Racconto

MEMORIE D’ARGILLA

Le pietre di arenaria cupa, ancora umida dal passato acquazzone, ornano di corsi regolari il movimento continuo del costruito storico; enormi mura cinquecentesche, fluide e imponenti, abbracciano la città nelle curve dei baluardi.

testo e foto di Marco Macconi

08/02/2023
8 min
Al tempo di maggio, a volte la luce avvolge ogni cosa, tagliente quando dilavata da acque temporalesche, e i boschi aprono le loro quinte segrete di diaspri e smeraldi vegetali, mentre i cieli si fanno così alti e profondi da togliere il fiato, splendendo d’azzurrite liquefatta.

Colli e città

Ogni cosa comunica attraverso le vibrazioni della luce stessa, quando camminando lungo gentili sentieri di collina ci si apre la via verso i molteplici piaceri che questi luoghi bergamaschi, miracolosamente o quasi preservati dal massacro paesaggistico circostante, possono ancora offrire. I boschi sì degradati, ma memori della passata bellezza, ne ammantano di verdi i versanti a bacìo. Là dove sottoterra giace ancora un acquedotto tardoantico ormai in rovina, un sentiero serpeggia agile tra le scure vallecole e i viscidi rivi che dal piede buio del colle si arrampicano, striscia seguendo l’acquedotto lungo gli affioramenti di arenaria paludandosi di rovi.

Sui morbidi crinali del Colle dei Roccoli, rivolti verso le montagne appena più a settentrione, le vecchie strutture adibite all’aucupio, arte oggi dimenticata, torreggiano perdute tra le nuove boscaglie di ritorno. Simili a torri di avvistamento, non sono più visibili perché risucchiate dalla vegetazione circostante; un tempo dovevano aprirsi agli spazi sconfinati degli orizzonti pedemontani, oggi sfigurati dal disordine della città tumorale. Seguendo ancora gli antichi tracciati, salendo dolcemente verso l’alto colle San Vigilio, appare prima o poi finalmente la vecchia decana, la città antica, irreale nelle sue vesti di sasso e i rintocchi vibranti delle campane che dalle sue chiese a decine risuonano. Silenziosi e alteri, i profili dei palazzi medievali risaltano nella fredda luce primaverile come intessuti nella trama luminosa di un sogno lucido.

Le pietre di arenaria cupa, ancora umida dal passato acquazzone, ornano di corsi regolari il movimento continuo del costruito storico; enormi mura cinquecentesche, fluide e imponenti, abbracciano la città nelle curve dei baluardi, attraverso il disegno sobrio (che sotto quella luce appare nitido quasi fosse il progetto tecnico e preparatorio delle stesse) degli archi di scarico e delle orbite nere delle cannoniere, elegantemente affiancate tra loro.

Spesso ho rimirato da qualche costa collinare lontana, nelle mattinate perse delle scuole superiori, quelle geometrie e quelle diverse prospettive, cogliendone i particolari nel movimento vibratorio della luce primaverile. Immerso mio malgrado in quello spettro diamantino, provato da esondazioni ormonali e dalle percezioni sporadicamente alterate da devastanti episodi di depersonalizzazione, ancora una volta cercavo nella visione stabile dei profili dei palazzi secolari un solido ancoraggio ad una realtà che andava disfacendosi giorno dopo giorno. Più tardi mi accorsi che l’unico modo efficace per sfuggire a quella vertigine incontrollabile era la fuga terapeutica nel tempo indeterminato dell’inumano.

Scomparire nei luoghi dell’abbandono, risucchiato da vestigia silvestri: credo di aver passato più tempo nelle solitudini della natura che tra la compagine umana, negli anni della mia giovinezza. Tornando ai colli bergamaschi – non che me ne sia mai veramente andato, da lì, come per l’attaccamento che si possa avere nei confronti di certi sogni dell’infanzia – la selvatichezza di ritorno dei versanti settentrionali, malamente boscati, viene d’un tratto spezzata scendendo lungo certi crinali che affacciandosi sulla pianura di cemento e acciaio sottostante portano lo sguardo lontano fin verso gli Appennini.

Le mulattiere, le scalette e i sentieri limitati dai muri a secco che sprofondano nella profondità argillosa dei colli sono tutti intagliati nella morbida arenaria grigia estratta in recessi poco distanti, conducendo alle antiche cascine che dominano i campi terrazzati, oggi spesso mangiati dai rovi.

In questa stagione, la primavera ormai matura, una volta le frasche accoglievano i viandanti provati dal cammino, offrendo loro primizie d’orto, di stalla e di vite; l’ubriachezza leggera offerta dai sapidi vini dei colli rafforzava il desiderio di andare oltre, verso la città antica e ancora popolosa. Non accompagno oltre i loro passi secolari; torno sui miei, ubriaco di nostalgie, sui passi della giovinezza che evapora al sole della disintegrazione, e come un fantasma sottile, scendendo lungo declivi invasi da vegetali infestanti, giungo dopo secoli nel bosco silenzioso dei ricordi ammuffiti, al piede settentrionale dei colli.

Boschi e memorie

Vecchio bosco nero, figlio di brughiera, quanti ti conoscono davvero? Forse qualche spettro di monaco o suora che, errando dai pressi del vicino monastero, giunge ancora fino alle tue umide propaggini che si allungano sui prati come a volerli ingoiare nelle tue viscere d’argilla. Forse le pallide fiammelle che nel buio della notte, inzuppata di rugiada, si accendono solitarie al margine del rivo, rischiarandolo appena di freddi bagliori.

Lì l’arenaria, viva quando cavata anticamente più in alto, si scioglie finalmente nelle pigre acque dei ruscelli, decomponendosi in strane masse pastose e grigiastre che ne modellano le anse tondeggianti. Spesso manipolavo quelle masse tra le dita, capitando per caso nei pressi di quei piccoli depositi argillosi, simili a cloache geologiche, assimilabili del resto alla zona più nascosta dei colli bergamaschi. Al contatto col calore della pelle, rapprendendosi appena, emanavano un lieve odore solforoso, scoprendo tra le minuscole crepe frammenti di rami, foglie e ali di libellula.

Tutto intorno si sprofondava nella penombra scenica e artefatta di un maldestro rimboschimento di almeno cinquanta anni prima, che dava l’impressione di stare in un bosco di streghe. I vecchi castagni da palo furono infatti affiancati da piccoli pini strobo che, crescendo in quel terreno per loro inospitale (l’argilla di quella valle collinare) crebbero altissimi e sottili come aghi, soggetti a continue rotture e schianti. In certi angoli reconditi, platani cachettici spalancavano alla base i loro tronchi simili a maschere nere e tormentate.

In quelle giornate ventose di primavera, ma ancora di più nei miti e nitidi giorni invernali, quando il favonio infuriava precipitando dalle Alpi lontane, i sinistri suoni dei fragili pini in procinto di spezzarsi, come vecchie giunture artritiche di legno, si ripercuotevano per tutti gli anfratti della valle. La stessa morfologia di quelle colline boscose aveva un qualcosa di irreale, morbide e ondulate com’erano, modellate nelle argilliti feconde di funghi. Soggette a un costante mutamento dovuto all’erosione, scavate dalle tiepide piogge primaverili, dilavate dagli acquazzoni estivi, ammuffite dall’umidore autunnale e spaccate dai geli invernali, quelle colline inquiete rappresentavano la mia seconda dimora giovanile. Rilievi sciolti e mossi a un ritmo lento, ma umanamente percettibile: l’ho potuto confermare ritornandovi a distanza di anni poco tempo fa.

Questa morbida e continua mutevolezza era dovuta anche allo stato di perenne umidità alimentata dai ristagni idrici del sottosuolo reso impermeabile dalle argille, che in caso di acquazzoni e nubifragi pedemontani, frequenti nel comparto orobico all’inizio dell’estate, davano vita a bizzarre risorgive d’acque intiepidite. Quando anni dopo, nei momenti terminali della mia carriera universitaria vissuti all’insegna di un sostanziale isolamento, intrapresi la via stretta delle pratiche esoteriche, la prima scelta come sede fisica delle stesse cadde ovviamente su quel terreno argilloso e propizio, fertile di secoli di piogge pedemontane.

Alla flebile luce di una poco scenografica lanterna, simile alla versione vivente di uno di quei fuochi fatui poco lontani, mi addentravo nel buio odoroso delle sere solstiziali provenendo dai bagliori elettrici dei lampioni delle strade periferiche della città. La notte in realtà non era mai veramente tale a causa dei riflessi rossastri dovuti all’inquinamento luminoso. Sui grandi prati grondanti rugiade e balsami sottili di lattici e pollini vegetali, sedevo come un’ombra lontana ai piedi di un giovane noce.

A giugno l’oscurità era a volte umida e calda di un vomito di zanzare e pappataci, il che rendeva molto difficoltosa la meditazione, ma spesso un vento fresco di neve sciolta e montana primavera spirava dai rilievi orobici, scoprendo nei vasti cieli una luna luminosa e bianca come marmo. Subito la sua influenza magnetica accendeva di cori di batraci e vampe di lucciole gli incerti confini tra il bosco e i prati, dove insieme a questi mi annidavo. Ogni cosa era sospesa tutto intorno, in un buio iridato di rosso ruggine e mercurio, mentre sospendevo man mano i moti mentali.

Colli e Magick

Giunto ancora una volta nella notte futura di quei boschi di periferia, si svegliano infine demoni e forze impetuose in forma di tempesta. Seguendo in corse estenuanti una di queste entità, come richiamato da essa, attraversando nella cecità fasulla della visione crepuscolare gli anfratti più reconditi di quei colli astrali, finalmente nel cataclisma ipnagogico del tuono mentale si manifesta l’intelligenza evocata. Nei pressi della sua tana primordiale tra le radici urlanti dei platani, l’essere ferino tende subito i suoi lacci per divenire da preda a subdolo cacciatore, ma non bado alle sue richieste d’aiuto, che del resto celano ben altro. Nell’oscurità di quei sogni non ottenni il suo Nome.

Lontano negli anni opachi del ricordo, un’altra notte solstiziale si riaffaccia come dietro le quinte dell’essere. Non rinnegherò mai i primi esperimenti che, in un modo o nell’altro, mi permisero di sondare a poco a poco la natura del mio reale. In una radura appartata, poco lontana dalle cloache argillose dei colli, la sera di giugno era mite e profumata di erba appena falciata. Eravamo in tre e non temevamo intrusioni di sorta in quei boschi, allora solo appannaggio di chi non aveva rinnegato completamente la propria radice rurale (la riscoperta dell’aria aperta, favorita dal successivo proliferare delle piste ciclabili, non era ancora di moda allora, e i bergamaschi a quel tempo preferivano ancora ad essa l’ingenuo catastrofico carillon dei loro mastodontici centri commerciali).

Ingoiati dai recessi silvestri che incupendosi al calare del sole si bagnavano d’oro e verde rame liquidi, mai più così giovani e ingenui, operammo più volte gli strani cerimoniali descritti nei libri malamente recuperati dalle vecchie librerie dell’usato della città, ottenendo in verità solo qualche reale spavento. Nel buio limpido della prima sera d’estate, i profumi del sottobosco – radici e linfe, prugne selvatiche mature – amplificati dalle fumigazioni di storace e benzoino, incensi scuri e densi di natura terrestre, a seguito delle canoniche invocazioni qualcosa cominciò a calpestare le foglie dell’anno precedente, come sfrecciando a piccoli passi verso di noi… la bandimmo precipitosamente, qualsiasi cosa fosse, e tornammo in preda a incerte sensazioni all’aperto dei vasti campi collinari.

Ritorno e finale

Ancora oggi, a distanza di anni, soprattutto nei giorni d’inverno, quando il favonio rotola impetuoso giù dai passi alpini, purificando la pianura dai suoi miasmi di cemento e olii esausti, ricordo i passi percorsi nel tempo sui colli solitari. Annegando in quell’aria tersa e siderale e in quella luce eccessiva e tagliente, non riconosco più le memorie che mi appartengono, travolte e disperse dalla furia del vento del nord. Affacciandomi su un crinale ventoso e mirando le nevi e le valli lontane, o ascoltando nei boschi nudi e rinsecchiti l’inquieto cigolare legnoso dei rami, mi sembra anzi di captare ricordi e impressioni che non sono forse nemmeno mai esistiti. Ecco là, dai primi rilievi prealpini, dove sorge una cascina isolata, provenire canti perduti di uomini antichi.

Al tempo del maggengo, la sera si cantava nelle baite di rimando da un versante all’altro, per spezzare il malinconico languore del lungo crepuscolo d’estate. Ora i pascoli abbandonati vanno rinselvatichendosi in silenzio, tra il prugnolo e le rose canine. Molto più in alto, volute di neve ghiacciata vorticano sulle sottili creste di calcare. Scendo un sentiero d’argilla, mi porto a un impluvio nascosto, dove le distese candide dei campanellini di primavera oscillano insieme, nelle loro nicchie d’ombra, in una strana danza vegetale. Pini ridotti a moncherini marcescenti permangono qua e là in una radura. Forse anche di me non rimarrà che un’anima di legno spugnoso e ornato dalle sinuose gallerie nere dei tarli e dei coleotteri del pensiero. È un pomeriggio fresco e arido di febbraio.

Ogni cosa intorno è disegnata dalla luce e scolpita dal vento. Lasciati alle spalle gli anni che passano con il loro senso sempre maggiore di irrealtà, li semino infine in questa terra antica e feconda, quella di queste colline e di queste montagne, osservandone il lento germogliare, nello svolgersi del loro destino in suoni, visioni, parole future.

Marco Macconi

Marco Macconi

Marco Macconi, dottore in lettere moderne, è sfuggito dalla vita di città per trovare la sua strada in un vecchio borgo di montagna. Profondo appassionato delle Alpi Orobie, è partito dall’intensa frequentazione di queste per studiare i più diversi aspetti della cultura alpina con particolare attenzione al suo immaginario e alla sua componente spirituale, antica e moderna. Si dedica inoltre alla poesia e alla fotografia.


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2 commenti:

  1. Silvia ha detto:

    Bellissimo, grazie!

  2. Carla ha detto:

    Grazie Marco… è sempre piacevole leggerti.Grazie di aver donato un pezzetto del tuo cuore.

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