Reportage

#85 OLTRE LA SOGLIA

testo e foto di Jury Romanini  / Noceto (PR)

02/01/2021
7 min
Il Bando del BC20

Oltre la soglia

di Jury Romanini

Tempo fa, prima che chiudessimo il mondo fuori, mia moglie mi regalò un viaggio in Giappone.
Intendiamoci, non è una cosa normale, dovevo essermelo meritato. Non c’era al mondo un marito più felice. Saremmo dovuti partire insieme ma un pancione sempre più ingombrante ce lo impedì, così fui “costretto” ad andare da solo. Lo sognavo da sempre. Solitudine compresa.

Tentai un MaNoDàiCheForse falsissimo, ribattuto da un altrettanto falsissimo TranquilloNonTiPreoccupare. Se non è amore questo… In ogni caso l’idea era quella di tornarci insieme, prima o poi.

I giorni seguenti li passai a scrollare, zoomare e calcolare itinerari con Google Maps, e a fare quella cosa con l’omino arancione di Street View che mi piace un sacco. Devo trovare qualcosa che lei non farebbe – mi ripetevo – così non le dispiacerà, o le dispiacerà meno, lasciarmi partire.

No, davvero, l’omino arancione è una figata, ci resto sempre come un bimbo davanti a un prestigiatore. Percorri le strade di paesi e paesaggi nei luoghi più lontani del mondo (lontani geograficamente e culturalmente); vedi le insegne, i cartelli, ti fai un’idea del tenore di vita, di come curano le strade dell’atmosfera. Idee magari molto sbagliate ma non molto più sbagliate di quelle che mi farei se fossi davvero lì, credo. Mancherebbe solo un aggeggino, vicino al pc, capace di riprodurre i profumi e suoni del posto. A sbuffetti, tipo. E il cerchio sarebbe chiuso.

Esclusi subito Tokyo. Troppo ovvia. Stessa cosa per Hiroshima e Nara, e stessa cosa avrei dovuto fare con Kyoto ma non me la sono sentita. Cazzo, Kyoto! – mi son detto – non posso non andare. Giusto un‘occhiata – mi son anche detto – poi ci torneremo insieme.

Scartai, insomma, tutto lo scartabile e alla fine trovai la mia metà.

Non ci potevo credere. Era perfetto per me, perfetto da fare in solitaria, immerso nell’immagine del Giappone per me più affascinante. Il Kumano Kodo sembrava messo lì ad aspettarmi: l’antico pellegrinaggio sacro dei primi imperatori, a sud della remota e montuosa penisola di Kii.

Quello l’avrei fatto anch’io – disse subito mia moglie. Vabbè, però non l’avrebbe messo proprio tra le prime scelte.

Arrivai all’Aeroporto di Osaka l’8 di aprile. Due giorni dopo, smaltito il jetleg, presi il treno per Tanabe, prefettura di Wakayama. Avevo avuto giusto il tempo di assaggiare il Giappone della mia fantasia, grazie a un paio di indigeni, in un locale, che mi avevano fatto bere e morire dal ridere.

Da Tanabe partiva la corriera per Takijiri Oji, il punto di partenza del percorso. L’autista aprì il portellone e mi fece scendere sulla curva di uno stradone di montagna. Ero l’unico a scendere a quella fermata.

Dall’altra parte della strada c’era un piccolo info point deserto e un paio di negozietti con prodotti tipici e cianfrusaglie. Di pellegrini neanche l’ombra.

Una signora anzianotta e molto sorridente mi convinse a provare gli umeboshi. Vicino alla signora, disposte su un panno in file ordinate, c’erano delle palline rossicce, credo a macerare. Ho scoperto dopo che si chiamano umeboshi, sul momento ho solo stramaledetto la vecchia. Mi ha fatto segno di prenderlo, che me lo regalava e, non so come, ho capito che serviva per affrontare il cammino. Mi ritrovai la bocca rovinata da quelle prugnette salate, acide e mollicce. Uno schifo.

Il sentiero di infilava subito su per un bosco fitto e ombroso. Faceva freschino. Pensai di coprirmi meglio e partii.

Il Kumano Kodo è un antico pellegrinaggio sacro, paesaggisticamente bellissimo, ricco di storia e suggestioni. La mia speranza era di ritrovare le sensazioni che il giovane me stesso aveva vissuto sul Cammino di Santiago parecchi anni prima.

Proprio per un cazzo. A metà della prima salita, tutta sassi e radici, già mi pentivo di non essere in un Izakaya a scolare shochu e sakè. Negli anni, la mia condizione fisica era un tantino peggiorata. Sudato e ansimante, circondato da una vegetazione che minacciava monotonia e troppa familiarità, non ero più così convinto di passare sei giorni su una montagna. Brutte parole come sprecare, perdere, rovinare, tentavano d’infilarsi in ogni pensiero. Non c’era voluto molto per ritrovarmi tra le sinapsi l’ultimo sentimento che mi sarei aspettato di provare: delusione.

Poi è successo qualcosa. Cosa, di preciso, sto ancora cercando di capire mentre scrivo.

Ricordo l’inizio del sentiero come un cambio netto di paesaggio, un sottosopra di elementi che forse, col tempo, è diventato anche mentale. Se la strada, là in fondo, mi aveva permesso di camminare a testa alta guardandomi intorno con la leggerezza del turista, la salita mi aveva tirato giù e schiacciato a terra, occhi e gambe, obbligato al presente, al respiro, alla fatica. Di colpo.

Credo che la mia testa sia entrata nella montagna diverso tempo dopo aver mosso il primo passo. Probabilmente, in quel momento, dovevo ancora sbarcare dall’aereo.

Insomma, ero lì e non ero lì. L’approccio con Osaka mi era sembrato buono: i ciliegi in fiore, gli inchini, le lampade dei locali nei vicoli, le sopraelevate, il sushi. Direi scontato ma, in qualche modo, lontano. Di tutto quel vedere avevano goduto gli occhi. Il resto del corpo seguiva a rimorchio. Non c’era sorpresa. Le emozioni non erano piene, direi neanche tanto originali. Forse, dopo anni di anime, fumetti, film e libri, ero sin troppo preparato, quasi protetto da una conoscenza così vasta da ridurre una distanza culturale enorme.

Grandissima cazzata. Non conoscevo neanche gli umeboshi. Certo, mi avessero paracadutato nel mezzo della Papua Nuova Guinea avrei avuto emozioni più forti ma non era quello il problema.

C’è una storiella zen, un koan, che spiega la mia condizione: un tipo si presenta da un grande Maestro giapponese. Il Maestro lo fa accomodare e gli prepara il tè. Il tipo fa un sacco di domande, vuole sapere tutto. Il Maestro lo ascolta e intanto versa il tè. Il tipo continua a chiedere e il Maestro continua a versare fin quando il tè trabocca dalla tazza bagnando il tavolo e i pantaloni del chiacchierone. Ma perché? – chiede quest’ultimo. La tua mente – dice il Maestro – è come questa tazza di tè.

In breve: avevo la testa piena di troppe minchiate per godermi il viaggio.

Dall’Ebisu Bridge avevo guardato il podista luminoso di Dotonbori come fossi stato davanti alla TV o a un post di Facebook. Credevo di aver camminato per le vie di Osaka ma non avevo fatto altro che scorrere la città col dito, senza toccarla davvero. Avrei potuto fare altrettanto dal divano.
Pagai quella distanza in cima alla prima salita, ansimante e con gli occhi sbarrati come appena risvegliato da un incubo.
Ancora non capivo cosa mi stesse succedendo ma continuai a camminare.

Kumano è sempre stata considerata una regione di grande forza spirituale in cui gli dèi abitano l’essenza stessa del paesaggio naturale. Io guardavo le statuette jizo e i tempietti shinto, sulle tabelle di legno leggevo di leggende e del passaggio di personaggi storici ma restavo uno spettatore col fiatone.

Volevo, come ogni romantico (e ogni ingenuo), essere parte del Kumano Kodo. O renderlo parte di me. Ma per quanto camminassi restavo fermo, per quanto entrassi nella montagna ne restavo fuori.

Come prigioniero di una soglia.

Mi aggrappavo ai tronchi degli alberi, stringevo il muschio dei massi, a volte raccoglievo la terra e la osservavo, l’annusavo, la studiavo come se potessi trovarci qualcosa di diverso, o un segreto. Non riuscivo proprio a prenderla, quella montagna.

A pensarci oggi, credo che la montagna non volesse essere presa ma compresa.

Una delle cose belle del Kumano Kodo è che nessuno fa il Kumano Kodo. In sei giorni di cammino, escluse le aree dei tre grandi templi, avrò incontrato sì e no quindici persone. In compenso mi sono riempito gli occhi di cose belle. Camminare per ore, da solo, in un panorama così affascinante, ha aiutato a resettarmi. Con l’aumentare dei chilometri calava la fatica. Il mio fisico e, di conseguenza, la mia mente si adattavano alla montagna. I pensieri superflui scivolavano dallo zaino e si perdevano qua e là, lungo la strada: alle tane dei rospi lasciai le false motivazioni; alla salita di bambù regalai sudore e pre-concetti e dimenticai le illusioni più ingenue tra le antiche rovine mangiate dal bosco di un piccolo villaggio. Poco a poco svuotavo la mia tazza di tè. In cambio raccoglievo esperienze e piccole emozioni, leggere come la felicità. Camminavo con molta calma, come fossi al museo. Contemplavo e godevo. Con tutto il corpo.

Un’altra cosa bella del Giappone sono i torii, i portali che separano la zona profana dalla zona sacra. Sono quei cosi enormi composti sostanzialmente da due pali e una traversa. Ce ne sono ovunque. Attraversandoli ci si purifica l’anima, così da potersi presentare bei puliti davanti ai kami, gli spiriti del tempio. Che poi sono un po’ come le maestà in appennino, dalle mie parti. Un tempo le mettevano all’ingresso e all’uscita del paese, vicino alle fontane o agli incroci per tenere lontani folletti e spiritelli vari. La magia è universale.

Non so quanti torii ho attraversato prima di chiedermi come “funzionassero”.

Poi me lo sono chiesto. Ho cercato di comprendere. Ed è stupido ma bello credere che tutti quei portali mi abbiano ripulito e liberato da qualcosa che mi teneva lontano.

Ok, qualche dubbio sull’efficacia di quegli autolavaggi per anime mi resta ma non è importante. L’importante è stato attraversare la soglia e andare oltre.
Avevo smesso di guardare il mondo dal divano e, finalmente, camminavo.

Il sesto giorno tornai a Osaka. La città era un’altra città. Le immagini dei ciliegi in fiore, degli inchini, delle lampade nei vicoli, delle sopraelevate e del sushi erano rimaste sulle montagne, impigliate alle radici sporgenti o trattenute da certi sassi “portamonete” posati secoli fa sotto il sorriso bonario dei jizo. Avevo a disposizione altri cinque giorni di Giappone.

Ripresi fiato e continuai a camminare.

_____
foto:
1. Ingresso all’antico cammino del Kumano Kodo.
2. Le statue di Gyuba Doji, rappresentazione dell’imperatore Kazan in groppa ad un cavallo e ad una mucca e di Ennogyoja, il fondatore della religione Shugendo, un culto misto basato sulla venerazione degli spiriti della montagna.
3. Chichi-iwa rock: la roccia sotto la quale fu abbandonato il figlio appena partorito di Fujiwara Hidehira, un potente signore della guerra. La roccia e lupi protessero il bimbo fino al ritorno del padre. Il Kumano Kodo è costellato di questi piccoli luoghi sacri dove i pellegrini lasciano monete come buon auspicio.

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Jury Romanini

Jury Romanini

Sono un grafico. Scrivo, disegno, corro e cammino. Ogni tanto incontro le montagne.


Il mio blog | Ho scoperto Altitudini col BC2019. Non partecipo quasi mai ai concorsi ma a questo faccio fatica a rinunciare e mi chiedo come mai non partecipino molte più persone! Altitudini.it è mia rivista digitale.
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