Quanto leggerete è stato scritto pochi mesi fa. Sembrano passati anni. Anzi, pare che non sia accaduto[1].
Proprio in questi giorni il Nytimes, tornato nelle Valli Bergamasche, getta un occhio tra i paesi dove il bosco, a marzo, ha preso fuoco e quello che vede è sconcertante[2]. Gran parte degli alberi più antichi se ne sono andati e quelli rimasti non hanno forza di aspettare una nuova primavera.
Marzo 2020, Francesco lavora nei Servizi Sociali di un Ente Locale in una Valle Bergamasca, si occupa di una manciata di paesi nemmeno grandi che, davanti a montagne ancora più silenziose, oggi stanno pagando un elevato conto alla morte. Ancora difficile quantificarlo ché i numeri in televisione e sui giornali sono serviti solo a nascondere e a non far capire. Qua ci sono delle persone e giorni spesi nel trovare soluzioni e a non farsi sopraffare. Non dal virus ma dalla disumanità che lo ha accompagnato. Francesco non è un eroe, non ha fatto altro che essere sé stesso, credere nel suo lavoro e sentirsi parte della sua terra, delle sue montagne, dei suoi morti senza dignità. Di chi è la montagna? E’ sua.
Ho raccolto un po’ del suo diario, solo qualche giorno ché di più sarebbe stato troppo doloroso, i nomi, compreso il suo, sono cambiati ma la storia è questa.
GIORNO UNO. DICIOTTO MARZO
In ufficio ci siamo io e l’assistente sociale che decido di spostare nell’ufficio adiacente per precauzione. Ho trovato delle mascherine in cotone idrorepellente, non c’è altro di meglio e quindi vanno bene così. Ne compro, quasi un miracolo, mille per circa settemila euro da una ditta di V.A. che produce mobili e tessili.
Da giorni l’urgenza più grande è rappresentata dagli anziani, isolati nelle loro case. Sono malati e nessuno, vicini compresi, li vuole avvicinare. Mi arrivano brutte notizie su una coppia di anziani che sta a R.: lei è a letto da giorni, non mangia, non riesce a raggiungere nemmeno il bagno e suo marito, cieco, non è in grado di far nulla. Abbiamo cercato di aiutarli, lei sta morendo, non arriverà a fine giornata. L’assessore di R. ed alcuni volontari mantengono i contatti chiamandoli dalla finestra.
Ancora un’altra storia comune quassù: lei 82 anni di Milano, in Valle perché è morto un fratello settimana scorsa in RSA adesso segue l’altro fratello di 89 anni che non sta bene. La febbre è passata da un giorno ma continua a respirare a fatica così da aver trascorso le ultime due notti su una sedia perché stava troppo male a sdraiarsi. Tre giorni prima avevo chiamato l’ambulanza che, dopo aver preso nota, non è mai arrivata. Il medico di base, contattato dopo qualche ora di inutili tentativi, non poteva uscire per visitarlo perché oberato di lavoro. Anche lui era in attesa di due ambulanze per altri suoi assistiti. Ho provato a chiamare la Guardia Medica a Z., presidiata al pomeriggio con medici militari, ma il telefono era sempre occupato. Ci siamo sentiti ieri mattina, fortunatamente il fratello era riuscito a sdraiarsi un po’ durante la notte e a riposare. Finché la febbre non torna si va avanti così.
La maggior parte dei pazienti ha sintomatologia compatibile con coronavirus, con tutto quello che poi ne consegue. Nuclei familiari che scompaiono in pochi giorni[3]. A livello psicologico è devastante per gli operatori e per i caregiver. Non so ancora per quanto tempo potremo resistere.
Ecco, il non mollare è una caratteristica comune dei montanari ma qua, in Valle, è veramente un tratto fondante nel quotidiano. Forza e debolezza nello stesso tempo. Resilienza ed incoscienza. Quasi che il non mollare possa essere una specie di santo, di viatico, uno scudo a cui attaccarsi anche quando la morte ti sta ridendo in faccia. Odio la prosopopea del non mollare ma oggi chiudo anche io così: non molliamo.