Reportage

#76 MONTE BIANCO NELLA NOTTE

testo e foto di Agnese Mariotti

01/01/2021
7 min
Il Bando del BC20

Monte Bianco nella notte

di Agnese Mariotti

Il sonno era stato quello che precede i grandi eventi, irrequieto, profondo ma allo stesso tempo sensibile al minimo guizzo di umori del mio corpo o al minimo movimento delle mie membra: mi svegliavo allora, come affiorando rapidamente da un buio lontano che, a brandelli, mi rimaneva negli occhi. Sbattendo le palpebre cercavo di liberarmene, mentre il pensiero di quello che di lì a poco avrei fatto richiamava tutta la mia attenzione e mi scuoteva, caso mai me ne fossi dimenticata… Ma come potevo dimenticare?

Cercavo allora di tranquillizzarmi e di calarmi di nuovo nel silenzio per qualche minuto ancora: volevo riposare ed essere pronta poi.
A un nuovo risveglio, i primi rumori di passi e fruscii insistenti mi convinsero a controllare l’orologio: le 2 e 30! Era scoccata l’ora, era ora di andare.

L’eccitazione nel dormitorio del rifugio Goûter, lungo la via normale francese del Monte Bianco, fu presto intensa. In tanti si rivestivano di fretta, gli occhi piccoli, i visi tirati. Anch’io cominciai a prepararmi senza farmi distrarre dalle ansie altrui, mentre il cuore mi batteva più veloce, ed emozione, paura, euforia si rimescolavano nel mio animo.

Nella stanza degli attrezzi ritrovai la stessa tensione. La luce elettrica, ancora più sferzante nella notte, ben si accordava ai movimenti bruschi, alle voci troppo alte, agli spintoni e all’aria gelida che si spandeva in un istante ad ogni apertura della porta. Ma ancora non ne fui turbata: concentrata, in quel mio stato di esaltazione intima, infilai l’imbrago, sistemai picca, zaino e ramponi e mi sentii pronta a partire.

Uscimmo nella notte, Alessandro, Antonio e io. Solo qualche mormorio tra noi, ma ci scrutammo l’un l’altro per qualche secondo e trovammo conferma e intesa.
Sentii l’aria fredda frustarmi il viso e inspirai profondamente preparandomi alla fatica della prima mezz’ora. Sapevo che sarebbe stato duro per me far entrare in funzione il mio corpo a pieno ritmo a quell’ora insolita.

Cominciammo a muoverci sul ghiacciaio che si apriva dinanzi a noi: alzai lo sguardo e lo vidi, ampio e bianco, estendersi dal rifugio al Dôme du Goûter, stagliato contro il nero della notte. Era illuminato di una luce fioca, trasparente e calda che si diffondeva fino a tutte le montagne circostanti, riverberando sulla sua superficie e rischiarandone ogni ondulazione. La luna piena infatti campeggiava autorevole alla mia sinistra nel cielo terso, rendendo superflue le nostre lampade frontali.

Camminammo in silenzio su un pendio inizialmente poco ripido. Con stupore, notai che non stavo ansimando, che i muscoli rispondevano energici e che il mio respiro era già pieno e regolare. L’inclinazione lieve di quel primo tratto mi aveva senz’altro aiutata a carburare.
Il nostro passo lento prese a poco a poco vigore, sostenuto da una crosta di neve gelata che i ramponi abbrancavano saldamente. Senza distrarmi troppo dal tracciato, sollevai più volte lo sguardo lasciandolo spaziare in quel chiarore tenue su punte di roccia, dossi, avvallamenti che movimentavano di ombre il biancore del ghiacciaio; da qui, poi, lo lasciai scivolare più su e addentrarsi nel nero profondo del cielo, da cui riemerse dopo pochi istanti aggrappato ai lumicini ondeggianti delle stelle, per posarsi finalmente sul tondo invitante della luna.
Ma è luce fredda o tepore che profonde la luna piena? È altera o amorevole la luna?

Davanti a noi, scorsi le serpentine di altre cordate che ci precedevano, mentre qualcuna avanzava cadenzata più in basso. Ciascuna procedeva al proprio passo, un po’ sulla traccia già segnata, un po’ aprendone di nuove, ben distanziata dalle altre: quella notte non appesantimmo la montagna con i nostri clamori e inquietudini perché il mal tempo del giorno precedente che aveva bloccato noi e altri in rifugio aveva anche impedito a molti di arrivare.

Alessandro, Antonio e io continuammo a procedere sul ghiacciaio in muto, perfetto accordo, agevolmente inseriti in quella combinazione dinamica di elementi.
La salita, gradatamente più ripida, ci portò verso il Dôme du Goûter che toccammo senza raggiungerne la cima, e allora, a poco più di 4000 metri di quota, ci apparve la cima del Monte Bianco. La sua parete che ci apprestavamo a salire si innalzava bianca di ghiaccio e rugosa di rocce verso una cima arrotondata, sovrastata, nel cielo, da Orione e dall’Orsa Minore e splendente della luce della luna. Sussultai in quell’emozione quieta ma intensa che mi accompagnava dal risveglio. La mia mente era sgombra. Intenta a controllare la mia azione e ai movimenti dei miei amici e compagni di cordata, ero appena conscia della presenza di altre persone, mentre mi aprivo all’ambiente straordinario in cui mi trovavo, lasciando che la sua atmosfera — luci, colori, freddo, forme, sbuffi di vento, montagne, neve, ghiaccio — mi riempisse l’animo.

Il cammino era ancora lungo, e la notte continuava, tuttora ignara della luce originaria e calda — questa di certo — del sole.
In discesa raggiungemmo il bivacco Vallot. Mi resi conto che nonostante mi fossi preoccupata di muovere di tanto in tanto le dita dei piedi negli scarponi, alcune erano diventate insensibili. Entrammo nel bivacco, trovammo da sederci tra carte strappate e sacchetti vuoti abbandonati dai soliti troppo presi da se stessi per provare a conoscere altro da sé e mi levai uno scarpone. Strofinai le dita per qualche minuto senza sentire calore, ma riuscendo comunque a fletterle. Decisi di non preoccuparmene per il momento, ci avrei pensato, se mai, a quote più basse.

Ritornammo di fuori e abbordammo la salita. La china fu da subito ben più ripida. Percepii il cambio netto di pendenza, ma raccogliendo con uno sforzo cosciente tutte le mie energie, cominciai a spingere di più sulle gambe mantenendo il ritmo e mi ci adattai in breve. Ora non solo il cielo stellato e la luna piena ma anche il Monte Bianco, la cui cima mi appariva sempre più vicina e raggiungibile, mi infondevano forza ogni volta che levavo gli occhi dalla traccia sul ghiacciaio.

Attenta a ogni passo, curandomi di affondare con fermezza il piede, mi accorsi a un tratto che il cammino si era fatto stretto. Procedevamo infatti lungo una linea sottile all’incontro di due pendii che scendevano ripidi ai nostri lati. Ebbi un brivido e sentii le gambe tremare, ma immediatamente ritrovai l’equilibrio e mi credetti un po’ acrobata ad avanzare diritta e decisa, senza guardare giù in fondo, su quel percorso sottile che già mi sembrava di nuovo sufficientemente ampio. Stavamo percorrendo la cresta delle Bosses che ci avrebbe portato alla salita finale prima della cima. Come lo capii, in quella notte trasparente di luna sul Monte Bianco, mi colmai di gratitudine.

Seguitammo lungo il crinale ad andatura costante. Dalla partenza, ci eravamo concessi qualche breve pausa per dissetarci, scambiare qualche impressione e soprattutto osservare. Ma la notte era fredda e non potevamo indugiare, fermi, troppo a lungo. Ad ogni ripartenza, ben sapevamo che il cammino da fare si abbreviava e con esso quella notte di eventi.
Presto, infatti, a est il cielo, non più cupo, si chiazzò d’arancio, e una luce diversa calò su quel singolare scorcio di mondo che in quel momento ci comprendeva e che contribuivamo ad animare.
Un momento di stanchezza sulla salita ormai costantemente erta mi spinse a guardare di là, volgendo la nuca alla luna piena. Adesso cercavo l’alba, il colore, il risveglio di suoni e di moti, la promessa di vita. La notte mi aveva portata fino a quel punto nella sua calma fremente, impenetrabile alla vista, ora si stava per fare giorno, un mondo nuovo stava per aprirmisi dinanzi.

Alessandro ci fermò: “Guardate!” esclamò. Alla nostra destra, l’ombra del Monte Bianco si allungava sulle nuvole e nel cielo, fino a culminare nella striscia arancio all’orizzonte.
Mentre cercavo di fotografarla, il guanto che mi ero sfilata e tenevo tra le labbra intirizzite, cadde e, scosso da un colpo di vento, volò via. Un po’ sbalordita lo vidi rotolare sulla neve a pochi passi da noi ma già sul pendio scosceso e poi sparire. Il Monte Bianco aveva voluto un mio guanto.

Riprendemmo a salire lungo la cresta. “Mancherà una mezz’ora?” chiese Antonio. “Mezz’ora? No, sette minuti!” ribatté Alessandro.
Sette minuti?! Non uno di più non uno di meno? Ridemmo, non so se più divertiti dalla precisione della stima o più allietati dalla vicinanza della meta.
In sette minuti — poco più, poco meno — superammo un’altra bozza e poi il cammino si spianò sulla cima. Stava sorgendo il sole.
La percorsi in tutta la sua lunghezza fino al margine opposto, dove altre quattro o cinque persone vocianti si congratulavano tra loro.
Mi fermai e, girando adagio su me stessa, ammirai, rapita, la distesa di cielo e monti di fronte a me, respirando lentamente come per assorbire rocce, guglie, massicci innevati che mi circondavano più in basso.

Eravamo al di sopra di tutto. Questa era una sensazione nuova per me: tutto era sotto di noi, tutto vedevamo, anche lontano, così lontano come non avevo potuto vedere mai.
C’era poco da dirsi. C’era da guardare, sentire, cercare di cogliere almeno un po’ di quella realtà speciale per portare qualcosa della sua essenza con noi.
Ancora qualche minuto sul capo del Monte per accommiatarci degnamente, poi, era giorno ormai, e il giorno l’avremmo dedicato, con la stessa attenzione elargita alla notte, al ritorno.

_____
foto:
1. Monte Bianco sotto la luna piena.
2. L’alba dalla cresta del Monte Bianco.
3. Sulla cima, tutto è sotto di noi.

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Questa storia partecipa al Blogger Contest 2020.

Agnese Mariotti

Amo camminare ed esplorare. La montagna multiforme, mutevole a ogni giro di vento, mi offre esplorazione e cammino infiniti, di cui, poi, non posso fare a meno di scrivere.


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