Racconto

Una storia fatta coi piedi

Un percorso antico, rinnovato da una nuova idea di Dolomiti, dedicato al 50esimo anno di nascita del CAI Domegge. Un sentiero da sentire con i piedi che slega il tempo dal cuore.

testo e foto di Gianfranco Valagussa

14/04/2019
4 min

Toni è un cacciatore.
Ha una moglie, una figlia, un cane e un tabià ristrutturato in una radura frequentata da caprioli e pochi cervi. Passano di lì anche la volpe, il tasso e la martora. Fanno parte della famiglia, non li mirerà mai.
Io sono solo. Nella mia strada, al centro del paese, passa la martora che si mangia i cavi ecologici delle auto parcheggiate. A volte, Toni, lo incrocio al bar, altre volte in auto, non siamo ancora pronti per salutarci. Ci studiamo, forse, o forse non ci sono motivi per andare oltre un’occhiata.
Toni parte presto, la domenica, quando è ancora buio. Sa dove andare, ha uno scopo, una ragione pressante per salire solo col cane, fuori dal sentiero. Ascolta tutto ciò che si muove: i rumori, i canti, capisce cosa si dicono i codirossi, cosa chiede il becco storto. Ascolta il picchio.
Io parto quando mi sveglio e tutto si decide la sera precedente al bar del centro. Decido soprattutto dopo aver visto le previsioni meteo. Ho comprato libri, dvd specializzati, ho frequentato corsi notturni e visitato musei interattivi. Non so ancora distinguere un merlo da una cincia, un passero da un fringuello. Non so se spreco tempo o se ho una minima possibilità di successo. Mi accontenterei di poco, mi basterebbe, passeggiando con un’amica poter dire: «Ascolta…, senti questo canto, sai cos’è?». Lei con un sorriso mi direbbe dolcemente: «No, dimmelo tu…» ed io con tutta sicurezza potrei raccontare storie, leggende, origine del nome, etologia ed altro ancora. Ma non è così, accidenti.
Toni è nato in paese, la madre non voleva correre rischi andando in ospedale. Partecipi, alla nascita, tutti i vicini di casa. Io sono stato partorito in clinica. Periferia di una qualsiasi anonima città il cui nome non conta, un palazzone tra parcheggi e affollate fermate di mezzi pubblici. Nessuno si è accorto di nulla. Routine.

Parto solo come sempre, zaino, merenda e cartina Tabacco 016.
Parcheggio l’auto al Cercenà. E’ presto, non c’è ancora luce, ieri sera non c’era nessuno al bar, è fine mese e le paghe non sono ancora entrate. Sara, Emilio e Giuseppe dormono ancora, le asine e le capre no, stanno già cercando l’erba migliore.
Salgo veloce verso Dàlego, le brusade, la panoramica, sosta a Forcella dell’Elma. Passa un camoscio di corsa, svolazzano due femmine di forcello, arrivo all’orto del Montanel. Di solito salgo a dare un’occhiata agli Spalti da Forcella Lisetta. Oggi no, parto diritto per il Cadin di Montanel, andrò su una cima forse, vedremo.
Il catino si sta schiarendo, il silenzio è uniforme, inviolabile. Al bivio decido. Svolto a destra verso la cengia che attraversa la parete, so che si passa me lo ha confermato un vecchio del paese. La traversata termina al sole. Un vecchio ometto segnala il passaggio. Guardo a sinistra, parete verticale, guardo a destra, tracce di passaggio. Bene una cima me la faccio. Una lunga costiera promette panorami invidiabili. Vado veloce mi basta un buon panorama, per la contemplazione tornerò, adesso voglio scendere al rifugio Padova.
Dalla ritrovata forcella, tra i due versanti scendo prestando attenzione a quella valle ampia e solare chiamata la Caccia grande ed è qui che si capisce il significato del nome. Da tutte le direzioni giungono canali ghiaiosi, corridoi tra i baranci, cenge erbose: è la grande casa del camoscio, ricca e solare. Da una cornice scende guardingo un camoscio. Corna piccole, questa la so, è una femmina. Smuove pochi sassi è prudente. Mi immobilizzo. Ecco dietro compare veloce, mirando alla mamma il piccolo. Mi siedo, vorrei sprofondare tra le pietre, nascondermi, godermi la visione, accarezzarli quasi.

Toni parte presto, quando è ancora buio. Sa dove andare, ha una ragione per salire solo col cane, fuori dal sentiero.
Panorama sui Monfalconi e sugli Spalti di Toro
Torri senza nome quasi al termine del sentiero.

Shpem! Shpem! Due colpi secchi, due fucilale.
Chiudo gli occhi. Con un fragore di sassi madre e piccolo scappano, esplodono i sassi sotto gli zoccoli, in pochi secondi torna il silenzio. Riprendo il passo, veloce verso i mughi del Col de l’Utia, il rifugio dei cacciatori. Di là sono partiti i colpi. Sto quasi correndo, ma che mi prende, perché? Rallento al termine delle ghiaie. Tra i mughi sbuca una figura, verde mimetico, il cane accenna ad abbaiare ma basta un’occhiata per fermarlo. Intesa perfetta, invidiabile.
E’ Toni. Alzo la mano con un timido cenno di saluto. Ricambia alzando la testa, si vede il collo sotto la barba nera. Il cane si avvicina cauto, coda tra le gambe, annusa tutto: il terreno, l’aria, i miei pantaloni, l’erba. Di nuovo basta un rumore della bocca che torna al punto di partenza. Che intesa, invidiabile. Gli comunico che sto scendendo verso il Padova nuovo e oso una domanda: «E tu?». Mi guarda, mi accorgo del profondo colore grigio-azzurro degli occhi. «Vado di là», mi dice e intanto gira lo sguardo nel vuoto, verso le pareti meridionali del Cridola. «Di la?», chiedo stupito. Conferma e prende la direzione, dopo due passi si gira e mi dice: «Vien anka tu».

Beh, non so perché sono andato, ma oggi posso dire che nessun sentiero mi ha mai dato quelle sensazioni. Emozionante, selvaggio, preciso, inimmaginabile. Segue sospeso sulla valle una serie di cenge, cornici, ghiaie e tratti di pascoli dove le stelle alpine proliferano insieme ai raponzoli che sbucano dalle rocce. A intervalli, ampi canali e solari pareti avvolgono culmini rocciosi. Mi indica un canale: «Di là si va sulla cima del Cridola, quella ovest». Proseguiamo alla base delle rocce, compatte e verticali, si apre una grotta, profonda e fresca per niente umida. «Ecco qui mi sono fermato per la prima notte all’aperto nella mia vita, col papà, aveo tredese ane». C’è qualcosa che sta cambiando nell’aria.
Questi sassi stanno dicendo qualcosa, i piedi stanno parlando alla testa attraverso il cuore. Non siamo più un perditempo e un cacciatore col cane, siamo dispersi, naufraghi del tempo… Si fa buio, abbiamo raggiunto il rifugio Padova scendendo di corsa per un ghiaione nascosto che termina a Forcella Scodavacca. Una birra al Padova, un’altra al Cercenà. Ci salutiamo.
Inventario della giornata: un mare di sassi, pareti inaccesse, quattro parole, un tempo infinito. Da domani, con Toni, ci saluteremo ancora con un gesto, ma non sarà più quello di prima.

Emozionante, selvaggio, preciso, inimmaginabile.
Non so perché sono andato, ma oggi posso dire che nessun sentiero mi ha mai dato queste sensazioni.
 
Il Col de l'Utia in primo piano
Il Landro dei pionieri

IL SENTIERO ALPINISTICO DEL 50ESIMO

Un vecchio mondo che si rinnova e si ripresenta pronto ad essere frequentato, in silenzio, senza clamori, con rispetto. Le nuove Dolomiti, sconosciute e solitarie, terreno di un gioco che ha radici lontane, tra avventura e nostalgia.

Nel 2017 la Sezione CAI di Domegge di Cadore ha compiuto cinquant’anni di attività e per ricordare questo traguardo è nata l’idea di unificare alcuni percorsi per consentire l’attraversamento del versante meridionale del Gruppo del Cridola e dare vita ad un unico sentiero: il Sentiero Alpinistico del 50esimo.
Un percorso antico rinnovato da una nuova idea di Dolomiti, nella realtà un itinerario che slega il tempo dal cuore. Da sentire con i piedi.
E’ un itinerario selvaggio, con passaggi di 1° e 2° grado di difficoltà, segnalato solo nei punti di accesso con apposito logo e tabelle, per il resto solo ometti di pietre. Non si tratta di un sentiero fatto di nuovo, con solchi precisi, bollatura standard, scalette e corrimano, anche la tracciatura GPS qui non serve, è inutile, bastano occhi e sensibilità. Un sentiero che slega il tempo dal cuore. Da sentire con i piedi che non ha bisogno di parlare.
Di qui sono passati per migliaia di anni i camosci, controllati dai rapaci. Poi generazioni di cacciatori hanno lasciato il segno nei nomi dei luoghi, nelle varie grotte. Infine i pionieri dell’alpinismo. Ma non i valligiani trasformatisi in guide alpine per racimolare qualche soldo. No, i primi sono stati, proprio da questo versante, Oscar Schuster, l’esploratore delle pareti fassane e del Caucaso, morto in un campo di prigionia durante la Grande Guerra, che conquista la Cima Ovest del Cridola e passa per cresta alla orientale, già vinta da Julius Kugy con Pacifico Orsolina. Poi Antonio Berti con il fido Luigi Tarra trovano una calda via alla cima principale. Prima invernale nel 1930 di Emilio Comici e Giorgio Brunner. Mica bruscolini! Poi negli anni ’80, Ferruccio Svaluto Moreolo e i Ragni di Pieve a tracciare una serie di vie proprio sopra il bivacco.

L’avvicinamento avviene dalla Val Talagona, parcheggiando presso il piccolo ma accogliente rifugio Casera Cercenà, poi si raggiunge la Capanna Sociale Baita Montanel che con tutti gli accessori, legna-gas-luce, consente una ottima sosta. Il balzo avviene il giorno successivo. Per cengia di camosci nella parte bassa della parete ovest di Cima Herberg, si valica Forcella del Crodon di Scodavacca. Dalla Forcella del Crodon conviene salire in cima all’omonima vetta: da qui si vedono tutti i colossi dolomitici orientali e la Cresta di Confine.
Nel nuovo versante, quello della Val Prà di Toro, il Col de l’Utia (utia è antica denominazione ladina di rifugio per cacciatori) governa l’ingresso a quei quasi duemila metri di cenge che raggiungono l’ampio valico di Forcella Scodavacca. E’ un susseguirsi di guglie e pareti inesplorate: si passa dal landro dei pionieri, una grotta profonda dove non si può tirare diritti senza una pausa ed ammirare la migliore vista sui Monfalconi e gli Spalti di Toro. Dal sentiero salgono verso l’alto due itinerari di Wolfgang Herberg e le salite alle due vette del Cridola segnalate con i soli ometti. Oggi anche i climber, Gianmario Meneghin in testa, hanno scoperto i solari appicchi dell’Ago.

Nell’estate del 2019 è prevista l’inaugurazione del Sentiero Alpinistico del 50esimo. Per ogni informazione www.caidomegge.it.

Un sentiero che slega il tempo dal cuore. Da sentire con i piedi che non ha bisogno di parlare.
Gianfranco Valagussa

Gianfranco Valagussa

Sono nato a Milano nel 1953, muore Stalin e Buhl effettua la prima salita del Nanga Parbat. Andrò in montagna con l'oratorio nel '69, al Passo Gavia tra le due province di Brescia e Sondrio. E' il tempo delle ribellioni, delle speranze, dei sogni. Poi è stata una gran corsa con una infinità di amici, alcuni mancheranno per sempre, altri per intervalli più o meno lunghi. Per una decina di anni ho partecipato con altri al gruppo dei Danger, con Luca Visentini, Asola, il Meteo, lo Spaccasedie, Jo Keller, Shmel, Fulmine, Claudio e Zucchero, Angie, Bruno. Oggi, un nuovo impegno più tranquillo ed istituzionale, presidente del CAI Domegge, dove vivo. Impegno: promuovere le altre Dolomiti, quelle ignorate, quelle senza padrone, quelle dove tutti siamo ospiti.


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