Fu Jack London che mi trascinò nel suo mondo con prepotenza e lo sentivo ancor più vicino dei racconti di Marco Polo, nonostante condividessi con l’autore de Il Milione la terra veneta. Non erano tanto i luoghi selvaggi del Canada o dell’Alaska ad attirarmi, quanto lo sferragliare dei treni merci avvicinati di nascosto, l’incontro con avventurieri forieri di nuove amicizie e nuove storie. La figura dell’hobo[1] si affermò nel mio immaginario come quella dell’eroe sottostimato, saggio e aperto ad ogni avventura. Incominciò a formarsi nella mia mente una corrispondenza tra il vagabondare e lo Zen, una percezione che mi affascinava e che ancora non capivo, ma che immaginavo si sarebbe svelata da sé, vivendo e guardando tutto con occhi tranquilli.
E’ strano quando guardi al tuo passato e ti accorgi come sono lucidi i ricordi delle decisioni che hai preso in un attimo: calme e a volte senza empatia. Quei ricordi emergono chiari dal frastuono dell’adolescenza, dalla confusione, come se qualcuno li guidasse e non fossero solo la risposta a stimoli esterni.
Un leggero e veloce jab
La ferrovia più vicina a casa era quella di Feltre, lì il direttissimo Calalzo-Roma, con vagoni di prima e seconda classe, cabine private e vagoni merci, si fermava ogni sera sul tardi. Lo avevo osservato alcune volte come fosse un rubinetto dal quale sgorgano i sogni.
Tutto accadde per un pugno, un leggero e veloce jab, stampato sui folti baffi dello zio. Ancor vivida è in me la sensazione della resistenza data dai baffi nell’attutire il colpo e la sorpresa che vidi negli occhi dello zio che si spalancarono colmi d’ira, come quelli di un maori durante l’Haka.
Quel pugno, sferrato per un malinteso, fu il mio alibi per attuare il mio piano: un volo di libertà. E l’ira dei parenti fu la molla che mi servì per evitare il mestolo vibrato dalla nonna e le grosse dita dello zio protese verso me. Misi il piede su una grossa vite nell’orto, scavalcai il muro di cinta e fuggii colmo di propositi. Corsi in strada e la prima auto a cui feci l’autostop mi raccolse e mi portò alla stazione. Ero calmo come l’acqua di un lago, determinato e forte del mio repertorio di maschere.
Mi sdraiai sui sedili e attesi
Mi nascosi a monte della stazione, dietro una cabina accanto ad alcuni cipressi. Lo sentii arrivare, cigolante e caldo, si arrestò dinnanzi a me il vagone co le auto di chi viaggiava con l’automobile al seguito. Con l’aiuto dell’oscurità salii sul vagone, la mia scelta cadde su una Dyane blu che mi accolse al suo interno. Mi sdraiai sui sedili e attesi.
Il treno partì. La luce giallastra della stazione si riflesse per alcuni secondi all’interno dell’abitacolo, poi si dileguò fino al buio totale dentro la prima galleria. Rimasi seduto, mani sul volante e respirai profondamente. Nonostante fosse buio indossai i Rayban che trovai nel cruscotto e avrei voluto avere anche una sigaretta appesa alle labbra, mi sentivo leggenda. Trovai una torta, ne presi un pezzo rimettendo il resto al suo posto. Se ricordo bene cantai a squarciagola, fingendo di guidare, immaginando il Nebraska anche se era alla stazione di Quero-Vas.