L’attimo di dopo

Quel sole me lo ricorderò per tutti i giorni che scorreranno sulla filigrana delle mie emozioni...

testo e foto di Achille Rumolo  / Napoli

21/11/2017
5 min

Quel sole me lo ricorderò per tutti i giorni che scorreranno sulla filigrana delle mie emozioni solitarie, silente come il destino all’alba, fiammeggiante come dardi all’orizzonte e mai domo.

L’acqua mi solletica termicamente i malleoli e il luccichio della sabbia avida d’umidità fuorvia i pensieri lascivi. Com’è lieve la terra anche senza presagio di morte. La brezza dorata cosparge l’aria d’incanto, non esiste uomo oltre l’uomo mortale, effimero e perenne come la schiuma delle onde. L’appagamento dei sensi riscuote il mio consenso, cesso di esitare e mi denudo, scevro di pretenziosità e pudore al chiarore primigenio d’un mattino che langue il sereno; l’acqua assorbe le mie membra, sono imbalsamato nel fluido vortiginoso. Ogni cosa è al proprio posto, in questo brandello d’esistenza impudica. Tergiversando calamito il bagnasciuga e me ne approprio, sporcandolo di me. Vestito solo d’anima, mi accascio in perdurante abbandono, in una posa come se fosse per sempre, con l’incertezza letteraria di volermela raccontare. Brulico nella finezza sabbiosa senza rigidità, mi possiedo senza inganno, leggero nell’inermità della mia catalessi. Poi, paesaggi, stranieri, spine, effigi, paludi, sentieri, conchiglie, volti, stormi d’uccelli, luci, suoni, ululati e guaiti. Conosciamo una vita in armatura.

In quei momenti non ho desiderato altro più di quanto mi sia stato offerto; solo il dente infame ed avvelenato di un cane irsuto e lebbroso riesce a disintegrare l’idillio incubatore delle mie sensazioni cristalline e mi sconvolge per l’inquietudine, più che dal dolore o dal panico improvviso. M’aizzo come un incompreso. Localizzo, identifico e focalizzo. Intorno a me una schiera di bramanti famelici quadrupedi abbrutinati dall’istinto di sofferenza. Due grandi, sovradimensionati rispetto alla loro ombra, uno di statura media e uno basso, tracagnotto, minuto, ridicolo. Quattro bestie, tutte di colori differenti ma non di molto, irascibili, che si palesano selvaggiamente nel delirio cosmico per sbranare i miei prodigi. Sfoco un mostro tentacolare a più teste, utopia della cognizione.

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Sono nudo e senza pietà, sangue rappreso un mosaico sul corpo.
Oggi ho vissuto due volte.
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Attorcigliato in quella spaventosa consapevolezza di non essermi mai sentito come loro quanto stavolta, nudo e caldo, brandisco con antropologica tenerezza una freddezza illusoria. I loro abbai echeggianti sono la risposta sgarbata al tumulto interiore, un rigurgito d’angoscia. Il battito cardiaco circoscrive dune di aritmia da sentirmi invisibile, un contorsionismo intestinale mi avvinghia. La tensione si propaga nelle vene turgide per lo sforzo concettuale di accettare il reale, immanente e spaventoso. Uno di loro, il torvo, azzarda di nuovo ad azzannarmi, ma in maniera blanda, lo schivo senza abilità, solo contromisure. Mi accorgo di sanguinare dall’ascella o giù di lì. Il mio busto sembra dipinto d’un arte oscura. Dolore zero.

Lì dove il tempo mi attraversa, provo il disagio più grande di una piccola esistenza, ne realizzo l’importanza, l’essenza. Scruto senza oltraggio occhi incolori, respingenti, forse gli stessi che avevo io poco prima, la natura ci fa uguali e poi ci rende distinti. Io nudo, anche d’idee, dinanzi a loro, nudi, da sempre. Mi separa da loro l’incapacità di apprezzarmi in queste condizioni, via lo spirito via la vita. Eludo ancora un azzannamento, a stento faccio passi, sconnessi. Non ho più niente da me. La morte turpe mi avvolge e circonda con la suggestione di una vita apparente. Forse niente è più pauroso di questo, ho vissuto per morire o morirò per vivere veramente. La paura è una chimera.

Seppur con rassegnazione, m’istruisco sull’oblio della coscienza. Al diavolo il principio dell’immortalità. Sono fermo e libero, in attesa dell’assalto definitivo, nessuno intorno a me, solo la fine. C’è vento, ma non mi porta con sé. Occhi chiusi, statuario nello spazio. Serro a più non posso palpebre e pugni. Il boato, ruggente, poi un silenzio angelico…

La sabbia era come l’avevo immaginata. Il mare dondola la quiescenza dei sensi. Schiudo incredulo due fessure con le palpebre, mezzaluna d’iride accecato dal bagliore, mi meraviglio di me stesso. Di là dalla montagna spaccata, sparute staccionate divelte fiancheggiano un casolare vetusto. Il branco corre agitato sciamamante dietro un grosso trattore trainante un’arrugginita ruspa scavatrice. Un uomo solo al comando. Tormenti frettolosi, nel zefiro tiepido. Cosa c’è al di là delle ore perse?

Irretito a terra, quasi inchiodato, guardo le nuvole pulite, candide, incellofanate. Penso che qualcuno mi aspetterà, da qualche parte. Nella morbida folgore albeggiante, Il sole accarezza ancora le fronde e le vesti. Il cielo è plumbeo, sa di conciliazione. Sono nudo e senza pietà, sangue rappreso un mosaico sul corpo. Oggi ho vissuto due volte.

Achille Rumolo

Achille Rumolo

Sono uno scrittore senza genere.


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