Racconto

Distopia del cammino: intenzioni che cambiano

testo e foto di Francesca Nemi

Vista da sotto il monte Greco (PNALM)
15/12/2018
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E’ questo il sentiero che immaginavo quando, bambina, ascoltavo storie di uomini e resistenze.

Storto e serpeggiante contro ogni senso pratico, era posto in una valletta stretta ed incassata, vicino alla neve, sotto la punta di una vetta sconosciuta. Quella vetta, che da lontano coltivavo nella mente, già mi allenava a passioni e rammarichi, contrariandomi di non potervi giungere mai troppo velocemente. A volte riuscivo a fatica persino a vederla.

Mossi due passi con andatura irresistibilmente incerta, e proprio come si stabilisce il livello fra vasi comunicanti, così, senza troppo pensarci, in maniera fluida e graduale, i pensieri arretrarono di fronte ad una musica diffusa e uniforme, era il vento che si era levato e frusciava tra i rami. Avanzai continuando a guardare lontano, quando d’improvviso vidi quella medesima vetta di fianco a me lungo il sentiero, addirittura era ormai quasi dietro di me; poco più avanti ne riconobbi già presto un’altra. Rimestata dal nuovo indirizzo, fissai di andare oltre. Incrociai un pastore di capre, aveva labbra secche e screpolate su viso giovane; sentii salirmi al cuore una commozione triste ed affettuosa. Mi avvicinai ancora, il cane incominciò a minacciarmi con un abbaio forte, insistente. Dio mio! Mi ricordava qualcuno. Li lasciai indietro.

Successe poi che il silenzio, d’improvviso, iniziò a calarmisi dentro come caligine nera, e continuava opprimente come un maglio. Rincorsi allora una grinza dispersa aggrappata al fronte di rocce:
«Mi ci caccerò dentro fino a rompermici le ossa!» pensai.
Continuai così, aggrovigliandomi attorno esalazioni di terra e fatica. Il tempo si deformò. Quando l’infernale mostro calcitico infine si ammansì, tornai sul facile sentiero, mi guardai in giro alla ricerca della vetta di prima. Non la vidi. Mi voltai indietro, mi guardava anch’essa ora le spalle. Provai un ributto d’estraniamento, un vuoto di pancia. Possibile ci fossero due sentieri?

Ma come avevo fatto ad abbandonare il sentiero? C’era poco da dire, mi era scomparso davanti agli occhi.

Guardai avanti cercandomi attorno, scorsi una nuova traccia. Mi incamminai nuovamente. Dove mi stavo spingendo? Ripetevo parole poco convinta, il mio piede continuava irritato. Risalivo il nuovo sentiero. Le piante filarono via, rividi gli avvenimenti geologici dell’ammasso roccioso sotto di me. La mia immaginazione mi trasportò nelle avventurose ipotesi della paleontologia: scaglie ganoidi, cefalopodi, quelle erano rudiste, lo giurerei! Guardai per aria lo spazio spopolato.
«Mi stancherò infine» pensai «di azzannare nebbia!»
Ci fosse stato, ora, almeno il pastore.

Il fianco non era più molto faticoso, ma cominciai a sentirmi inquieta, temevo di non arrivare, o anche solo di non arrivare in tempo. Risalii mezz’ora ancora. Sentivo un rumore grigio d’acqua, e simili i miei passi. Com’era misera ora la parete di roccia. Ma come avevo fatto ad abbandonare il sentiero? C’era poco da dire, mi era scomparso davanti agli occhi; probabilmente si era aperta una biforcazione mentre il mio passo imprudentemente aveva ubbidito ai capricci di un altro pendio. Cercai di ricondurmi i pensieri a questioni pratiche, a tutto quel mondo sopra il quale ora mi stavo muovendo, ci riuscii con gran fatica. Dissi a me stessa di conservare l’ombra della speranza che entro sera sarei arrivata in cima. Quale cima? Non lo sapevo. Da lì però avrei potuto certamente scorgere l’intricato sentiero fatto per giungervi, e la più facile strada per il ritorno.

Un freddo umido se ne stava rintanato immobile nella pianura, irrompeva in mute folate alle ossa; un rivo di spaesamento inzuppava ora anche i miei pensieri. La strada di fondovalle si scoperchiava a tratti; da anni ormai più nessuno l’aveva curata, ed ogni inverno con le sue slavine aveva scaraventato sul fondo ghiaioso blocchi di pietra, e scavato umide e gracili ferite aperte. Guardai l’orologio. Era buio. Non si udiva e vedeva più nulla.

 Cambiare è un modo per non lasciarsi lusingare.

Andare avanti, andare avanti ancora! Era sospetto di follia, forse sarebbe stato meglio disperarsi. Camminare senza meta. Dovevo salire o scendere? Salire evidentemente, salire. Il pendio era ripido, arrampicavo senza imbarazzo come chi non ha scelta circa via da seguire. Continuai a salire, poco a poco, fino a che la nebbia perse di consistenza divenendo più luminosa. Mi affacciai allora su un poggiolo di roccia, affinai lo sguardo a lungo oltre la foschia, e d’improvviso scorsi l’immensa scena di centomila vette, ed altrettante me ne vidi alle spalle. Fu quello un momento pieno di sensazioni, e intenzioni sospese.

E concepisco così, anche oggi, le cose alla maniera di quegli uomini che si divertono di più a tracciare rotte immaginarie che a schiacciarvisi dentro fino in fondo. Cambiare è un modo per non lasciarsi lusingare. Eppure spesso sento gente che parla come così non fosse, ed allora deve essere per forza che alcune passioni siano, anche, fisse e sicure. Bisogna anche che alcune siano così.

  • Dente del Lupo nel gruppo del Gran Sasso
  • Gran Sasso

Francesca Nemi

Vado in montagna, scrivo, fotografo. Non sempre, non per forza seguendo un ordine. Simpatizzante dei cambiamenti. Ho i miei tempi, e a non volerli rispettare si finisce sempre fuori tempo.


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