Racconto

VIAGGIO IN DYANE BLU

"Non erano tanto i luoghi selvaggi del Canada o dell’Alaska ad attirarmi, quanto lo sferragliare dei treni merci avvicinati di nascosto."

testo di Johnny Bertelle

Foto di karl bewick da unsplash
28/07/2020
5 min
Il concetto del viaggio e dell’avventura si formò nel mio animo fin da bambino attraverso i libri e i racconti Jack London.

Fu Jack London che mi trascinò nel suo mondo con prepotenza e lo sentivo ancor più vicino dei racconti di Marco Polo, nonostante condividessi con l’autore de Il Milione la terra veneta. Non erano tanto i luoghi selvaggi del Canada o dell’Alaska ad attirarmi, quanto lo sferragliare dei treni merci avvicinati di nascosto, l’incontro con avventurieri forieri di nuove amicizie e nuove storie. La figura dell’hobo[1] si affermò nel mio immaginario come quella dell’eroe sottostimato, saggio e aperto ad ogni avventura. Incominciò a formarsi nella mia mente una corrispondenza tra il vagabondare e lo Zen, una percezione che mi affascinava e che ancora non capivo, ma che immaginavo si sarebbe svelata da sé, vivendo e guardando tutto con occhi tranquilli.
E’ strano quando guardi al tuo passato e ti accorgi come sono lucidi i ricordi delle decisioni che hai preso in un attimo: calme e a volte senza empatia. Quei ricordi emergono chiari dal frastuono dell’adolescenza, dalla confusione, come se qualcuno li guidasse e non fossero solo la risposta a stimoli esterni.

 Un leggero e veloce jab
La ferrovia più vicina a casa era quella di Feltre, lì il direttissimo Calalzo-Roma, con vagoni di prima e seconda classe, cabine private e vagoni merci, si fermava ogni sera sul tardi. Lo avevo osservato alcune volte come fosse un rubinetto dal quale sgorgano i sogni.
Tutto accadde per un pugno, un leggero e veloce jab, stampato sui folti baffi dello zio. Ancor vivida è in me la sensazione della resistenza data dai baffi nell’attutire il colpo e la sorpresa che vidi negli occhi dello zio che si spalancarono colmi d’ira, come quelli di un maori durante l’Haka.
Quel pugno, sferrato per un malinteso, fu il mio alibi per attuare il mio piano: un volo di libertà. E l’ira dei parenti fu la molla che mi servì per evitare il mestolo vibrato dalla nonna e le grosse dita dello zio protese verso me. Misi il piede su una grossa vite nell’orto, scavalcai il muro di cinta e fuggii colmo di propositi. Corsi in strada e la prima auto a cui feci l’autostop mi raccolse e mi portò alla stazione. Ero calmo come l’acqua di un lago, determinato e forte del mio repertorio di maschere.

Mi sdraiai sui sedili e attesi
Mi nascosi a monte della stazione, dietro una cabina accanto ad alcuni cipressi. Lo sentii arrivare, cigolante e caldo, si arrestò dinnanzi a me il vagone co le auto di chi viaggiava con l’automobile al seguito. Con l’aiuto dell’oscurità salii sul vagone, la mia scelta cadde su una Dyane blu che mi accolse al suo interno. Mi sdraiai sui sedili e attesi.
Il treno partì. La luce giallastra della stazione si riflesse per alcuni secondi all’interno dell’abitacolo, poi si dileguò fino al buio totale dentro la prima galleria. Rimasi seduto, mani sul volante e respirai profondamente. Nonostante fosse buio indossai i Rayban che trovai nel cruscotto e avrei voluto avere anche una sigaretta appesa alle labbra, mi sentivo leggenda. Trovai una torta, ne presi un pezzo rimettendo il resto al suo posto. Se ricordo bene cantai a squarciagola, fingendo di guidare, immaginando il Nebraska anche se era alla stazione di Quero-Vas.

Foto di nikola treci da unsplash
Foto di marco carrillo da unsplash

Verso Punta Marina
Luci e lumini passavano veloci attraverso la campagna veneta e come i miei sogni correvano ad occhi aperti attraverso il tempo. A Padova mi distesi sul sedile aspettando che il treno ripartisse. Ancora luci riflesse, voci, sbuffi e i rumori delle stazioni. Occhi fissi al soffitto. Poi il treno riprese a correre verso Ferrara. Intuii le sagome dei colli Euganei, il placido fluire dell’Adige e poi del Po. Ad un casello ferroviario, sperso nel Polesine, vidi la siluette di un ferroviere, nella luce tenue notai la sorpresa nel suo volto, quando i nostri occhi si incrociarono in quella lontana notte del ‘73.
Chissà quali spiegazioni si sarà dato vedendomi dove mi ero imbucato. Forse, rientrato a casa, ne avrà parlato con sua moglie e chissà se gli sarà rimasto quel ricordo di quei due occhi fissi nel buio.

La mia meta era Ravenna, anzi Punta Marina, il luogo dove la mia famiglia si era trasferita per alcuni anni prima di ritornare a Feltre. A Ferrara dovetti abbandonare la Dyane blu e, dopo aver rimesso gli occhiali nel cruscotto, la ringraziai accarezzandola. Scesi dal treno e mi avvicinai prudentemente alla stazione. Il treno ripartì ed io mi recai alla sala d’aspetto. Luci al neon, nella notte fonda la sala era deserta. Credo che mi appisolai, ma solo dopo aver deciso il da farsi.
Era ancora buio quando arrivò il treno per Ravenna. Il bar appena aperto straripava del profumo di caffè e della musica dell’orchestra Casadei. Salii sul treno, trovai un posto dove sedermi, ma ero senza biglietto e denaro. La speranza era di poter sfuggire al controllore facendo finta di dormire, come altri passeggeri assonnati e tristi, diretti a qualche lavoro monotono, che avevo accanto a me.

Naturalmente il controllore mi notò subito e mi chiese il biglietto. Tirai fuori dal mio repertorio linguistico l’accento romagnolo che avevo acquisito nel passato e lo usai per dire a quel brav’uomo che ero scappato di casa la sera prima ma ora, pentendomene amaramente, volevo ritornare subito a Ravenna. Mi disse che purtroppo non poteva farmi viaggiare senza biglietto e che alla prima fermata sarei dovuto scendere. Mi accompagnò alla porta, scesi e per alcuni secondi ci guardammo negli occhi: i miei tristi di ragazzino incrociarono i suoi di genitore preoccupato. Con un cenno mi invitò a risalire e così giunsi a Ravenna.

Segretamente innamorato
Punta Marina non dista molto da Ravenna e tenendo bene in vista le alte ciminiere delle raffinerie cerchiate di bianco e rosso, lungo i canali di acque stagnanti in una terra piatta tra le piantagioni di barbabietole da zucchero, intravidi la Pineta che circondava il paese. La stessa pineta che vide la fuga di Garibaldi e Anita dai soldati imperiali, ma molti anni prima.
Mi recai a casa di un amico di famiglia. La signora aprì la porta e fu molto sorpresa nel vedermi ed io lo fui ancor di più, non la ricordavo così… Era la madre del mio amico e ora vedevo i suoi lunghi capelli neri e gli occhi grigi, avrei voluto sprofondare nella sua morbidezza, arrendermi al suo calore. Non credo si sia acorta di nulla, nonostante i miei sguardi trasognati. Avvertì i miei genitori, mi diede da mangiare e mi riportò al treno con il denaro per il biglietto. Mi ritrovai così a risalire il Piave, segretamente innamorato. Pensai a quella donna per alcune settimane, musa di poesie mielate e poi tutto svanì.

I miei genitori erano alla stazione di Feltre ad aspettarmi, non dissero nulla e salimmo sulla corriera. Ricordo i miei fratelli gemelli, vestiti uguali e con la testa piegata dalla stessa parte, che mi guardavano tornare a casa. Lessi nei loro volti divertimento, stupore e timore. Lo sguardo preoccupato di mio padre mi seguì a lungo dalla sua sedia nell’angolo dove riposava. E mi sembra ancora di vederlo.
_____
[1] Hobo, nel gergo americano, è il termine che indica i vagabondi, i lavoratori senza fissa dimora, con una stile di vita improntato alla semplicità, al viaggio, all’avventura, alla ricerca interiore, alla marginalità, svolgendo talvolta lavori occasionali. it.wikipedia.org/wiki/Hobo

Foto di cory woodward da unsplash
Johnny Bertelle

Johnny Bertelle

Sono nato a Melbourne, a 4 anni ritorno in Italia con la mia famiglia dopo una crociera di 40 giorni. Durante la naja corono uno dei due sogni di mia madre: conseguire un diploma (prendo quello di rocciatore). Poco dopo l’altro sogno: diventare prete (vado in alpeggio a malga Losco, a Casera Razzo, come pastore di manze, non di anime). Dopo 6 mesi in giro per l'India e il Nepal, a 22 anni, ritorno in Australia. Lì raccolgo mele, avvio ristoranti e laboratori di gelato, lavoro con la forestale, costruisco case in legno e vendo "tempura mushrooms" ai festival della Tasmania. Vivo a Franklin sullo Huon River in una delle mie case, dove offro vitto alloggio ed escursioni, per turisti italiani. Prima di ogni viaggio, per prendere coraggio, andavo sui Monti del Sole con gli amici di allora, le “formiche rosse”: Diego, Aldo, Bob, Manolo, Raffaele e altri ancora. Che bei tempi!


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