Racconto

VADO A VIVERE IN MONTAGNA

Il momento sembrava ideale. Mia moglie era andata via definitivamente (no, non era morta. Era finita in Costa Rica con quello che si diceva essere il mio più caro amico).

testo di Franco Faggiani, illustrazione di Erica Segale

21/12/2021
9 min
Il momento sembrava ideale. Mia moglie era andata via definitivamente (no, non era morta. Era finita in Costa Rica con quello che si diceva essere il mio più caro amico).

Le figlie, altrettanto improvvisamente, s’erano fidanzate, anzi fidanzatissime, figurarsi se avrebbero passato le feste di fine anno con me, quando mai. Così, m’ero detto, questa è l’occasione perfetta per mollare tutto e andare a vivere in montagna. Per sempre! Il desiderio di una vita si poteva finalmente avverare.
Sul dove non avevo dubbi. Nelle Alpi piemontesi, in un borghetto che frequentavo, o meglio, frequentavamo, da anni. Perché lì? Perché conoscevo già tutti, compreso il medico e il farmacista e il prete che alla mia età potevano essere utili da un momento all’altro. Perché avevo dei punti di riferimento consolidati: il bar, l’edicola, la trattoria, il contadino con l’orto e le galline, il pastore che fa i formaggi nel caseificio accanto alla stalla. E infine perché, cosa non trascurabile, lì avevo già una casa di famiglia, un lascito dei miei genitori.

Un edificio solido, anche se stretto tra altre dimore del borgo e il sole non ci arrivava quasi mai e che, probabilmente, aveva bisogno di qualche ritocco. Forse più di qualche. Il riscaldamento andava ormai a singhiozzo, nella canna del camino s’erano cementati foglie e uccelli morti, che non lo avrebbe sturato nemmeno Bert, lo spazzacamino di Mary Poppins. Poi gli infissi erano rimasti quelli di metà ‘900, belli eh, ma ormai sottili come carta velina; come esili, oltre che corrosi dalla ruggine, erano ormai i tubi e i giunti dell’acqua che in inverno s’inceppava in continuazione. Insomma, Daniela, mia moglie in attesa di divorzio dalle spiagge costaricane, e le ragazze, non è che siano mai state così contente di passarci il loro tempo libero.

Comunque, la casa era grande e l’avrei messa in vendita e con i soldi mi sarei potuto comprare una piccola baita un po’ defilata nel bosco e lì vivere felicemente gli ultimi anni della mia vita, tra scaffali zeppi di libri, finestre aperte sul bosco e sentieri che portavano per i monti solitari. Lavorare avrei potuto lavorare da lì, bastavano un computer e una solida connessione e il gioco era fatto. Caro mondo, cara Daniela, cara Mara e Luisella, tanti saluti e fanculo tutti.

«Ma tu ci hai vissuto in montagna davvero, al di fuori della stagione turistica?». Così mi aveva domandato il barista, una specie di confessore al quale avevo svelato i miei intenti.
«Perché guarda che qui le stagioni morte sono morte veramente. Fa buio e freddo, non c’è in giro nessuno, nemmeno gli animali del bosco, non c’è niente da fare o da vedere, le nuvole s’appollaiano sulla valle anche per settimane intere…».
«Meglio, così posso lavorare al computer!», avevo risposto in un moto di ottimismo.
«Certo, se ci fosse una linea appena appena decente. Invece non c’è. Quando fa brutto qui non prendono neanche i telefonini e in tv si vede appena TeleDoraRiparia e si ascolta solo RadioMaria, che tanto quella… Prova, prima di traslocare; prendi magari in affitto un appartamento nel nuovo residence che hanno costruito fuori dal borgo, e passaci questo mese di novembre, così ti fai un’idea».

Il residence Mountain Dreaming era nuovissimo e bellissimo. Talmente nuovissimo che ero l’unico abitante dell’immenso edificio, che aveva alcune parti di servizio ancora in rifinitura e dunque non era stato pubblicizzato. Per me comunque avevano fatto eccezione. La vista era meravigliosa, almeno, così dicevano, e dovevo fidarmi, perché le montagne di fronte erano state immerse nella nebbia e nelle nuvole basse per tutto il tempo. Dentro tutto era molto moderno; candidi e minimalisti mobili di design, pavimenti in legno chiaro, elettrodomestici spaziali, cucina ad induzione sulla quale m’ero ustionato una mano perché, non essendoci fiammelle in vista, non si capisce bene quando è spenta o accesa.
Tutto era naturalmente molto domotico: per esempio bastava dire alle tende chiudetevi e quelle si chiudevano. Se toccavo qualcosa di sbagliato nel momento sbagliato però sarebbero stati guai seri, sarebbe andato il tilt tutto l’invisibile sistema. In compenso faceva un freddo becco. Il termometro interno era fisso sui tredici gradi.
«Scusate, qui però si gela», avevo detto all’agenzia che mi aveva affittato il piccolo appartamento modernissimo. «Eh dottore, la temperatura è quella, mica possiamo scaldare tutto l’edificio per un solo inquilino. Sa quanto ci costa! Se vuole le mandiamo su altre coperte». Insomma, un profugo high tech.

«Ma tu ci hai vissuto in montagna davvero, al di fuori della stagione turistica?». «Perché guarda che qui le stagioni morte sono morte veramente. Fa buio e freddo, non c’è in giro nessuno, nemmeno gli animali del bosco…».

Niente, dopo due settimane decisi di cambiare, e mi venne l’idea dell’agriturismo lì vicino, dove conoscevo tutti da anni. Cosa c’è di meglio? Servito e riverito. Camera in boiserie, doccia un po’ striminzita e strangolata dal calcare, ma tanto in questa stagione non si suda, cambio lenzuola, pranzi, cene e colazioni e millecinquecento euro al mese. «Se però vuoi risparmiare, paghi la metà e mi dai una mano nelle attività ordinarie», aveva detto Gunther, il proprietario, che si spacciava per altoatesino, per darsi un che di persona austera e organizzata, ma che in realtà era di Zafferana Etnea. «In fondo non mi dici, da anni, che il tuo sogno è quello di fare il contadino di montagna?».
Avevo accolto la sua proposta con molto entusiasmo. Oltre a risparmiare avrei imparato a fare cose alpine, che poi mi sarebbero venute utili quando mi sarei trasferito definitivamente nella mia baita. Così la sera stessa, fanculo il residence, mi trasferii all’Agritour La Vacca Felice e passai la prima notte al caldo, nella quiete totale, felice come la vacca.

Al mattino seguente Gunther bussò alla mia porta molto presto. Prestissimo, direi.
«Che c’è?», domandai un po’ allarmato.
«Niente, è che ci sarebbero da consegnare le tome in tre negozi della bassa valle, e visto che aprono alle otto bisogna andarci adesso. Fammi questo favore, usa pure il furgone». Adesso erano le sei e trenta e fuori c’era buio pesto. Il tempo di bere un caffè in piedi in cucina, mentre il gatto di casa si strusciava contro le mie gambe e via, verso valle. Non avevo mai guidato un furgone che, a differenza di una macchina, non ha lo specchietto retrovisore centrale e puoi guardare solo da quelli laterali, i quali, per loro costituzione, ti permettono di vedere solo di lato. Così, uscendo in retromarcia, centrai il muso della mia macchina che era piazzata proprio dietro, al centro. Maledetto buio.
«Vai tranquillo», disse Gunther, «il destino delle macchine di montagna è essere ammaccate». Dal terzo al quinto tornante, quelli a gomito nel bosco, rischiai la vita tre volte, per il ghiaccio sull’asfalto. Proseguii il viaggio con molta prudenza, trenta all’ora massimo, tra le strombazzate e gli insulti dei valligiani che a quell’ora andavano già al lavoro.

La consegna delle prime tome fu facile, anche se il negoziante non mi degnò di uno sguardo né disse una parola; la seconda consegna fu più complicata, perché la signora del piccolo supermercato aveva deciso di affrontare altre incombenze – cappuccino al bar, lamentazioni dei dolori notturni con l’ortolano di fianco, telefonata prolungata con la madre per programmare la giornata dei bambini – prima di alzare la serranda del negozio. Così arrivai in netto ritardo alla consegna della terza partita di tome e, com’era prevedibile, venni definito dal padrone della bottega di prodotti locali incapace, inaffidabile e piciu, ovvero cazzone.

Al ritorno, a velocità più elevata, trentacinque chilometri all’ora, visto che avevo preso dimestichezza con il mezzo e con il fondo stradale lucido, Gunther mi chiese com’era andata. «Benissimo!», risposi. «Allora dammi una mano a portare i secchi di siero dal caseificio fino ai trogoli dei maiali, poi magari approfitterei della tua cortesia per andare a mettere ordine nel fienile, c’è roba sparsa tutta in giro e i topi ci fanno i festini».
Solo Gunther riuscì a spiaccicarne sadicamente una dozzina a colpi di pala. «Non sarebbe bene tenere dei gatti?», dissi a un certo punto per mettere fine alla strage, anche se i topi mi facevano schifo.
«Ci vorrebbero dei leopardi delle nevi, qui i gatti se li mangiano le volpi». «E i cani?».
«Pensa, non hanno paura dei lupi ma delle pantegane sì, robe da matti. Comunque adesso riposati un po’, in fondo sei in vacanza. Poi alle sette apparecchiamo il ristorante e alle otto cominciamo a servire i clienti». «Ma il ristorante non è chiuso in questa stagione che non c’è nessuno?».
«Non ci sono i turisti ma ci sono quelli del posto. Stasera c’è una cena degli alpini e dovresti darmi una mano, almeno a servire». «Ma certo, figurati!».

Servii gli arzilli vecchietti accompagnati da mogli e nipoti indisciplinati, lavai le unte padelle che non stavano nella lavastoviglie, spostai sedie e tavoli e spazzai i pavimenti. Andai a dormire che era l’una di notte.
«Grazie», disse Gunther prima che mi trascinassi sulle scale verso la mia camera. «Prometti bene, così magari domattina partiamo con le lezioni di mungitura. Ti aspetto in stalla alle sei».
Nei sei giorni successivi munsi – passato remoto di un verbo che non avevo mai usato in vita mia – rifeci lettiere, trasportai letame con la carriola fino al bordo degli orti e raccolsi le uova nei pollai assaltato ogni volta da una coppia di oche farneticanti che mi facevano la posta; poi consegnai formaggi, feci il cameriere e lo sguattero, spaccai la legna e visto che ero promettente, imbiancai le pareti del caseificio, che per fortuna era solo di due stanze.
La notte dell’ottavo giorno, prima di cadere sul letto, fissai lo specchio del bagno vedendo un’altra persona che non ero io, e le dissi: fanculo l’agriturismo.
Se dovevo stramazzarmi, tanto valeva farlo per coronare il mio sogno. Così, tra le perplessità del tizio dell’agenzia immobiliare, «ma è proprio sicuro? Guardi, gliela do in prova», dopo alcuni giorni mi trasferii in quella che già consideravo la mia baita. Non era proprio tutto a posto, anzi, ma che diamine, se ce l’avevano fatta Muir, Thoreau, Jack London e Richard Proenneke, trent’anni da solo in Alaska, sulle rive di un lago tra le montagne, dove i rifornimenti arrivavano due volte l’anno in idrovolante, non potevo farcela io, con un Despar a mezz’ora d’auto?

La notte dell’ottavo giorno, prima di cadere sul letto, fissai lo specchio del bagno vedendo un’altra persona che non ero io, e le dissi: fanculo l’agriturismo.

Quando mancarono due settimane a Natale decisi che era il momento di affrontare la drastica svolta. Mi procurai abbigliamento e masserizie da cacciatore di castori della British Columbia, buttai via tutto il superfluo, che poi tanto superfluo non era, e mi trasferii nella casa – beh, casa – dei miei sogni. Ero attrezzato per sopravvivere al blizzard, al lungo inverno artico, alla nevicata del millennio. Invece niente, i cambiamenti climatici erano già in atto. Piovve per tutto il tempo, temporali equatoriali – magari in quel preciso momento a San José di Costa Rica cadeva la neve, chissà – e vento caldo che si infilava in tutte le crepe delle pareti in legno della baita creando una condensa che rapidamente si tramutava in nebbia interna. Forse, come aveva fatto Proenneke, sarei dovuto uscire a cercare del muschio da infilare tra le fessure dei tronchi, ma dove lo trovavo il muschio? Boh. Dal tetto venivano giù piccole cascate d’acqua, e noi trappeur canadesi, non è che ci portassimo appresso chissà quanti secchi di plastica. Anzi, neanche uno.

In breve il pavimento fu ricoperto da una poltiglia scivolosa di acqua, legno, schegge, terriccio, aghi di larice. Fuori c’era fango molliccio ovunque e la legna per camino, per quanto l’avessi messa il più possibile al riparo, si poteva spremere e farne uscire acqua. Non nevicò mai, piovve sempre. E io che dovevo dedicarmi a seguire le tracce della lepre e del camoscio sulla neve, che dovevo cuocere il cibo all’aperto, che dovevo salire cime e attraversare boschi con le ciaspole, rimasi rintanato e imbacuccato per dieci giorni, fissando i vetri rigati e opachi oltre i quali c’era il nulla. Con me non avevo preso nemmeno un libro o un quaderno e una penna per scrivere i miei ultimi desideri prima di morire.

«Dottore, la colazione è pronta!», disse una gentile voce femminile fuori dalla porta.
«Arrivo!». Accidenti, erano già le dieci.
Mi vestii comunque con calma e scesi con fare solenne le scale del lussuoso b&b Mirabell, ricavato in una storica residenza dei conti Marcelletti.
«Abbiamo preparato fuori,» disse la signora sorridendo, indicando la luminosa veranda. Mi sedetti al mio tavolo. Oltre i vetri splendeva la superficie azzurra del mare di Sanremo. Il sole era caldo e l’acqua brilluccicava d’argento. Tè, croissant, uova, frutta, succo di melograno. Occhiali da sole pronti e telefonino per gli auguri dell’ultimo momento a Mara e Luisella. Due tavoli a lato una elegante coppia anzianissima leggeva il giornale muovendo appena le labbra, senza emettere suoni.

«Cosa fa oggi?», mi chiese l’albergatrice portandomi un caffè. «Ha visto che giornata splendida?».
«Vado per panchine sul lungomare: sole, lettura, fritto misto e un bicchiere di Pigato. Magari puccio anche i piedi nell’acqua salata».
«Bel programma! Se guarda avanti oggi forse scorge anche la Corsica, se guarda alle sue spalle vede pure la dorsale del monte Saccarello che è il più alto della Liguria, lo sapeva? Mi hanno detto che stanotte è caduta pure la neve».
Fanculo il Saccarello, pensai.
«Comunque buona giornata», concluse la signora con un sorriso confortante, «e Buon Natale!».

Pittura digitale, formato A4 orizzontale, di Erica Segale.

Franco Faggiani

Franco Faggiani

Vive a Milano, giornalista, come si ama definire, di lungo corso e lungo sorso, essendo passato, dopo anni di reportage in giro per le aree più calde del mondo, a scrivere di enogastronomia per numerose riviste internazionali. I suoi romanzi sanno condurci, in modo gentile, dentro storie di coraggio e di profondi sentimenti. Con "La manutenzione dei sensi" (Fazi Editore, 2018), vincitore del Premio Parco Majella 2018, del Premio Letterario Città delle Fiaccole 2018 e del Be Kind Award 2019, si è fatto conoscere e amare da moltissimi lettori. Con "Il guardiano della collina dei ciliegi" (Fazi Editore, 2019), ha vinto il Premio Biblioteche di Roma 2019 e il Premio Selezione Bancarella 2020. Il suo ultimo libro è "Tutto il cielo che serve". Da leggere assolutamente.
Franco è tra i più generosi amici di altitudini.it, perché, come quelli di altitudini, ama scrivere e vivere di montagna.


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4 commenti:

  1. Luca ha detto:

    Da ridere a crepapelle e finalmente un po’ di ironia sull’argomento.
    Un saluto, Luca

    1. Franco Faggiani Franco Faggiani ha detto:

      Grazie Luca, smitizziamo il più possibile! 🍀🍷🌲

  2. Luca Bracco ha detto:

    Sempre bello leggere Franco Faggiani, ancora più bello ascoltarlo nella presentazioni dei suoi libri. Spero di poterlo fare presto, dopo questo periodo così complicato.

  3. Marta ha detto:

    Franco Faggiani è una garanzia, è sempre come “essere lì”… a presto!

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