Ora sono solo un bambino
testo e foto di Martina Marzari / Folgaria (TN)
Mi chiamo Emilio. Mamma mi chiama Emil, come Émile Zola. Mamma ama la Francia, ma non sa mezza parola di francese.
A lei piace Parigi perché ci ha passato cinque giorni in viaggio di nozze. Poi non ci è più tornata perché “Paganini non ripete” come ama dire spesso, ma secondo me questa citazione non c’entra molto con il motivo per cui non vuol tornarci.
Comunque. Ora vi racconto la mia storia, ma non la chiamerei proprio storia, è un racconto fatto di pensieri, riflessioni, ideologie del mio, del nostro tempo.
Io sono Emilio e sono nato in un freddo pomeriggio di gennaio. Sono nato, o forse è meglio dire mi hanno obbligato a nascere, perché io di venire in questo mondo non ne avevo tanta intenzione. Mamma sognava un parto naturale, di quelli da cinema, dopo un paio di spinte arriva il bel pupone. Non è stato così. Le hanno fatto bere anche l’olio di ricino, quello che i fascisti davano ai personaggi resistenti che non si volevano mettere in camicia nera, ma nemmeno quell’intruglio è servito a smuovermi dal mio morbido nido di placenta.
Alla fine la mamma è finita in sala operatoria, un taglio e boom! catapultato sulla Terra. Lei non si è accorta, perché non so se per lo sforzo o perché non dormiva da troppe ore, fatto sta che il mio primo urlo di vita l’ha sentito come se fossi stato in America latina, poi ha perso i sensi, è partita. Partita per un viaggio che sembrava infinito. Partita per scalare il Mont Blanc o il Kilimangiaro. Chissà. Ha visto luci, ha sentito la vita scappare via come una lepre in fuga tra boschi di larici e, in quel frangente, ha pensato “questo bimbo non lo vedo crescere, camminare”.
Il sogno che ha fatto è stato intenso. Si è trovata in un villaggio di montagna, un gruppetto di case abitate. Era notte quando è arrivata. Dalle finestre poteva vedere i fuochi dei caminetti accesi, le donne indaffarate a preparare la cena. Si sentiva il vociare dei bambini, il pianto dei neonati. La neve scendeva lenta, leggera. Non aveva con sé bagagli, ma solo quella borsetta di pelle tinta di viola acquistata in una botteguccia di Siena, parecchi anni prima. Dentro un quadernetto e una matita. Una foto sbiadita di lei che la ritraeva sul Becco di Filadonna con scritta sul retro la frase ”Tu sei ciò che cerchi”. Ad un tratto un signore aprì la porta e vide la mia mamma. «Cosa fa lì signora? Venga dentro o si prenderà un malanno!». Mamma disse grazie, con quella z che sembra s che fa tanto ridere papà. Dentro trovò la moglie, i figli, tre maschi. E si accomodò. Mamma trovò una famiglia ospitale, cordiale, dai valori semplici, genuini, come il latte fresco, come l’erba dei pascoli. Si integrò subito nella piccola comunità. C’era un clima di sincera fratellanza tra gli abitanti che avevano un’unica legge, quella del cuore. Si aiutavano, ma non solo nel momento del bisogno, ogni giorno era buono per tendersi la mano. Vivevano gli uni per gli altri, un po’ come se il Vangelo si fosse materializzato, si fosse fatto vivo tra la gente che abitava quelle alture.
D’un tratto il sogno è svanito. Tenebre. Luci interrotte. Camini spenti. Poi di nuovo luce, ma non quella del sole, bensì quella dei neon dell’ospedale. E sopra di lei, gli sguardi preoccupati di medici, infermieri, operatori sanitari. «Il mio bimbo, dov’è?» chiese con un filo di voce. «Ora te lo portiamo, mamma.» fu la risposta sorridente dell’ostetrica.
“Le tenebre non l’hanno vinta” dice spesso quando racconta questa storia, con uno sguardo sovraccarico di orgoglio femminile. La mamma fa tanto cinema, melodramma è la sua specialità, ma quella volta penso davvero che se la sia vista brutta. Forse quello è stato il preciso momento in cui ha raggiunto quella vetta, la vetta della consapevolezza della fragilità dell’esistenza. Sì, perché le vette non sono solo quelle di roccia e terra e radici, ci sono tanti tipi di sommità. E poi ci sono tanti percorsi, vie, strategie, circostanze per raggiungerle.
Ora sono solo un bambino
La mia prima vetta l’ho toccata quando mamma si è ripresa, quando mi hanno messo lì, sul suo petto. Proprio lì, dopo tanta fatica, pianto, rosso di sangue e tutto lucido di liquido amniotico, ho raggiunto la sua tetta, il primo vero ottomila della mia vita.
C’è sempre un desiderio, un bisogno alla base di ogni salita, di ogni missione. Il mio sogno, anche se non lo sapevo, si chiamava latte, il primitivo nutrimento del mondo. Ogni uomo è spinto da qualcosa. Conquistare un amore, ad esempio. Ho sentito di uno che è partito da Parigi, era un nero, africano che per conquistare una ragazza ha scalato l’Everest. Un po’ pazzo, come tutti gli innamorati. Poi ci sono uomini che si mettono in viaggio, affrontano mari e monti e deserti e fiumi in piena. Il loro desiderio più grande? Mantenersi in vita, dare un futuro ai loro figli. Eh sì, ci sono uomini che adorano viaggiare per divertimento, per piacere, per passione, uomini che invece si mettono in viaggio per salvarsi la pelle. Questa è la dura, vera varietà dell’umanità.
Tanti uomini ognuno con il suo colore di pelle, la sua religione, la sua lingua, il suo modo di vestire. Ci sono uomini che amano fare colazione con la brioche e il caffè macchiato freddo con latte scremato al vetro, uomini che hanno solo pane amaro da mettere sotto i denti. Ci sono uomini che vedono le guerre in tv e cambiano canale perché sono immagini troppo forti da sopportare e poi altri uomini che stringono tra le braccia i figli morenti a causa dei patimenti e delle malattie.
Ci sono vite e vite in sostanza, quelle che valgono molto, quelle che valgono zero. Sembra un racconto immaginario… invece è la realtà. Tutti fatti di carne e sangue e ossa ma con destini diversi, diverse le vette da scalare.
Sarebbe tanto bello se il sogno di mamma si avverasse. Un mondo come quel piccolo villaggio montano, un mondo fraterno, fatto di uomini con eguali diritti e doveri. E invece mi ritrovo in un luogo dove la legge del cuore non è la prediletta, perché quella del possesso, del denaro, della prepotenza è la vigente. Vedo tanto dolore nel mondo, morti, sopraffazione di deboli. Io, i grandi, proprio non li capisco.
Ho notato che spesso per affrontare la vita invece della gentilezza usano la violenza, picchiano con le mani, ammazzano con le parole. Prima al telegiornale parlavano di donne picchiate e violentate e uccise in questo 2021 appena trascorso. 116 in totale. Ma non è stato l’orco delle fiabe e nemmeno Gargamella a far loro del male. Sono stati mariti, compagni, fidanzati, in una battaglia che lascia occhi neri, lividi sulla fronte, mazzate nel cuore. Nell’anima di chi subisce, e di chi, come i bambini, sta a guardare questo film del terrore. Queste sono le vette dell’inferno, gli strapiombi dell’orrore umano.
“Un giorno sarai un uomo” così mi dice la mamma. Ma che uomo sarò? Che uomo voglio essere? Mia sorella, la nonna, la mamma sono le femmine che ho accanto. Mi accudiscono, mi amano anche quando strillo, anche quando sono insopportabile per il caos che combino in casa che in confronto Vaia è stata una brezza leggera. Una donna per un uomo rischia di morire di parto, una donna si annulla per veder crescere sano e felice il proprio figlio, una donna pazienta, aspetta, si prende cura. Questa è la mia conoscenza del mondo femminile. Le donne vanno rispettate, amate. Ora sono un bimbo e la penso così, ma da uomo, come la penserò?
Parigi è sempre Parigi
Il “cello” del nonno
Sento poi di tanti naufragi nel mare che chiamano Mediterraneo. Naufragi che causano la morte di migliaia di persone. Anche bambini. Mamma ha pensato che su uno di quei gommoni poteva esserci lei, con me, con mia sorella, con i nonni anziani, con un borsone colmo di speranza e di paura, perché il mare fa paura, tanta, quando le onde sono alte, e non vedi terra alla quale aggrapparti. Ah no, grazie a Dio noi non eravamo su quella barca, perché come cantava la Bandabardò “la fortuna è un fatto di geografia” e la nostra fortuna è quella di vivere tra le montagne del Trentino. Mamma era invece quella seduta sul divano, che guardava il tg, sentiva la notizia, sorseggiando un caffè d’orzo in tazza grande e scorrendo col dito le farneticanti notizie di Facebook. Seduti nella cupa, comoda e cretina indifferenza verso quelle vite in fondo al mare, verso quelle donne ammazzate. Ma in verità a sprofondare negli abissi, a spirare, eravamo noi, così come tutte le persone indifferenti, che se ne lavano le mani, perché, in fondo, cosa posso fare io per risolvere queste situazioni immense?
La vita è fatta di scelte, sì, ogni giorno posso scegliere quale vetta scalerò, oppure sarà la vita stessa ad indicarmelo, ad impormelo. La mia mamma è passata dagli abissi al paradiso, in pochi millesimi di secondo. Questo viaggio le ha fatto rendere conto che basta un soffio e la vita se ne va nel vento, così come è venuta, così come ti è stata data così ti viene tolta. Facile, veloce, un click. Ma non è detto che poi questa esperienza serva a migliorarsi, perché poi, i grandi, anche se “han visto la morte in faccia”, fan tanta fatica a cambiare in meglio, a gustarsi l’esistenza, a godere di ogni singolo prezioso respiro. Perché badano alle miserie superflue, ai lamenti smaltati, ai piagnistei inutili. E invece dovrebbero lottare per un mondo giusto, dove tutte le vite umane vengono tutelate. Abitare la terra per la felicità e la pace. Quella pace che si respira in montagna, quella pace di silenzi pieni di musica, vento, tremito di eternità.
Papà dice che alla base di tutto c’è il rispetto dei sentimenti e della vita. Che è sacra. E vivere è scalare, è gioire, è impegnarsi, è darsi una mano nella fatica dei giorni, è essere in cordata con tutto il mondo. Mi piace pensare che uomini e donne siano mano nella mano, verso la vetta, verso la luce, dove il più piccolo viene sorretto dal grande, dove l’anziano viene sostenuto dal giovane. Una grande immensa cordata di vita e di vite.
Voglio viverla a pieno questa cordata. Amare ogni giorno, come se fosse il primo giorno del mondo dopo il big bang e starci dentro, felice o infelice, viverlo.
Apprezzare quelle nubi che arrivano da ovest e portano neve, gustarsi quel piatto di pasta con ragù di ceci che ama tanto mia sorella perché è vegetariana, ascoltare a piene orecchie quelle note di violoncello che escono dalla finestra, quando passo sotto casa del nonno, che da autodidatta prende l’archetto e compone i suoi versi. Voglio essere un uomo sensibile. Amare la vita e cercare di essere una persona buona. Che si attacca al bene e rifugge il male.
Come quel signore, che nel sogno ha aperto la porta alla mamma, in quella fredda notte di gennaio e le ha offerto una speranza e una minestra calda.
Io sono Emilio e questa è la mia storia. Questi sono i pensieri, le fiabe, le storie che mamma mi racconta mentre mi addormento tra le sue braccia. Fra qualche giorno compirò un anno. Accolgo così il mio tempo, la mia vita, battito di ciglio e d’ali che verrà.
Bellissimo racconto. Per esprmere le emozioni che mi ha trasmesso direi una storia sincera,ricca di umanità.Grazie a questa mamma che ci ha regalato un tratto importante della sua vita.
Grazie di cuore per queste parole. Un abbraccio.
Bellissimo scritto Martina !
Un bellissimo regalo da Altitudini e da Martina per il nuovo anno. Grazie! Complimenti all’autrice!
“…tu sei ciò che cerchi…”
Proviamo a continuare la nostra quotidiana ricerca perché ciò contribuisca a costruire per tutti una vita migliore.
Brava Martina! Complimenti per questo bellissimo racconto! ?