Recensione

IL DOLORE DI VIVERE DI CLAUDIO BARBIER

Claude (Claudio) Barbier è stato, senza timore di smentita, uno dei più grandi arrampicatori solitari che le Dolomiti abbiano mai conosciuto.

Recensione di Alberto Sciamplicotti

Claudio Barbier, 1969
21/04/2024
6 min
Tanti anni fa raccontai con un libro “Quelli del Pordoi“ le vicende che, dalla metà degli anni ’60 e per poco più di un decennio, fecero dell’albergo Col di Lana al valico del Pordoi il “campo base” delle Dolomiti.

Fu estremamente complesso ricostruire quei giorni: i personaggi coinvolti erano tantissimi, praticamente tutti quelli che in quegli anni scrissero pagine piccole o grandi nella storia dell’alpinismo dolomitico. Passai due anni stupendi, di vacanze trascorse raccogliendo informazioni e interviste in cui luoghi, un viaggio fra tanti racconti ed emozioni narrate in prima persona da chi le aveva vissute.

Almo Giambisi, alpinista di gran classe ma soprattutto persona di umanità straordinaria, insieme a Mariangela Bruneri, sua prima moglie e nipote di Tita Piaz il Diavolo delle Dolomiti, da cui ebbi l’impressione avesse ereditato anche una parte del suo carattere di fuoco, erano stati insieme i gestori dell’albergo Col di Lana in quel periodo. Furono loro le principali fonti delle notizie che poi provai a collegare fra loro per ricostruire una storia che avesse continuità. Una storia che decisi di narrare come fosse un romanzo, perché certe volte la vita riesce a essere così piena di emozioni e colpi di scena che solo un romanzo può cercare di renderla reale agli occhi di chi leggerà.
Negli anni del Col di Lana, per amicizia e stima alpinistica, Almo e Mariangela ospitarono praticamente in modo gratuito gran parte di chi frequentava il verticale delle pareti alpine. Essere invitati a “passare al Col di Lana” era l’equivalente del ricevere un diploma di alpinismo di massimo livello. Alcuni erano però amici della coppia già da prima che prendessero a gestire l’albergo al passo del Pordoi.

Claudio Barbier, ad esempio, grandissimo alpinista che proveniva da una nazione – il Belgio – priva praticamente di elevazioni montuose, aveva conosciuto Almo frequentando il rifugio costruito da Tita Piaz e gestito poi dai genitori di Mariangela in prossimità delle Torri del Vajolet. I due erano diventati amici, un’amicizia forte, continuata negli anni e proseguita fino alla morte di Barbier, precipitato dalle pareti della falesia belga del Freyr nel 1977.
Barbier è stato un personaggio complesso, di quelli che per l’appunto farebbero felici un romanziere alla ricerca di una figura su cui costruire una narrazione colma di emozioni e di quella difficoltà di vivere che hanno solo le anime tormentate. Un carattere complicato insomma, ma con una personalità da cui scaturivano slanci di passione di dimensioni altrettanto ragguardevoli.

Claudio Barbier e Lionel Terray a Freyr (foto van bever)
Claudio Barbier, 1977
Claudio Barbier, 1956

La sua fama raggiunge probabilmente il massimo quando alla fine dell’agosto del 1961 concatena in solitaria e in giornata ben cinque vie alla Tre Cime di Lavaredo.

Barbier era spinto da una voglia di arrampicare decisamente fuori dal normale. Fin dalla metà degli anni ’50 viveva le sue estati fra le torri delle Dolomiti, facendo della sua auto rifugio, dispensa, letto. Cercava costantemente compagni per poter arrampicare in ogni giorno ma, frequentemente, questa sua disponibilità e voglia non trovava risposta. Iniziò così ad andare da solo, compiendo salite solitarie sempre più difficili e sempre con uno stile pulito e un’etica di difficile riscontro in quella che fu l’epoca delle vie a goccia d’acqua, itinerari dove era cercata la verticalità a tutti i costi, anche a prezzo di bucare la parete con chiodi a espansione salendo poi in artificiale.

La sua fama raggiunge probabilmente il massimo quando alla fine dell’agosto del 1961 concatena in solitaria e in giornata ben cinque vie alla Tre Cime di Lavaredo, La Cassin alla Cima Ovest, la Comici alla Cima Grande, la Preuss alla Piccolissima, la Dülfer alla Punta Frida, la Innerkoffler alla Cima Piccola: tutti itinerari di alta difficoltà, per oltre millesettecentocinquanta metri di arrampicata in sole sette ore e cinque minuti.

Si trattò del primo concatenamento di questo tipo nella storia dell’alpinismo. Eppure, a dispetto della ricerca di epica che potrebbe sembrare essere alla base di questo modo di salire le pareti, Barbier fu sostanzialmente lontano da quel modo di vivere l’alpinismo che era ancora vivo in quegli anni, colmo di retorica e che vedeva in chi arrampicava qualcuno di ‘più in alto’ moralmente della maggior parte degli uomini. Il suo era invece probabilmente solo un modo per vivere al massimo livello possibile quella che riteneva la sua più grande passione: il modo migliore che aveva per realizzarla.
La lontananza di Barbier da quel mondo fatto di epos e retorica, la si può rintracciare visivamente in una delle sue fotografie più rappresentative: scattata nella falesia di Freyr, lo ritrae in parete, nell’atto di accendersi una sigaretta come fosse in attesa alla fermata del tram. Foto che fu usata per la copertina del bel libro che raccontava la storia d’amore di Claudio con Anna Lauwaert e da quest’ultima scritto.

Ora, a indagare sulla personalità di questo alpinista al giorno d’oggi troppo poco ricordato, è uscito un nuovo libro, dal titolo Dimmi che mi ami e stampato da Versante Sud di Milano, scritto da un’altra donna, Monica Malfatti, una ragazza che quando Barbier morì non era nemmeno ancora nata. E fa piacere che a raccontare di questo personaggio non sia un altro uomo: forse c’era bisogno di una sensibilità differente per provare a indagare veramente in quell’anima così tormentata.

Claudio Barbier a Freyr
Claudio Barbier, 1955

Si rovescia in questo libro la naturale narrazione di montagna e d’alpinismo: non più la descrizione del mondo verticale, ma l’emozione stessa di questo andare raccontata dalla viva voce delle rocce e dalle pareti.

Anna Lauwaert nel suo volume La via del Drago già ci aveva raccontato di un lato più intimo di Barbier e il suo racconto aveva saputo disegnare le incertezze e che un carattere così complesso nascondevano. In un suo libro successivo, una riscrittura totale e pensata per i lettori francofoni de La via del Drago, tanto che anche il titolo era differente, aveva provato poi a dare una risposta a quelle domande sulla vita di Barbier che potevano far maggiormente luce su di lui e sui suoi travagli. Il volume di Monica Malfatti, pur nella sua brevità – solo 143 pagine – fa un altro passo avanti nel ricostruire la storia di un personaggio importante per la storia dell’alpinismo quanto al giorno d’oggi forse poco conosciuto e dimenticato.

La ricostruzione della personalità di Barbier fatta da Monica Malfatti prende il via dagli stessi racconti da cui era partita l’indagine che feci a suo tempo per ‘Quelli del Pordoi’, con le interviste al suo amico più importante Alma Giambisi e agli altri che lo conobbero e lo accompagnarono per le pareti (fra i quali Alberto Dorigatti e Heinz Steinkötter) ma punta poi decisa verso altri obiettivi che quelli che mi ero proposto per raccontare un ambiente e un’epoca. La sua indagine verte infatti decisa verso quei misteri dell’animo umano che da soli possono, e unici sono in grado, di raccontare il travaglio di una vita.

Si rovescia in questo libro la naturale narrazione di montagna e d’alpinismo: non più la descrizione del mondo verticale filtrato dal sentimento di chi sale ma l’emozione stessa di questo andare raccontata dalla viva voce delle rocce e dalle pareti. Così, mano a mano vengono svelate debolezze, passioni, difetti, pregi, difficoltà, storie intime di Barbier e che solo sul verticale hanno potuto trovare un momentaneo sfogo. La montagna diventa in questo modo il solo e unico tramite con le pulsioni più forti dell’anima del soggetto raccontato, non lo sfondo di una storia e nemmeno l’oggetto delle volontà di salire superando la gravità, ma l’unica forza propulsiva capace di mettere a nudo la vera essenza di un essere. Una scoperta di un gioco dei ruoli capovolto in cui Anna Lauwaert probabilmente ha dato il via con il volume La via del Drago ma che Monica Malfatti in questo libro, e forse proprio in virtù del suo essere giovane e lontana anagraficamente dalle vicende raccontate, ha saputo portare a termine scendendo fin nel profondo delle complessità di quell’uomo che fu Claudio Barbier.

Preferisco non descrivere le ipotesi fatte prima da Anna Lauwaert e ora fatte proprie da Monica Malfatti per spiegare la difficile personalità di un così grande alpinista ma lasciare, a quanti prenderanno fra le mani Dimmi se mi ami il compito di provare a entrare in quel dramma personale che si potrebbe celare dietro l’andare tormentato per rocce e pareti di Barbier.
Penso sia giusto così: il modo migliore per dare la possibilità di essere guidati dalle righe di questo libro non verso una risposta certa, ma verso una di quelle possibilità che la vita, nel suo essere sempre più complessa anche del romanzo dalla trama più intricata, sembra disseminare in ogni esistenza.

Dimmi che mi ami

Autore: Monica Malfatti
Editore:  Edizioni Versante Sud, 2024
Pagine: 144
Prezzo di copertina: € 20,00

Edizioni Versante Sud

Alberto Sciamplicotti

Alberto Sciamplicotti

Fotografo, scrittore e a volte videomaker, ama raccontare e condividere emozioni nella convinzione che tessere una rete umana possa aiutare a capire noi stessi e gli altri e a vivere più in armonia con il mondo.


Il mio blog | Luogo di incontro, piazza virtuale dove poter raccontare, anche quando la parola non arriva, esperienze ed emozioni con scritti, immagini e filmati. Un piccolo esperimento “in progress” sta andando avanti oramai da oltre 14 anni. Fortunatamente non sono mancati i compagni di viaggio, persone con cui condividere le emozioni di ogni giorno passato fra montagne e pianure. www.sciampli.it
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1 commenti:

  1. andrea gobetti ha detto:

    Gloria a Barbier e affetto per chi non lo vuol dimenticare, fu l’uomo che dipingeva di giallo solo i ciodi che usava e quindi precursore indiscusso dell’arrampicata moderna.
    bella recensione,Alberto.

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