#10 – Cicogna (Verbano-Cusio-Ossola)
Cicogna, “l’ultima Thule delle nostre vallate”,[2] come scrissero nel 1890 gli alpinisti del CAI, è il principale punto di partenza per escursioni all’interno della selvaggia Val Grande, l’area wilderness più vasta delle Alpi, parco nazionale dal 1992[3]. Raggiungerlo è già un’avventura. Situato a 12 km da Verbania, sulla sponda piemontese del lago Maggiore, il paese è ogni anno meta di numerosi escursionisti.
Gli ultimi 7 km della tortuosa strada e la stretta galleria scavata nella roccia, che segna il confine amministrativo ma anche fisico dell’area protetta, sono da percorrere quasi a passo d’uomo. Sul versante opposto a quello che si percorre in auto, si snoda l’antica mulattiera medievale che collega il capoluogo Cossogno alla sua frazione, un itinerario percorso nei secoli da pastori, boscaioli, briganti, contrabbandieri, partigiani, esploratori e persino vescovi, cammino ideale per chi preferisce raggiungere Cicogna a piedi, tra boschi e alpeggi: «L’Italia ha un grande bisogno di un viaggio lento. Da noi si è smesso di viaggiare: ci si sposta. Così il mondo minore scompare e la memoria pure», scrive Paolo Rumiz[4].
Lasciata la galleria, il paesaggio improvvisamente muta: sul vicino ponte Casletto, che sovrasta la forra del rio Valgrande, finisce la civiltà degli uomini e inizia quella della natura. «Cristo si è fermato al Casletto», annotava nel 1967 lo scrittore e alpinista Teresio Valsesia in uno dei suoi primi articoli dedicati a Cicogna e alla Val Grande, parafrasando il titolo del noto libro di Carlo Levi. «Un grande silenzio: il silenzio dei paesi disabitati», proseguiva, concludendo che «la valorizzazione del paese e della Valgrande può avvenire solo in una direzione, istituendovi cioè un grandioso parco nazionale»[5].
I nuovi abitanti
Pensando a com’era il paese quarant’anni fa, con segni inequivocabili di abbandono annunciato, anzi ormai in atto, oggi siamo testimoni di un processo decisamente opposto, avviatosi nella seconda metà degli anni ’90, ancora fragile nel suo evolversi, e quindi da accompagnare e incoraggiare.
Vi è infatti un ritorno culturale alla montagna, portato avanti dai nuovi abitanti, che pone in campo un modo diverso di essere montanaro, fuori da stereotipati cliché e oltre la tradizione, pur senza disconoscerla.
È grazie a loro se Cicogna forse ha un futuro diverso da quello dell’abbandono.
L’ente che gestisce il parco nazionale e l’amministrazione comunale hanno fatto la loro parte, ma è stata la resilienza dei suoi abitanti a permetterne la rinascita.
Il paese da una parte trasuda di passato: la chiesa, il cimitero, il monumento ai caduti, le case dalle linee antiche (ma anche quelle malamente ristrutturare nei decenni passati, ahimè!), le vie acciottolate, persino il volto dei pochi anziani rimasti, tutto ricorda le storie che hanno accompagnato nei secoli questa comunità.
Dall’altra emerge, con discrezione, il presente: le bacheche informative e la segnaletica dei sentieri, le strutture ricettive armoniosamente inserite nel tessuto rurale, ma soprattutto loro, i cosiddetti “nuovi montanari”, uomini e donne che per scelta hanno trasferito residenza e attività lavorativa in questo villaggio ai confini del mondo.
Tra questi, due famiglie, entrambe provenienti dalla pianura lombarda: i Gaiazzi, titolari di un’azienda agricola con possibilità di ristoro e soggiorno[6], e i Mazzoleni, proprietari di un bed & breakfast e gestori del Circolo[7].
«Ci siamo trasferiti a Cicogna nel 1999 poco più che trentenni», racconta Rosanna Ferrario, moglie di Rolando Gaiazzi. «Con le prime sette caprette acquistate abbiamo avviato un’attività di cui non sapevamo nulla, tanta voglia di realizzare il nostro progetto, tanta incoscienza, tanta gioventù. I corsi di caseificazione, di allevamento, l’avvio del piccolo caseificio e la soddisfazione di vendere i nostri primi formaggini. Andavamo “in giù” – si dice così da queste parti quando si scende a fondovalle – a fare mercati ma piano piano il turismo che saliva in valle aumentava, grazie alla promozione del Parco Nazionale Val Grande e al crescente interesse di vivere la natura da parte delle persone che cercano sempre più posti come questo per poter “staccare” dalle grandi città. È stata quindi una conseguenza naturale l’apertura dell’agriturismo che ci ha permesso di vendere il nostro formaggio direttamente sul posto e ci ha dato una nuova possibilità di lavoro. L’aumento della consistenza del gregge di capre e non solo (anche l’aumento della famiglia con le nostre due figlie, Serena e Chiara) hanno concretizzato negli anni la nostra attività. Tra alti e bassi ad oggi il bilancio di tutti questi anni è sicuramente positivo; nonostante non siamo di origini “valgrandine”, chi ci muove più da questo bel posto?».