Ed ecco ora l’aneddoto migliore della vacanza: stavamo praticando l’essenza dell’escursionismo-ciclismo ossia, dopo una giornata di pedalate su strade rurali, avevamo occultato le bici nei boschi presso i laghi del Durmitor per salire a piedi gli ulteriori novecento metri di dislivello fino alla cima del Bobotov Kuk, la seconda montagna più alta del Montenegro, per godere del tramonto.
Sali e sali, eravamo ormai sulla crestina rocciosa finale della montagna, da percorrere camminando e mettendo giù le mani ogni tanto. Denis, ovviamente, mi precedeva. Ad un certo punto, mancavano pochi metri alla vetta, lo vidi protendersi all’indietro sbucando con la testa tra due massi calcarei in bilico.
«Ci sono due ragazzi nudi in cima!» annunciò.
«Eh? Cosa?» riuscii a farfugliare mezzo accecato dal sole radente e dal sudore che mi colava sugli occhi miopi. Nel frattempo però allungai il collo per vedere meglio.
«…e si stanno anche inc*lando!» aggiunse.
Il mio cervello andò in tilt.
Nei concitati successivi istanti, i due ragazzi si rivestirono precipitosamente, e noi arrivammo sulla cima con estrema lentezza, fingendo di aver guardato fino ad allora il panorama circostante. Io, nello specifico, osservavo accuratamente le mie scarpe, come ad interrogarle sul da farsi.
Smozzicammo un saluto, dicemmo le nostre rispettive nazionalità (loro erano tedeschi, ed erano circa nostri coetanei). L’imbarazzo era evidente. Denis lo affrontò domandando con candore, nel suo inglese che pare parlato da un pakistano: «Can you take a picture of us?»
Gli lanciai un’occhiataccia e gli dissi, in dialetto bellunese, sia mai che i tedeschi capissero l’italiano, che non mi pareva una bella idea dargli in mano la mia macchina fotografica visto che fino a pochi istanti prima quelle mani si stringevano reciprocamente il caz*o.
«Sarai mica omofobo?» incalzò Denis.
Risposi balbettando che no, ero progressista socialdemocratico e ovviamente il problema era esclusivamente di igiene e, sempre in dialetto, iniziai a perorare la causa dei diritti di genere, del libero amore eccetera. «E se fossero state due ragazze, saresti stato così schifiltoso?» replicò trionfante. L’arringa mi morì presto in gola, sostituita dalla vergogna.
La foto si fece. I tedeschi erano pure simpatici e l’imbarazzo si dissolse e ci rilassammo, come è giusto fosse tra persone intelligenti in cima ad una bella montagna in una memorabile serata estiva. Beninteso, al loro posto l’avrei fatto anch’io, intendo l’amore – non con Denis, certo – se mi fossi trovato lì con una tosa bendisposta a fare altrettanto, alle otto di sera in una delle giornate più lunghe dell’anno.
Il sole sprofondò all’orizzonte. Scendemmo e piantammo il campo in mezzo alla prateria zeppa di sassi, si alzò un vento che ululò tutta la notte e io temetti che la mia tenda acquistata al supermercato si lacerasse.
Infine, una delle cose più belle del viaggio fu una discesa poco pendente di ben quaranta chilometri percorsa nelle ore del tramonto. Ricordo di aver pensato che se ci fosse un paradiso (ma non c’è) sarebbe bello fosse così: rettilineo, un tornante in vista, pinzare il freno sinistro per caricare l’avantreno, “sentire” la bici che si acquatta come un gatto, sfiorare il freno destro appena prima dell’ingresso in curva, disegnare la traiettoria, rilanciare in uscita frullando duettrè pedalate, lasciarsi trasportare in basso dalla gravità, strizzando un po’ gli occhi. Avanti così, per l’eternità.
La discesa durò a lungo. Ho ancora vivo il ricordo di Denis che si ferma ad accarezzare i cavalli in mezzo alla strada, e poi noi che scendiamo euforici e felici e ci sorpassiamo a vicenda ridendo e già mimando la scenetta della montagna, mollando le mani dal manubrio per fare l’aeroplano, con l’odore del timo tra i lampi viola della poligala. E la piana di Podgorica laggiù in fondo ormai in ombra, ma noi ancora su, nel bagno di luce del sole arancione, con milioni di chilometri da percorrere e ancora tanto tempo da solcare prima di sprofondare nella notte, l’aria calda sulla pelle e il gusto di poter semplificare la nostra vita al punto di dover pensare solo alle prossime dieci pedalate, non ai prossimi dieci anni.
Al ritorno la Škoda era tutta impolverata nel parcheggio: era rimasta lì per settimane in balìa degli eventi. Il finestrino lato guida aveva un segno come di qualcuno che avesse disegnato con la manica un oblò nel sudiciume, per vedere se dentro ci fosse qualcosa da rubare.
Ma la macchina era lì, intatta, e nessuno aveva rubato niente.
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(1) In realtà Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina. Qua bisogna stare attenti a non fare casino, che è pieno di Stati ed etnie, ed in genere se sbagli si incazzano, ed hanno ragione.
(2) Qui si trova l’abete bianco più alto e più grosso del mondo!
Crediti: la frase delle dieci pedalate e dei dieci anni è presa, mutuata, da una pubblicità su una rivista cartacea di montagna di tanti anni fa.
foto:
1. Riassunto di paesaggio montenegrino.
2. Denis ed io in vetta al Bobotov Kuk nella foto scattata da uno dei due tedeschi. I nostri veri volti sono protetti per evitare vostre eventuali ritorsioni.
3. Ci si lava nei fiumi con (poco) sapone biodegradabile.