Reportage

#87 NON ABBANDONARMI

testo e foto di Daniele Ceddia  / Milano

02/01/2021
9 min
Il Bando del BC20

Non abbandonarmi. Me lo ha detto la montagna

di Daniele Ceddia

Da dove si comincia? Dal primo passo. Quello che a volte è il più difficile da compiere.

Quello che fa varcare la soglia tra la porta di casa e l’esterno per portarci chissà dove. Si chiudono i battenti e con questo gesto ci si allontana dal rassicurante ambiente domestico. Fine delle certezze quotidiane. Si va verso l’esterno dove tutto capita per la prima volta, il mondo scorre a 5 km all’ora rendendo concreta e fisica quell’idea di divenire. Resto l’unico oggetto sempre presente nel paesaggio che lentamente fluisce. Ma facciamo un passo indietro.

La primavera è appena passata. Siamo nel 2020. È la prima volta, a memoria d’uomo, in cui un evento ci lega tutti modificando repentinamente le nostre abitudini. Un evento che rimarrà inciso nelle biografie di ognuno oltre che nella storia con la S maiuscola. L’emergenza sanitaria ci ha tenuti relegati in casa, privati della vita all’aperto e dei contatti umani. Abbiamo conosciuto momenti di solitudine. Ricordo le sirene delle ambulanze, i bollettini medici, gli stati d’ansia. Questa è stata la primavera del 2020. Primavera ha sempre significato, per me, richiamo. Richiamo dell’esterno, desiderio di terra e di natura, del profumo di prati che tornano alla vita. La natura chiama in primavera, io rispondo sempre. La mia mente non pensa ad altro. Progetta, escogita, si proietta già là, in luoghi immaginari.

Sono arrivate le rondini anche quest’anno assieme al sole tiepido e alle nuvole bianche nei cieli azzurri di aprile. Il mondo è un altro e i progetti fatti solo pochi mesi prima devono essere rivisti e calati nel nuovo contesto. Il desiderio di uscire e di vivere all’esterno si agita in me più forte di sempre. Voglio camminare e lasciare il resto alle spalle. Voglio camminare solo e attraversare città, boschi e montagne, fin dove il piede mi porti. Mi serve solo un pretesto, tutto il resto verrà da sé. Eccolo! Vado al mare, a trovare Valeria. Abbiamo passato tutto il periodo di lockdown separati, ognuno nella propria casa. Io a Milano, lei a Tirrenia (Pisa). Vado da Valeria a piedi per portarle un mazzo di rose. Ecco qui il pretesto. Poetico tra l’altro.

Per andare da Milano a Pisa a piedi, si può percorrere tutta la pianura padana fino a Parma e poi valicare l’Appennino attraversando il Passo della Cisa, per poi ridiscendere dall’altro lato in Val di Magra, cioè in Lunigiana che è già Toscana. Ma c’è anche un’altra strada che è stata percorsa per secoli e secoli e che collegava Pavia al potente feudo monastico di Bobbio in Val Trebbia e da qui portava fino a Lucca e poi a Roma. Una strada di montagna che attraversa diverse valli appenniniche che fanno da confine tra quelle che oggi sono le provincie di Piacenza, Parma e La Spezia.

La Val Trebbia per cominciare, poi l’alta Val di Nure, la valle del Ceno, la val di Taro per scendere dai promontori in Val di Magra dopo 130 km di alture e raggiungere Pontremoli, già Lunigiana. Ognuna di queste valli prende il nome dal fiume o più spesso torrente che l’attraversa. Da Pontremoli poi fino a Lucca e da qui a Pisa, valicando i Monti Pisani. Tutto a piedi. Il viaggiare a piedi per me è un gesto speciale, quasi sacro e rituale. Non lo interpreto come una pratica sportiva anche se, poi, un po’ di gamba serve sempre.

Per me il camminare è poesia, ricerca di bellezza, desiderio di immersione e ascolto del paesaggio, della sua identità e delle mille piccole storie che ha da raccontare. Storie che avvolgono luoghi eletti a contenitori di senso. La montagna. Cos’è la montagna se non un’allegoria? La vetta da raggiungere dopo una salita impegnativa è l’obiettivo conquistato con fatica e sudore. Per guardare giù, staccarsi dalle pianure del mondo e ammirarlo da una prospettiva più ampia. Ammirarlo dal settimo cielo. È desiderio di conoscenza. Di esplorare altri punti di vista per abbracciare anche i più difficili da raggiungere. È sfida tra se stessi e Natura. La montagna può essere tutti i giorni e in ogni luogo. E questo mio viaggio senza pretese, dalla porta di casa, con lo zaino in spalla, alla casa di Valeria, una montagna lo è stato sicuramente. Ho superato anche promontori veri, questo è certo.

L’Appennino è sempre montagna anche se, quando penso ad essa, immagino le alte vette rocciose delle Alpi piuttosto che le alture boschive dei passi appenninici. Tutto un altro mondo. Certi luoghi, sfuggenti e dimenticati, si possono assaporare solo da vicino, entrandoci dentro. Guadare un fiume mi ricorderà sempre il Nure, attraversato a piedi nudi e con tutto lo zaino in spalla. Mi ricorderà la sosta sulle sue rive, all’ombra di un albero, nella calura del mezzogiorno, coi piedi a mollo. Istanti di semplice, pura felicità. Tutto sembra, appunto, semplice sulla via, ma non è così. Stare da soli per ore nei boschi o sui declivi con un’idea un po’ vaga di dove si stia andando, non è sempre facile. Il corpo si abitua al camminare e alla fatica, è fatto per questo. La mente, invece, interroga sempre. Stare nei silenzi e nelle solitudini della natura, soli con sé stessi, è stata forse la parte più ardua. Tenersi a bada, rincuorarsi, prendersi cura di sé, avere fiducia, non lasciarsi andare, resistere ancora per un po’, mettere le paure al proprio posto, affidarsi. Sono alcune delle cose che ho sperimentato durante il viaggio.

La ricompensa è arrivata ad ogni sosta, che fosse la cima di un valico, un rifugio o una fontanella d’acqua fresca. Sono arrivato qui per sentire il corpo fremere di un sentimento di totale appartenenza. In alcuni momenti  il tempo non esiste più, resta l’aria intorno, i rumori degli animali, il bosco, la montagna che contiene e ospita. Non ho ancora detto i nomi dei borghi attraversati, dei passi valicati e le loro altitudini. Non ho detto nulla del tempo impiegato, dei chilometri percorsi, del dislivelli giornalieri. Non l’ho detto e non lo farò. Dirò dell’altro. Lo farò narrando un evento e l’incontro con una persona che per me rappresenta bene lo spirito dei luoghi attraversati. Parlo di parte degli Appennini, delle valli interne coi loro borghi diroccati, abbandonati e decadenti. Mi sento fortunato per aver avuto, per puro caso, l’occasione di raccogliere questa testimonianza e mi sento, in qualche modo, il suo custode. È parte delle voci della montagna. Inizia con me sul sentiero, a mezza mattina, in un fitto bosco di castagni e querce, 10 km fuori Bardi direzione Borgotaro.

In un viaggio di parecchi giorni e varie centinaia di chilometri, la giornata di maltempo può capitare. Il cielo diventa improvvisamente nero pece e nel bosco, già fitto di suo, cala il buio e il silenzio. La vita si prepara a far fronte alla minaccia e va ad accucciarsi nelle tane. Procedo a passo svelto nella speranza di uscirne il prima possibile. La mappa dice che un abitato è vicino. Borbottii, boati, crepitii e scoppi in lontananza non promettono niente di buono. Attendo ancora prima di mettermi il k-way. È solo qualche goccia. Poi il cielo si rompe lasciando cadere fontane di pioggia. Goccioloni trasformano il bosco in cascata prima di invadere il sentiero. Acqua, acqua e poi ancora acqua. Tutto è madido, umido, scivoloso e bagnato fradicio. Me compreso. E non si ferma. Iniziano i timori, i sassi scivolosi su cui posso mettere male un piede, le fronde che oscillano e che potrebbero cadere e poi chissà cos’altro si muove in questo scenario diventato d’un tratto cupo e sinistro.

Vedo una forma in lontananza fatta di muschio. È ciò che resta del muro di una casa di pietra. Conserva una piccola parte del soffitto, dove trovo momentaneo riparo e posso mettermi il k-way. Procedo poco dopo. Il sentiero esce dal bosco nello stesso modo in cui si esce da un tunnel e si rivede un po’ di luce. C’è una grossa roccia a sinistra mentre a destra appaiono le case. Continua a piovere a dirotto. Non c’è nessuno. Gli edifici sono abbandonati, i tetti sfondati, le mura diroccate e lasciate andare. Un cartello mi avvisa che sono a Monastero.

Vedo un campanile e lo seguo come fosse un faro sulla costa. Arrivo in una piazza deserta. Trovo riparo sotto una tettoia che sporge di neanche mezzo metro, non c’è altro. Non un’anima. Continua a venir giù che Dio la manda. Attendo qui rannicchiato per mezz’ora, tutto fradicio. Poi arriva una macchina che entra nel cortile della pieve. Poco dopo torna indietro. Un uomo mi dice che posso ripararmi in garage oppure bussare alla porta del parroco. Proprio quella lì, in fondo. Di lì a poco sono a tentare la sorte bussando alla porta.  Mi apre don Bruno, questo scopro poi essere il suo nome. Don Bruno ha più di 80 anni e vive in questa pieve da solo. Ogni tanto l’altro abitante del borgo abbandonato lo aiuta negli spostamenti. Mi fa sedere, mi offre un asciugamano che rifiuto, dei cracker e del vino rosso. Lui non beve.

Ecco un fortuito incontro tra sconosciuti, distanti anni luce. Un incontro che sa di passato medievale, quando i monasteri erano le sole certezze per i viandanti sulle strade. E qui siamo proprio a Monastero. Il destino rimasto inscritto nella toponomastica del paesaggio. Mi racconta don Bruno della sua fatica. Dei suoi 80 anni e dei suoi 200 devoti distribuiti in 5 borghi dove va a dire messa quasi ogni giorno. La casa è disfatta, i piatti nel lavandino e una vecchia radio è appoggiata in qualche modo sul comò. Il tavolo ingombro di libri e altre cose. Santini, candele. Mi racconta dei suoi 50 anni vissuti tra queste valli montane. Di come abbia assistito allo spopolamento iniziato negli anni ’60.

Di qui si va via, non c’è lavoro se non nei boschi o nella legna . Lavoro duro che nessuno vuol più fare, per questo sono rimasti solo anziani e pochi altri che arrivano dall’estero per fare le badanti o i taglialegna”. Mi racconta di questa pieve e del suo passato e di come è dura la vita in montagna. È dura, questo lo sanno tutti. Ma c’è montagna e montagna. È dura la vita a Curmayeour, a Chamonix, a Cortina e in tanti altri posti rinomati. Ma la montagna è altrove. È natura selvaggia e crudele che non si lascia addomesticare. Sta nascosta tra le valli, lontano dagli scintillii della società. La montagna è qui. Racconta don Bruno che d’inverno non può andare a dire messa perché c’è sempre neve e non passa nessuno a toglierla dall’unica strada che fa da collegamento con gli altri borghi semi-abbandonati. “Non ci vuol vivere nessuno qui, i giovani si spostano a Parma o Piacenza per studiare e lavorare. Siamo rimasti in pochi e ci affidiamo gli uni agli altri, altrimenti non si può sopravvivere”. A 80 anni si dovrebbe avere diritto al riposo, ad essere accuditi. Si dovrebbe aver diritto al racconto della propria vita a chi abiterà il futuro.

Se dovessi estrarre una parola da quelle che mi ha donato don Bruno, direi che questa è “Non abbandonarmi”. È una preghiera, una richiesta di cuore verso i figli di queste terre che sono andati via. Chissà dove. “Non abbandonarmi”. È la supplica della montagna che vive in simbiosi, da secoli, con l’uomo. “Non abbandonarmi”. È la parola che conservo dopo questo viaggio verso il mare per incontrare Valeria. Una settimana dopo circa, sono arrivato da lei con un mazzo di rose in mano. Comprato a Pisa, ovviamente. L’ho trovata lì, nel cortile, all’ombra della sua magnolia. Parlava al telefono ed era di spalle. Mi stava aspettando. Dopo tredici giorni a piedi tra valli, montagne e pianure, temporali e calure estive ero arrivato da lei. Sapevo di bosco e custodivo ancora, vivide negli occhi e solo mie, le immagini di un viaggio che non le avrei mai saputo spiegare. Tenevo in mano un bel mazzo di rose rosse.

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foto:
1. Il Ponte Gobbo sul fiume Trebbia a Bobbio.
2. L’abitato semi-abbandonato di Monastero sulla via per Borgotaro.
3. Strade di Pisa, fine del viaggio. Una mano, un piede e un mazzo di rose.

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Daniele Ceddia

Daniele Ceddia

Si occupa di pedagogia nell'ambito della salute mentale. Aspirante biografo, ama ogni storia di vita. Cammina, scrive e cerca il Monte Analogo.


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