Racconto

#65
L’ULTIMA NOTTE DI HERMANN BUHL

Come nelle migliori tradizioni, dopo una giornata fosca il tramonto fu splendido e pieno di speranze. Subito dopo la cena, servita da camerieri in divisa e consumata davanti alla vetrata vista monti.

testo e foto di Saverio D'Eredità  / Udine

Ritorno
26/01/2022
9 min
Marco_Rossignoli_014

L'ultima notte di Hermann Buhl

di Saverio D'Eredità

Come nelle migliori tradizioni, dopo una giornata fosca il tramonto fu splendido e pieno di speranze. Subito dopo la cena, servita da camerieri in divisa e consumata davanti alla vetrata vista monti, uscimmo a raccogliere gli ultimi raggi di sole, sedendoci ciascuno su un proprio masso.

Veniva voglia di parlare, di raccontare storie, mentre le creste scorrevano come titoli di coda sullo schermo via via più nero del cielo. E di storie ce n’erano tante. La cordata di tredici che precipita dalla cresta del Palù, le prime ascensioni della Kuffner con scarponi chiodati o le salite lampo di Herman Buhl. Qualcuno raccontò di aver letto di una salita di Buhl al Bernina con sua moglie. Avevano dormito proprio qui e il giorno dopo avevano attraversato il ghiacciaio ancora in piena notte, la luce delle frontali che andava ad intermittenza con le stelle, e ancora nell’ombra la risalita dei contrafforti della Fortezza. Gli ultimi passi, nella nuova luce del giorno verso il cielo del Bernina. “Peccato nessuno di noi si chiami Hermann Buhl”, ironizzò qualcuno per spezzare il momento e anticipare la ritirata verso i piumoni. La storia della cordata che cadde dalla cresta, invece, non la ricordò nessuno perché non c’era proprio niente da ridere. E comunque noi eravamo solo in quattro.

Faceva strano avvolgersi in dei piumoni e immaginarsi in equilibrio sulle cornici lassù. In genere la notti in rifugio sono abbastanza scomode da farti desiderare il prima possibile di uscire. Qui si stava bene, invece, maledettamente bene. E di voglia di puntare la sveglia alle 3 proprio non ce n’era. Mi accucciai nel piumone, ma ero a disagio. Nonostante l’insolita comodità o forse proprio per questa, non riuscii a prendere sonno e mi rigirai talmente tante volte da perdere ogni beneficio. Infine il richiamo della molta acqua bevuta mi trascinò fuori dal letto. Fuori, il cielo era splendidamente stellato e la montagna sembrava aspettarci. Tutto era perfetto, le stelle, il cielo nero, il rumore lontano dell’acqua di fusione, i crepitii dei seracchi sempre più tenui, sempre meno preoccupanti. Le cornici brillavano nell’aria gelata.

I pensieri riandarono alla notte di Buhl, a quella volta con sua moglie e a quanto deve esser stato bello per lui, abituato alla nuda pietra o peggio ancora ad insonni maratone, passare una notte, una soltanto, senza la nostalgia di lei, della casa, del calore. Cosa deve aver provato Hermann a non recitare la parte del cavaliere che parte con la bici verso pareti ignote e per una notte, una notte soltanto, non sentire mordere il desiderio del ritorno? Tornai a letto con una insopprimibile senso di nostalgia. Si può sognare la nostalgia?

“Qualcuno raccontò di aver letto di una salita di Buhl al Bernina con sua moglie. Avevano dormito proprio qui e il giorno dopo avevano attraversato il ghiacciaio ancora in piena notte“

Attesa

Nella tendina a quota 6800 Hermann e Kurt si strinsero l’uno all’altro cercando di conservare quel poco di calore prodotto dal fornelletto. L’acqua del tè bolliva e loro stavano in silenzio assorti sul pentolino. L’umidità prodotta dal fiato e dai loro corpi che, scaldandosi, rilasciavano calore condensò rapidamente, creando dei festoni ghiacciati sul telo.

Domani, se il tempo li avesse aiutati, sarebbero arrivati in cima al Chogolisa. Nonostante la fatica e l’appagamento successivi alla salita del Broad Peak, il richiamo di quella cima si era fatto via via più forte. Avevano portato l’alpinismo un passo più avanti, ma ancora non lo sapevano. E se anche lo avessero saputo la cosa non avrebbe importato più che tanto. I loro occhi erano puntati su quel trono di luce e di neve così ammaliante, così imponente, grande e lontano come una promessa. Il Chogolisa, la cui forma ricorda il velo di una sposa. Il tè bollente restituiva calore e conforto alle mani strette come in preghiera attorno al gamellino. Man mano che l’aria nella tendina si scaldava e i muscoli della faccia si rilassavano tornava anche la voglia di parlare, scambiarsi qualcosa in più dei semplici comandi di cordata.

«Qual è stata la tua salita più bella Hermann?».

La voce di Kurt si espanse nella tendina giungendo all’orecchio di Hermann come un suono lontano. Da tempo Kurt desiderava chiederglielo. Si erano ritrovati quasi casualmente e quindi più naturalmente amici nel corso di quelle settimane. Non tutti infatti, avrebbe fatto a ritroso gli ultimi passi verso la vetta del Broad Peak, solo per accompagnare un compagno rimasto indietro. Seppure nel silenzio che lo contraddistingueva, Hermann rimase colpito da quel gesto. A Kurt sembrava incredibile poter condividere la tenda, il sudore e il silenzio con un uomo del quale nutriva una così profonda ammirazione. Tutto, in Hermann, parlava tanto della sua grandezza quanto della sua semplicità. Eppure era così difficile strappargli poco più di un sorriso nel volto bruciato. La solitudine del Nanga Parbat doveva aver segnato il suo animo più di quanto non volesse ammettere a sé stesso. Quegli ultimi passi dovevano averlo allontanato definitivamente dal mondo degli uomini.

Il giorno dopo cavalcammo una dopo l’altra le cime dei Palù, nessuna cornice si ruppe e nessun seracco si aprì. Passammo attraverso la montagna in silenzio, approdando come naufraghi alla capanna “Marco e Rosa”. Pagando il dazio di troppa comodità qualcuno ebbe mal di testa, qualcun altro non mangiò, io accusai solo un lontano senso di nostalgia, ma non potevo dirlo a nessuno. Così ripensai ancora una volta a quella notte di Buhl e tutte le altre che avrebbe passato nella sua breve, ma folgorante esistenza. Il giorno successivo rinunciammo alla cima del Bernina, anche se adesso non saprei spiegare se per colpa del vento, del mal di testa o della nostalgia. Scendemmo schiacciati da un’incalzante bufera. Continuavo a pensare a Buhl, alle sue scalate, a come fosse riuscito guadagnare metro a metro le montagne. Strappandole al caotico flusso della vita. Qualche volte ci si sente minatori al setaccio di materie preziose, pochi grammi di polvere raffinata da secchiate di sabbia e ghiaia.

Appena sotto i 3500 metri il vento si placò e il grande bacino del Morteratsch si mostrò in tutta la sua calma imponenza. Non un alito di vento. Tempo splendido. Tempo di rimorsi. Il solito passo in meno, la solita indecisione, i soliti fantasmi. L’occasione giusta per una bella litigata e conseguenti musi lunghi. Invano lanciai velate proposte di ritentare, ma nessuno rispose e la discesa riprese, ingiustificatamente lunga. La montagna sembrava trattenerci. Attraversammo salti di roccia, nevai, morene distrutte come rovine di antiche città. L’ultima sosta sul letto del ghiacciaio trascorse senza dire nemmeno una parola. Gli speroni del Palù ci sovrastavano senza pietà.

“Se è vero che molti possono permettersi il lusso di partire a pochi è concesso il privilegio del ritorno“

Passando oltre

Senza cima

Hermann continuava a preparare la cena, mentre nella sua mente scorsero immagini diverse, come a frammenti, via via più nitide man mano che sentiva la punta del naso e delle dita scaldarsi al contatto con la tazza e il vapore del tè. Attese qualche secondo, guardando fisso un punto tra il fornello e il saccopelo come a cercare di mettere a fuoco qualcosa.

«Se vuoi che ti dica il Nanga Parbat o il Badile, caro Kurt, lo posso fare. Ma non sarei sincero. Non mi piacciono sai, queste domande».

Kurt si chiese se la domanda non lo avesse infastidito? Ma subito un leggero sorriso, come di nostalgia più che di tenerezza, comparve sul volto bruciato di sole di Hermman.

«Vedi Kurt, alla fine noi che scaliamo le montagne, noi che saremmo disposti a qualunque sacrificio, a dare ogni nostro briciolo di energia e fino all’ultimo dei nostri averi per salirle… vedi, noi viviamo pensando o forse sognando che ci sia da qualche parte, in qualche continente, una montagna più belle delle altre. E che un giorno arriveremo ad afferrarla, a stringerla anche solo pochi istanti, quella pace che assolverà ogni nostra fatica, ogni nostro azzardo. Chissà cosa pensiamo di trovare su quella cima».

Il sorriso si allargò, il cuore si aprì. I secondi e i minuti, a quella quota non avevano importanza e probabilmente ne passarono diversi prima che Hermann riprendesse a parlare.

«E comunque, se proprio ci tieni, devo dirti che la mia salita più bella è stata sul Bernina, alcuni anni fa con mia moglie. Che giornata stupenda! Una montagna bellissima. Non sono mai stato così bene come quel giorno. Magnifico!».

Kurt sorrise e senza dire nulla riprese a scavare con il cucchiaio nel pentolino. I viveri erano pochi, ma tra due giorni sarebbero stati di ritorno. Terminarono la cena scambiandosi poche parole rispetto alla salita del giorno dopo. Tutto sembrava già scritto. Quindi Hermann si girò nel saccopelo e chiuse gli occhi. Per un attimo sentì il vento calare, il telo esterno non sbatteva come una vela nella tempesta. Pensò a sua moglie, a quel giorno sul Bernina, alla sua notte più bella. La domanda di Kurt aveva aperto una breccia da qualche parte. Attraverso la quale prese a scorrere un fiume in piena. Non c’era nessuna montagna, era vero. Nessuna cima. Perché la sua vera cima era il Ritorno. Partiva per tornare. Ad ogni sua azione per salire corrispondeva una, uguale e contraria, per scendere. Ma era solo laggiù, quando varcava la porta di casa, che sentiva tutto essere completo. Che il vuoto diventava pieno.

Sentì il cuore caldo e il respiro farsi più lungo. Domani sarebbero stati su e tutto questo poi sarebbe finito. Già assaporava il ritorno alla terra, alla polvere, quindi all’erba dei primi prati fragili ai bordi della morena. Un bagno caldo! E tutti quei giorni di ghiaccio sciolti di colpo come neve a primavera. E poi a casa, come una sinfonia lenta, come questo ghiacciaio che si stende per chilometri. Si sentì improvvisamente leggero, come un tuffo trattenuto da misteriose ali. Come spesso gli accadde in quei giorni non percepì il passaggio dalla veglia al sonno.

Il giorno dopo sarebbe stato Ferragosto e nella mia testa non c’erano che montagne. Avremmo potuto rifiatare un giorno e ritentare. Cambiare versante. Eppure alzando gli occhi alla polverosa morena che mi separava dal rifugio, crebbe repentina la voglia di tornare a casa. Di voltare le spalle a quella parete luccicante che era stata la mia ossessione per giorni, come se non esistesse più. Il film era finito, lo schermo era stato infranto. Senza aspettare un secondo, un’ora, una notte, tornare a casa. Dovevo tornare da lei, da lei che aspetta e aspetterà chissà quante volte ancora, punto fermo nel deserto delle mie ossessioni. Avevo un debito da saldare. Un debito che abbiamo tutti noi che passiamo le nostre domeniche, le vacanze e ogni ritaglio del tempo liberato in questo giardino incantato e riservato solo a noi stessi. Un debito destinato a rigenerarsi ed essere assolto, all’infinito. Dimentichi del mondo, irriconoscenti verso chiunque, inconsapevoli del fatto che quella che chiamiamo libertà in realtà è solo avidità.

Noi che sappiamo solo aspettare le condizioni e talvolta nemmeno quelle. Noi, che in realtà non sappiamo cosa voglia dire aspettare, non abbiamo idea di quanto pesino quegli abbracci e le parole sussurrate a stento nel buio di albe solo a noi note. E il cercare da qualche parte nel cuore un’immagine che ci tenga compagnia nelle ore e nei giorni di distanza, quando fuori dalla finestra i giorni piombano sull’orizzonte, o attendendo sulla porta di un rifugio. Senza capire, talvolta, ma con il pudore di non domandare il perché.

Se è vero che molti possono permettersi il lusso di partire a pochi è concesso il privilegio del ritorno. Salutai gli amici e partii. Volutamente allungai il percorso, evitando i nastri roventi delle autostrade ed inanellando, con consapevole illogica, passi e valli. Concessi al mio egoismo il gusto di indugiare. Riattraversai le Alpi al contrario e quel tragitto solo pochi giorni prima riempito di mille altri progetti fu sostituito da un monologo silenzioso ed inquieto. Le casse della macchina si riempirono della nostra musica ed ognuna delle canzoni rimandava ai nostri momenti. Ad ognuna delle sue lunghe attese, di un biglietto di ritorno, di una telefonata con poco campo, di una promessa non scritta. Giunsi a casa nel pomeriggio che sapeva di fuoco, avevo ascoltato tutta la nostra musica e l’auto aveva bisogno di benzina come io di una doccia e di non pensare più a nulla. Lei non sapeva di aspettarmi e mi lasciò entrare.

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Saverio D'Eredità

Saverio D'Eredità

Palermitano di nascita, udinese d'adozione, alpinista (dilettante) per scelta. Camminare, scalare, sciare e scrivere sono i diversi modi in cui amo esplorare le montagne. Un giorno qualcuno gli chiese "ma cosa ci fa un palermitano sulla neve?” e da allora sta ancora cercando di dare una risposta. Nel frattempo scia, scala e scrive, ma nessuna di queste cose la prende veramente sul serio. Ha pubblicato alcune guide alpinistiche sulle Alpi Carniche e Giulie, condivide pensieri e racconti sul blog “Rampegoni”, ma ci tiene a precisare che tutto questo lo fa comunque nei ritagli di tempo, quando non si occupa di progetti europei e soprattutto dei figli.


Il mio blog | Rampegoni è un blog a quattro mani, ideato e sviluppato da Saverio D’Eredità e Carlo Piovan. Nato come costola dei siti web Rampegoni e Quartogrado, si propone di raccogliere spunti, pensieri, riflessioni sul mondo verticale e non solo, ampliando lo sguardo oltre i meri dati tecnici per tornare al vissuto dell’alpinismo.
Link al blog

5 commenti:

  1. Jussi chinchio Jussi chinchio ha detto:

    Bellissimo…un racconto che mi ha spalancato gli occhi su un abisso di nostalgia e mi ha fatto molto riflettere.
    Grazie

    1. Saverio Saverio ha detto:

      Grazie Jussi, è un piacere sapere che le parole possano arrivare a tante persone nelle maniere più imprevedibili. Uno stimolo a scrivere ancora.

  2. Melania ha detto:

    Sempre più bravo Saverio???

    1. Saverio Saverio ha detto:

      Grazie Melania 🙂

  3. Domenico ha detto:

    Sai che pochi pensano al ritorno con la tua chiarezza? Il viaggio è proprio quello che scrivi: mille volte mentre cammino penso a casa ma anche che se non fossi lontano non sarebbe la mia musica. Grazie per tutti gli Hermann che hanno il coraggio di essere egoisti e di riconoscere che è una condizione concessa a pochi.
    Buona vita

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