. Le discese sono introspezione.
Volti le spalle al panorama e in pochi metri non sei più immerso nell’effetto cima. Quando scendi dal San Calogero lasci un enorme torrione carbonatico alle tue spalle, nudo e sferzato dai venti. Ti ritrovi su pascoli di alta quota. I grigi lasciano il posto ai verdi e camminare diventa una pratica soffice e piacevole. Il vento non soffia più sul tuo viso.

Un tocco di viola: Scilla silvestre

C’è una strana quiete adesso, si sentono i fruscii tra l’erba e il cinguettio dei pettirossi. Questo è il regno delle lepri e delle coturnici. Le prime, sfacciatamente orgogliose del proprio mimetismo, rimangono acquattate sul prato fino all’ultimo secondo. Con la magia dell’animale selvatico, diventano una zolla di terra, un ciuffo d’erba secca, un sasso. Poi, un attimo prima di calpestarle, si trasformano di colpo in una saetta dal pelo lucido, che attraversa il prato a grandi salti, le orecchie tese con le punte nere ben in vista.
Le coturnici invece, hanno preso la via della clandestinità. Una volta comuni e abbondanti, le si vedeva spesso transitare sui sentieri. Le madri con i piccoli in fila. E i maschi cantavano a perdifiato sui pinnacoli rocciosi. Ora le coturnici non cantano più. Vittime di una caccia spietata e senza legge, trappolate, sparate, braccate dai cani, questi animali sono diventati invisibili. Ci sono ancora, ma osservarle è davvero difficile. Ora sui pinnacoli c’è solo il vento a narrare di loro. Per quando ancora dobbiamo assistere al saccheggio delle risorse naturali? Vogliamo che le coturnici vadano ad affollare la lista dei fantasmi sulla nostra isola, assieme al lupo, al cervo e a decine di altre specie fatte fuori dalle attività umane?
Un’aquila reale volteggia sopra di noi, unico elemento in moto tra le guglie carbonatiche e un cielo immoto. Con una scivolata si abbassa di quota rapidamente, ci passa di sopra degnandoci appena di uno sguardo.
Forse non tutto è perduto.

Scendere dai monti è palesemente un atto di abbandono. Si voltano le spalle a un’isola di Natura, per varcare un confine fatto di strade e case. Case su case, per chilometri e chilometri. Asfalto e cemento ad allungarsi per il territorio, inglobando siepi, boschi, stagni. Come olio versato, le macchie urbane si allargano, si uniscono tra di loro e confinano la Natura in cima ai monti, unico posto dove gli animali possono ancora vivere dignitosamente. E pensare che agli inizi della civiltà era l’uomo ad essere confinato nel suo villaggio. Varcare le mura del proprio insediamento significava affrontare una Natura sconfinata e selvaggia, di cui non potevano nemmeno intuirsi i confini.

Oggi ad essere sconfinato è rimasto solo il mare. Ti rimane negli occhi, quando scendi da Monte San Calogero. La posizione e la forma di questa cima ti fa sentire sull’albero maestro di un veliero. A poppa Trapani e a prua Messina. Come possiamo risolvere i problemi del mondo, grandi e inspiegabili come mostri marini, se siamo solo una piccola isola nel mare. Che succede dall’altra parte? E come possiamo intervenire noi, se siamo confinati qua, su questa barca che fa acqua da tutte le parti?
Ale mi dà una gomitata. Giusto in tempo, prima che il filo dei miei pensieri si aggrovigliasse. Il sentiero si inoltra nel bosco e io stavo tirando dritto.

Continuiamo la discesa in una fitta lecceta. Addio verde erba, ora il mondo è un gioco di ombre e luci che filtrano dalla chioma. Marrone e oro sula punta dei nostri scarponi. L’aria e umida e odora di muschio e di funghi. C’è una sola nota di colore, in tutto ciò: ai margini del sentiero, seminascosta tra le rocce, una minuscola Scilla silvestre è emersa dalla lettiera. Solo due foglie, di un verde lucido e un mazzetto di fiori di un viola deciso. Così piccola e delicata che fa uno strano effetto trovarla là, in mezzo a quei bestioni dei lecci che la sovrastano, con tronchi grandi come colonne di un tempio. Eppure, non avrebbe potuto essere da nessun’altra parte. Amante dell’ombra e dei terreni soffici, questa timida bulbosa fiorisce proprio nei boschi mediterranei. C’è solo una cosa che stona: il periodo. Questa pianta, infatti si trova in fiore all’inizio della primavera, quando i rigori di febbraio lasciano il posto al primo incerto sole di marzo. Ora è dicembre! Che è successo? Forse questo inverno mite l’ha indotta a fiorire con tre mesi d’anticipo, in una stagione completamente sbagliata. Oppure il cambiamento climatico anticipa di netto le fioriture, soprattutto di specie molto sensibili come quelle del sottobosco.

Sedum, muschi e licheni.

Sorrido. Non sarà poi la fine del mondo, se si fiorisce a dicembre. Ogni tanto è divertente uscire fuori dagli schemi. Tirare fuori colori sfavillanti in un momento sbagliato. Tutti pensano che tu debba stare sottoterra, a dormire beatamente sotto una coltre di foglie di leccio e invece -zac!- tu sorprendi tutti ed emergi. Coraggiosa eroina alta 20 cm. Tiri fuori cinque o sei fiori di un bel viola sfavillante e sfidi il gelo a muso duro. Se poi ti dovesse andare male, che te ne importa. Le tue due foglie e i tuoi cinque fiori deperirebbero ma là, sottoterra e al sicuro, c’è sempre il tuo fido bulbo. Puoi sempre ritirarti a dormire e aspettare un momento più idoneo. Alla fine, sarà stata come una risata fragorosa quando nella stanza cala il silenzio improvviso. E tutti ti guardano…
…e a te viene ancora più da ridere!

Continuiamo a scendere e il mondo si riapre su un pianoro. Il vento porta rumori lontanissimi, eppure chiari e distinguibili. Una lamiera sbatacchiata dal vento. Risate. Un cellulare che squilla.
Le mie ginocchia urlano pietà. Superati i trent’anni arrivano, sibillini e fastidiosi, i primi segni della maturità corporea. Le giunture perdono elasticità in maniera appena percettibile, ma fastidiosa. Le scelte si fanno meno frettolose, più ragionate. I macigni grossi e piatti inducono immancabilmente ad una sosta. Mi fermo che è quasi mezzogiorno. Siamo scesi in fretta, ma il flusso dei miei pensieri è sembrato infinito. Come quando sogni e ti sembra di averlo fatto per un periodo di tempo lunghissimo. E invece sono passati solo i cinque minuti di intervallo tra un rinvio della sveglia e l’altro.  Sotto di me, c’è un tappeto di biodiversità. Affastellati, caparbiamente aggrappati alla roccia, quasi uno a ridosso dell’altro, migliaia di piccole forme di vita vegetano e godono della loro esistenza su quell’unico masso su cui mi sono seduto. Borracine arrossate, Borracine spinose, Cedracche, muschi, licheni crostosi. Una minuziosa mappa soffice al tatto e dai colori tenui, ogni specie ad agghindare in maniera diversa il suo minuscolo pezzetto di mondo.

L’occhio umano è meraviglioso, a livello anatomico. Ma pecca di egocentrismo in maniera assoluta. Proietta infatti, dinamiche e comportamenti propri della nostra specie, su altre creature viventi che nulla ne sanno di competizione e gerarchie. E infatti cado inizialmente in errore. Le creature di questa roccia dapprima mi sembrano impegnate in una silenziosa e lentissima guerra tra di loro. Ognuno cerca, con tempi geologici, di allargarsi il più possibile. Conquistare superficie litica ad ogni costo, per estendere il proprio dominio cellulare e non farsi colonizzare dalle altre forme di vita. Un braccio di ferro tra creature minuscole, ognuna tesa fino allo spasmo, nello sforzo di vivere.

Per fortuna ho imparato a fermarmi e guardare il mondo con altri occhi. Studio quegli esseri ad uno ad uno. I licheni, forme di vita intermedie tra il mondo animale e vegetale, sgretolano la roccia rendendo disponibili, a tutti la ciurma, nutrienti minerali che altrimenti sarebbero rimasti intrappolati nella roccia. I muschi si imbibiscono d’acqua anche solo con un po’ di umidità mattutina, rilasciandola poi lentamente e mettendo in comune il loro surplus idrico. Le cedracche spaccano la roccia, creando fenditure dove tutti infilano quante più radici possibili. Le borracine assicurano zuccheri complessi a tutto il sistema, tramite le ife del micelio attorno alle loro radici. È una perfetta collaborazione organizzata. Non c’è che da prenderne esempio, in una visione ecologica e non egocentrica.

Arriviamo alle macchine che è ora di pranzo. La discesa è finita. Andiamo in pace.

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foto:
1. discesa da Monte San Calogero.

2. Un tocco di viola: Scilla silvestre.
3. Sedum, muschi e licheni.

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Salvatore Bondi

Salvatore Bondi

Mi chiamo Salvatore Bondì, ma sembra non ricordarselo nessuno, dato che mi chiamano tutti Totò. Sono un naturalista specializzato in bighellonagine. Ozioso e poetico quando me lo si permette. Riflessivo e perspicace, ma solo quando piove e non posso stare all’aria aperta. Ottimi voti in zompettamento su e giù per i prati. Mi occupo di Natura sotto tantissimi aspetti, dalla guida escursionistica all'outdoor education, fino alla Permacultura. Ah, e adoro scrivere sul mio blog!


Il mio blog | Saturi di Natura (saturidinatura.it) nasce nel 2014, una sintesi del sapere accessibile a tutti che ruota su un argomento principale: la Natura! Credo molto nella condivisione del sapere. SdN ha un grosso obiettivo: essere un punto di riferimento nel panorama dell’educazione e della divulgazione ambientale sul web.
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