Reportage

#2 C’E’ ANCHE UNA ALTALENA

testo e foto di Valter Guglielmetti  / Novara

24/10/2020
9 min
Il Bando del BC20

C’è anche un’altalena

di Valter Guglielmetti

Sono solo trentaquattro anni che salgo al Rifugio Andolla, penso di esserci stato circa ottanta volte e di averci dormito più di quaranta. Perché così tante direte voi, non hai altri posti?

Potrei dire che è perché si trova alla testata della valle Antrona (gran bel posto, vedere per credere), in mezzo ad un anfiteatro maestoso di grandi montagne, poco conosciute ma cariche di storia e sulle quali si sono scritte molte pagine dell’alpinismo ossolano. Ci si arriva facilmente, bastano due ore di camminata, e metà del percorso costeggia un bellissimo lago. La zona è Parco della valle Antrona.

O perché è un rifugio non troppo grande, pulito, dove se Dio vuole non ci sono i letti con le reti sfondate ma cuccette disposte su robuste assi di legno perfettamente lucidate, ed ogni materasso è fisicamente separato da quello vicino, non potranno mai toccarsi, c’è uno sbarramento.
E se Dio vuole non c’è rete cellulare, quindi le persone sono pressoché costrette a guardarsi e parlarsi, non a guardare uno schermo di plastica.
E’ in una posizione ottimale per tutte, davvero tutte le attività che si possono fare in montagna: escursionismo facile o impegnativo; sconfinare in Svizzera per fare contrabbando, questa è terra di spalloni; c’è una ferrata non banale che sbuca a 3000 e passa metri; alpinismo semplice e molto difficile; salire un 4000 per creste e ghiacciai; raggiungere bivacchi sperduti in altre valli; starsene seduti fuori col binocolo a guardare quelli che faticano sulle grandi vie (anche questa è un’attività di montagna, una delle più utili).

Perché conosco da trent’anni il gestore, il Marco Zanelli, e la sua famiglia, siamo amici e ci rivediamo sempre con grandissimo piacere.
Invidio Marco oltre ogni limite, lui se ne sta lassù quattro mesi all’anno, lontano dal caos della città e da molti dei casini della vita. Oh certo, so bene che a volte non è facile avere a che fare coi clienti, e quando il tempo è brutto e non viene su nessuno le giornate sono lunghe da far passare. Ma alzarsi la mattina col sole e vedere quello spettacolo immenso ripaga molte cose.
In realtà nessuno di questi perché è la vera ragione per cui vado all’Andolla. Anzi in realtà è per tutti questi perché.
Ma ce ne sono altri.

Perché quando sono salito la prima volta, da solo, era appena stato costruito ed era ancora chiuso, l’avrebbero aperto un mese dopo. Era soltanto una grande costruzione in pietra nuova di zecca, con le finestre sbarrate da assi di legno, pronta ad affrontare molte e molte stagioni, e centinaia di inverni di completo isolamento. Eravamo soli io e lui, in una giornata un po’ così, non bellissima, quella prima volta ho sentito che quel posto mi stava dando qualcosa (ma non ho mai capito cosa) e l’ho sentito molto “mio”.

Perché conosco ogni metro del sentiero di salita, so qual è il punto preciso in cui lo si vede, lontanissimo, per la prima volta. Prima di arrivare in quel punto mi emoziono perché sta per accadere che rivedo il rifugio, e sono contento di tornare su ancora una volta, una volta di più. In discesa, al contrario, mi fermo in quel punto e mi giro per salutare il rifugio Andolla e dargli appuntamento per una prossima occasione, sperando con tutto me stesso che ci sarà, perché ho paura che quando smetterò di salire all’Andolla la mia vita non sarà più la stessa.

Perché nell’ultimo tratto di sentiero l’Andolla è lassù, che sorveglia quelli che stanno salendo, mai troppi per fortuna, ma sono certo che quando mi riconosce mi saluta, dice “Ciao! Finalmente! Era ora che tornassi a casa” e quando sbuco sul terrapieno corro subito ad abbracciare le sue mura spesse mezzo metro, dalle quali non vorrei staccarmi mai. L’arrivo sul terrapieno finale per me è un momento mistico, pieno di emozione più dell’arrivo in vetta al Cervino. Un’emozione sempre nuova, non inaspettata ma sempre un po’ più forte di come me l’aspettavo.

Perché quando sono su ascolto e memorizzo tutti i rumori dell’Andolla, ne annuso gli odori, lo tocco. Ho portato a casa anche l’incarto dei biscotti della colazione, lo conservo. Una reliquia.
Una sera ho cenato al rifugio con Marco, Bibi suo collaboratore, Franco, grande Guida alpina e Dante, esperto falegname antronese. Tutti allo stesso tavolo, solo noi cinque in tutto il rifugio. Ecco, credo che non ci sia mai stata un’altra situazione nella mia vita nella quale ho pensato di essere veramente al mio posto come quella sera.

E’ bella l’attesa della cena. Mi godo il lento scorrere dei minuti seduto dietro al rifugio, a guardare le montagne che si tingono della luce d’oro rosso del tramonto, col vento del Vallese che fa fumare le cime. C’è una grande pace, si sentono i torrenti scorrere nei valloni qualche centinaio di metri sotto. Spesso Marco e sua moglie mentre curano i fornelli si affacciano dalla porta posteriore della cucina, molto vicino a dove ci sediamo noi, per scambiare qualche chiacchiera, ed è un momento di serenità, dove si capisce che è sempre bello ritrovarsi ogni anno durante la stagione.

Perché a volte salgo verso metà ottobre, quando è chiuso e c’è una grande solitudine tutto intorno, in una di quelle giornate un po’ uggiose d’autunno, con un sole che comincia ad essere un poco stanco di questo emisfero e sta per andare a svernare nell’altro. Mentre sono lì faccio il paragone con una giornata d’estate, piena di gente, confronto le sensazioni. Ascolto il silenzio solenne dei luoghi, mi siedo dietro al rifugio di fronte alle montagne, scoprendo ancora una volta che quella è l’Andolla che mi piace di più.

Perché durante i noiosi inverni che passo in città mi metto a fantasticare su quanto mi piacerebbe passare un inverno, magari da dicembre a fine marzo, su all’Andolla, completamente in solitaria, in una simbiosi completa col rifugio e con la natura che lo circonda, ad osservare dalle finestre i metri di neve che si accumulano, a guardare come cambiano le altissime pareti di roccia, mentre la stufa ingoia legna. A godermi meravigliose notti di silenzio, a cui seguono giornate sempre uguali ma sempre diverse.
Spesso ho portato a casa un sassolino raccolto al rifugio, per passare l’inverno con un pezzetto di Andolla. L’estate successiva lo riportavo su, a casa sua.
Spesso durante l’inverno telefono al rifugio, sapendo benissimo che è chiuso, ma mi piace il fatto che dentro la struttura risuonino gli squilli. Non l’ho mai detto a nessuno. Quando uno è fissato è fissato (il colmo sarebbe se qualcuno dovesse rispondere. Cosa direi ? quasi certamente nulla, metterei giù anche un po’ impaurito. E magari richiamerei subito per sentire cosa ci fa uno lassù in inverno, cercando di sapere tutto, curioso come sono.)

Perché quando salgo la prima volta della stagione devo toccare tutte le rocce che fiancheggiano il tracciato, non le vedo da un anno, ci dobbiamo salutare dato che siamo amici. Se qualcuno mi vedesse e mi chiedesse perché tocco tutti ‘sti sassi gli darei proprio questa risposta, forse mi prenderebbe per pazzo. Ma forse capirebbe che è l’unica risposta possibile.

Perché quel rifugio lo immagino come una cosa viva. Durante i lunghi inverni nevosi dell’Ossola lo penso spesso mentre sono qui a vegetare in città. Lui è là, solo, finalmente in pace che si gode le meravigliose stagioni bianche di quelle montagne, incurante del vento gelato e della neve.
Felice.

Una decina di anni fa ci ho portato su Jacopo che aveva 10 anni ed è il mio cuginetto, per fargli trascorrere un paio di giorni tra le montagne con me. Per lui si trattava della “prima”: prima vera camminata in montagna, prima notte fuori casa senza genitori, prima volta e prima notte in rifugio.
Sui primi metri del sentiero, quante volte li ho fatti e quanti anni, non riesco a credere che due passi dietro a me ci sia Jacopo. Chissà cosa pensa, qui per lui è tutto nuovo. Guarda in giro e mi fa tante domande, cerco di rispondergli in modo da fargli capire quanto amo questi posti, penso sia una specie di investimento per il futuro.
Nel vallone Ronchelli ecco il momento topico: il rifugio Andolla si vede per la prima volta, lontano lassù. Ci fermiamo, lo faccio vedere a Jacopo e insieme lo salutiamo. Non ho mai tralasciato di fare questo cerimoniale.
Sulla pietraia finale il rifugio è lì che sembra di toccarlo, si cammina su grossi sassoni che ogni tanto si muovono e fanno quel “clac” caratteristico che adoro.
«Ci siamo Jacopo! guarda che bel rifugione, vedrai come staremo bene qui per due giorni!»
«C’è anche un’altalena!»
In realtà è il traliccetto giallo dell’arrivo della teleferica di servizio, ma da qui lo si può confondere benissimo con un’altalena. Beato lui che vede moltissime cose con la fantasia e col gioco.

L’estate scorsa, quella del Covid-19, sono salito la prima volta a metà luglio. Tra mascherine, gel, percorsi obbligati, dico la verità, non mi è piaciuto molto. Marco era molto indaffarato per garantire il rispetto delle prescrizioni di sicurezza, abbiamo avuto poco tempo per parlare. E poi c’era qualcos’altro, una specie di sensazione negativa che aleggiava sopra ogni cosa. Boh, sarà questa nuova situazione dovuta alla pandemia, mi sono detto.
A metà pomeriggio sono sceso e sono passato a salutare Norena, sua moglie, in negozio a Villadossola.
La bordata è arrivata. Ultima stagione, dopo trentadue estati lassù. Lo molliamo, il tempo passa.

Marco forse non ha avuto il coraggio di dirmelo. Ecco cos’era la sensazione negativa.
Sono sicuro che questa decisione scaturisce in parte anche dal fatto che nella primavera del 2019 è stata smantellata la teleferica di servizio, che costituiva il cordone ombelicale del rifugio rendendolo indipendente da elicotteri o altro e permettendone contenuti costi d’esercizio. L’impianto era in servizio solo da quarantasette anni (c’era ancora il rifugio vecchio), sempre mantenuto in perfetta efficienza. Non dico nulla sul motivo della rimozione, nessuna questione di usura materiali o simili. C’entrano persone e la chiudo qui.
Esco dal negozio ed è la fine di un’epoca.

Dal prossimo anno non sentirò più il “Pronto Rifugio Andolla” di Marco quando telefonerò su. Ed immagino quasi con terrore come sarà l’ultima volta, tra due mesi. L’ultima firma sul libro, l’ultimo giro di chiave, il distacco definitivo da quella sala da pranzo, quella cucina, quelle stanze. Da quei piccoli segreti che solo il gestore sa. L’ultimo sguardo. Tento di capire come saranno i loro pensieri sapendo che molto probabilmente non torneranno più all’Andolla, non vedranno più i panorami che si vedono da quelle finestre, lasciano il posto che ha occupato una parte fondamentale delle loro vite, perché trentadue stagioni vogliono dire qualcosa.
Certo prima o poi doveva succedere, nulla è per sempre e ci sono cose ben peggiori di un gestore che lascia un rifugio di montagna, cerchiamo di rimanere normali (sì, certo) e non drammatizziamo. Ma io sono un vecchio romanticone sentimentale e mi attacco alle situazioni che mi piacciono, voglio loro bene. L’Andolla è una di quelle.

Realizzo che uno dei punti fermi della mia vita cambierà, e che senza saperlo ho sempre considerato Marco ed il rifugio Andolla la stessa cosa. Lui è il rifugio, e solo uno come lui poteva resistere trentadue stagioni, perché fare il custode all’Andolla non è come farlo da un’altra parte, lassù l’isolamento è maggiore, come le difficoltà. Mi chiedo se qualcuno prenderà la gestione del rifugio, pensando con sgomento che se nessuno sostituirà Marco andrà perduto tutto l’immenso e meraviglioso lavoro fatto dai volontari del Cai di Villadossola e questo sarebbe un peccato imperdonabile.
Arrivare lassù come questa metà di luglio e vedere il rifugio chiuso. Sbarrato.

Aspettavo la domanda, che infatti è arrivata, dentro di me.
Tornerò al rifugio Andolla?
Il traliccetto giallo è stato segato alla base, caro Jacopo.
C’era anche un’altalena.
La prossima sarà una nuova stagione per l’Andolla, ed anche per me.
Sinceramente, non so cosa succederà.

_____
foto:
1. “emozione dell’arrivo” .
2. “e là dietro s’avanzano grandi montagne” .
3. “come un galeone coi vessilli al vento, tra le prime brume d’autunno il Rifugio Andolla naviga verso l’ennesimo inverno, che trascorrerà in solitaria , finalmente lontano dagli uomini, con sola compagnia di neve e gelo, tormente e cieli di cristallo”.

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Valter Guglielmetti

Valter Guglielmetti

Ex modestissimo alpinista (ora fallito), attuale escursionista scandalosamente pigro. Orgoglioso comunque e sempre di appartenere al Club dei 4000 di Macugnaga. Attuale, ed unico, obiettivo della vita andare in pensione.


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