Recensione

APPUNTI A MARGINE DI UN VIAGGIO SU CARTA

Il nuovo volume di Alberto Sciamplicotti “Fra terra e mare. In viaggio nel Peloponneso sulle tracce di Patrick Leigh Fermor e Bruce Chatwin”, racconta l’essenza della Grecia di oggi che conserva ancora angoli dove il tempo sembra essere trascorso più lentamente.

testo di Gianni Battimelli

16/01/2025
3 min
Credo che siamo due tipi abbastanza diversi, Alberto e io. Ma certamente abbiamo in comune, al di là della generica passione per la montagna, un amore viscerale per la Grecia.

Poco importa che il suo si sia costruito disegnando curve sui pendii imbiancati di neve del Pinto e dell’Olimpo, e il mio abbia messo radici accarezzando il calcare di Kalymnos e di Leonidio. Alla fine, viaggiando dopo aver varcato lo Ionio fino alle coste dell’Anatolia, si attraversano tanti microcosmi diversi, e a conferire loro una indissolubile unità è il collante del mare, “elemento immortale della Grecia”.

A dispetto del luogo comune che vorrebbe il mondo diviso tra gente di mare e gente di montagna, chi è attirato dai grandi spazi delle terre alte non può non sentire il richiamo dei vasti orizzonti del mare. Per chi è preso in mezzo da questi due poli, la Grecia, arcipelago di monti che emergono dal mare, non può non diventare terreno di elezione. E il Mani, il dito centrale del Peloponneso, piccola penisola montuosa protesa verso il Mediterraneo, riesce a combinare la commistione di mare e montagna in un modo speciale, perché vi aggiunge il sapore di una sua peculiare storia aspra e antica, che rifiuta di lasciarsi seppellire dagli anni e dalla modernità e riemerge prepotente e imprevista ad ogni curva del viaggio.

Così siamo qui, fra terra e mare. Una vacanza di famiglia, con il kayak fissato sul tetto della macchina, che servirà per esplorare le scogliere e le calette della costa. Non sembra esserci materia per un libro che possa interessare altri che i partecipanti al viaggio. Ma per trasformare un ricordo privato in un racconto che si apre sul mondo basta essere curiosi, e spingere lo sguardo oltre le contingenze immediate.

Alberto è curioso, e in Mani ci va sulle orme di due grandi curiosi: Patrick Leigh Fermor, che al Mani ha dedicato uno dei più bei libri di viaggio e il Mani ha eletto a dimora costruendosi una casa nel paese di Kardamyli, e Bruce Chatwin, che del Mani non ha scritto ma nel Mani, ospite a Kardamyli di Fermor, ha scritto alcune delle sue pagine migliori, e nel Mani ha voluto che le sue ceneri venissero sepolte. L’omaggio di Fermor e Chatwin al Mani può ben essere preso a simbolo del debito di riconoscenza che l’Europa ha nei confronti della Grecia. Così almeno, mi sembra, è percepito da Alberto, che nel suo girovagare tra le pendici del Taigeto e capo Tenaro inseguendo le tracce dei due inglesi cerca “l’anima più antica del nostro essere europei”.

C’è una parola chiave che riassume l’urgenza del ritorno verso ciò che si era, e da cui si è partiti per contaminarsi con l’altro, un luogo obbligato della grecità, nostos.

Mescolanza di identità diverse che si sono confrontate e ibridate, l’Europa, se ha un senso concepirla come una unità culturale prima che politica, ha le sue radici nella tensione tra particolare e universale, tra affezione alla specificità e apertura al diverso che è il senso profondo della lezione della Grecia, dove ancora una volta si impone il ruolo fondamentale del mare, confine che delimita la terra e la separa dalla terra che è oltre, ma confine che non crea muri ma ponti (il pontos).

In Grecia si viaggia respirando quel pensiero meridiano di cui parla Cassano, “quel pensiero che si inizia a sentir dentro laddove inizia il mare, quando la riva interrompe gli integrismi della terra, quando si scopre che il confine non è un luogo dove il mondo finisce, ma quello dove i diversi si toccano e la partita del rapporto con l’altro diventa difficile e vera”.

Guidando sulla strada a picco sulla scogliera, Alberto sente provenire da un altoparlante la “Crêuza de mä” di De André, e non avverte alcuna stonatura, “forse perché quel mare che bagnava la costa del Mani non era fatto di null’altro che della stessa acqua che lambiva anche gli stretti carruggi liguri. Era un confine che bastava immaginare come una strada liquida, piuttosto che come un muro, per capire quanto potesse avvicinare anziché dividere”.

C’è una parola chiave che riassume l’urgenza del ritorno verso ciò che si era, e da cui si è partiti per contaminarsi con l’altro, un luogo obbligato della grecità, nostos. E’ un motivo dominante che attraversa tanta letteratura greca, dall’epica dell’Odissea all’Itaca di Kavafis, il richiamo che costringe l’emigrante a oscillare tra il mondo nuovo cui si è approdati e il bisogno di tornare alle proprie radici, perché “ovunque io viaggio, la Grecia mi ferisce”. Una forma della nostalgia che può essere dolente, ma non è mai triste come sa essere la saudade, che si perde nell’immensità dell’oceano, mentre il nostos ha come orizzonte l’altro approdo al di là del pontos, la possibilità del ritorno. Vale per chi è partito verso un’altra patria, ma vale anche per chi è partito alla ricerca “dell’inattuabile viaggio che porterebbe a sconfiggere la nostalgia per l’antico vissuto”. Tutto il peregrinare di Alberto per il Mani si svolge all’insegna di questa ricerca.

Mani che sfogliano le pagine di un libro, mani che stringono il volante dell’auto o la pagaia del kayak, mani che accarezzano la pietra.

Viaggiare senza una meta precisa tenendo come bussola l’equilibrio tra conosciuto e ignoto, attenzione alla storia e gusto per l’esplorazione, porta a riflessioni estemporanee di varia natura, tra i momenti alti della tradizione culturale e la filosofia nascosta dietro i gesti quotidiani; dalla lezione di Olimpia, dove nasce “quell’ideale di competizione agonistica che, sublimando lo scontro, lo riesce a trasformare in un confronto”, al rituale del caffè, “piccolo inno alla lentezza, un invito ad assaporare le cose prendendosi tutto il tempo necessario per godere di quel momento nel modo più pieno, senza cedere alla fretta del tutto e subito”.

E altezza della meditazione filosofica e prosaicità delle cose terrene convivono felicemente, perché Alberto ha una singolare capacità, quando il discorso sembra portarlo verso divagazioni intellettuali che rischiano di sconfinare in un empireo melodrammatico, di proiettare sul tutto uno sguardo stralunato che lo riporta con i piedi per terra, nella “vecchia Opel Kadett color dissenteria”. O nell’unica libreria di Areopoli, a tuffarsi dentro le pagine di vecchi e sapienti volumi da cui emergono le numerose facce della storia del Mani, dalle faide sanguinose tra le famiglie trincerate dentro le torri fortificate dei villaggi sparsi lungo le dorsali dei monti alle vicende della pirateria, e scoprire (ma sarà verità o leggenda?) le origini maniote della famiglia Bonaparte.

Poi, come è naturale, ci sono, alternate ai momenti di lettura e di erudita conversazione col proprietario della libreria, le immersioni e le escursioni in kayak per esplorare le grotte lungo la costa, le discese nelle forre rocciose che scendono al mare dalle cime del Taigeto, la ricerca delle infinite chiese bizantine sparpagliate sulle pendici della montagna e il pellegrinaggio a quella di fronte alla quale sono sepolti gli ultimi resti di Chatwin. Per quanto intellettualmente stimolante, un viaggio degno di questo nome resta prima di tutto una esperienza segnata dall’attività fisica, dall’esercizio manuale; e ci sono sempre mani che si danno da fare. Mani che sfogliano le pagine di un libro, mani che stringono il volante dell’auto o la pagaia del kayak, mani che accarezzano la pietra.

Mani.
_____

Il volume può essere acquisto sul sito della casa editrice www.edizionidelgransasso.it

Fra terra e mare

Autore
: Alberto Sciamplicotti
Editore: Edizioni del Gran Sasso, 2025
Pagine:
Prezzo di copertina: € 15,00

Gianni Battimelli

Gianni Battimelli

Nato nel 1948 a Voghera da genitori meridionali, dal 1960 residente a Roma, dove ha studiato e poi insegnato al dipartimento di fisica della Sapienza. E’ autore di vari lavori di ricerca in storia della fisica. Da oltre mezzo secolo usa l’andare per rocce e per montagne come eccellente pretesto per girare il mondo, e non si è ancora stancato. Ha fatto parte della redazione de L’Appennino e della Rivista della Montagna, e ha collaborato con varie riviste di settore. Ha curato con Stefano Ardito l’antologia di scritti di alpinisti italiani “Montagne di parole”. Per le Edizioni del Gran Sasso ha pubblicato il volume “Molti Friends e Alcuni Nuts”.


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