Un viaggio narrativo lungo e tortuoso come le strade per i passi appenninici, ma con ottime vedute. Si parte – e parlando d’Appennino non poteva essere altrimenti – dalla perdita. L’autrice è distante dal suo Appennino, quello tosco-emiliano per intenderci.
“Avevo cercato talmente tanto altrove che non sapevo più dire com’era quel luogo… Sperimentavo la perdita del territorio?… che oggi caratterizza buona parte dell’umanità”. Così un’immagine nuova e allo stesso tempo antica della sua terra, quasi per sottrazione, riemerge dalla nebbia dei ricordi e dal mare della costa francese dove Elisa Veronesi si è trasferita. “Esistono in noi paesaggi assopiti che serve risvegliare”.
E che Appennino si risveglia nell’autrice? Un Appennino controverso: dolce come quello delle esperienze della sua infanzia nel paese, a le Caselle, nella ex scuola e poi nel capoluogo montano a Castelnovo ne’ Monti, sotto la più bislacca, la più stregata e la più affascinante delle montagne, la Pietra di Bismantova. Duro, rassegnato e brutale come quello dei disperati spaesati del racconto “Mountain Snow”, con i suoi protagonisti post-appenninici, trafficanti di droga, in una terra che ha rinunciato, o ha dovuto rinunciare, ai suoi mestieri, al suo lavoro e sembra lasciare poche scelte di vita a chi resta abbandonato e depresso in bar di paese affollati solo di slot machine.
Eppure non è questo, non è solo questo, e superato un altro tornante della strada in salita, “Atlante Appennino” ci porta nei boschi, perfino all’incontro con gli animali selvatici che è sempre “il riconoscimento di un’esistenza di grandezza diversa da quella dell’essere umano”. Ci guida sulle cime, alla scoperta del “tempo del camminare”, del camminare in salita in particolare, quando “si perde la memoria, ci si libera dal peso del momento e si accede ad altre memorie”. Ci accompagna nei paesi, alla rappresentazione del Maggio drammatico, sulle strade, nella neve, nelle case. Con la scoperta – in quest’ultimo caso – della differenza tra le case d’Appennino che sono formate da un dentro e da un fuori e la casa di città che spesso “ci separa dal resto, cullandoci nell’illusione del nostro essere autonomi, liberi e soli”.
L’Atlante non dimentica un’altra questione che sta alla base del futuro dell’Appennino, ovvero la sua possibile trasformazione in un parco a tema turistico. Lo fa ricordando i guai della prima ondata turistica, quella degli anni Settanta, delle seconde case, o degli improbabili impianti di risalita. E anche di quella attuale, nella quale il mondo contadino e la civiltà agricola, dopo aver patito i danni devastanti di un’economia che è andata in un’altra direzione, rischiano di subire anche la beffa di essere ridotti a puro e semplice simulacro/attrazione per turisti. Ma indica, infine, anche una strada diversa: “tornare sui nostri propri passi e andare a occupare quegli spazi che sono rimasti vuoti”. Di sicuro diversamente, dopo aver fatto l’esperienza del “pieno”. E probabilmente dietro l’ultima curva non percorsa in quest’Atlante c’è anche quel genius loci che potrebbe e dovrebbe tornare a parlarci e a ispirarci nelle visioni future d’Appennino.