Reportage

#110 SOGNO O SON DESTO?

testo e foto di Giorgio Arcuri  / Innsbruck (Tirolo)

04/01/2021
6 min
Il Bando del BC20

Sogno o son desto?

di Giorgio Arcuri

Che spettacolo il tramonto sulla valle! Le cime lontane si infiammano, le luci non esitano a rincorrere quel contorno d’ombra che spostandosi verso est annuncia la fine del giorno.

Non so se siamo stati, in un passato remoto, esseri della notte i cui sensi si aguzzano nel momento in cui il calore della nostra stella ci abbandona, ma il rimbombo del giorno, come un rumore bianco, lascia spazio alla calma di una notte che non vuole essere disturbata in cui ogni suono diventa più acuto e tagliente.

In qualsiasi altro momento, di fronte a quel palcoscenico, gli unici sentimenti sarebbero stati gratitudine e meraviglia: “ma quanto è bello vivere qui tra le montagne!”. Oggi quello stesso spettacolo è invece portatore di domande, dubbi, imprevisti e paure. Gli occhi guardano senza vedere, le orecchie sentono senza ascoltare ed il volo di quell’elicottero, che scompare dietro la montagna alle nostre spalle, sebbene seguito dal capo, resta in qualche modo impercepito. Le uniche sensazioni veramente percepite sono il calore della sua schiena contro il mio petto ed il freddo appuntito della roccia su cui siamo accovacciati. La ricerca frenetica di una soluzione, di una via di fuga, ha lasciato spazio a quesiti: “Ne vale veramente la pena? Come ho fatto a sottovalutare la natura in questo modo? Come ho fatto a mettere in pericolo la persona cha amo di più, e perché? Per una passione? Quand’è che una passione diventa ossessione?”

Oggi non vi racconto chissà quale spedizione nei punti più alti e sperduti del pianeta, né il successo della conquista di una cima; vi racconto invece la storia di una normalissima coppia appassionata di montagna che per la prima volta ha dovuto toccare con le proprie mani la precarietà dell’alpinista. Le storie eccezionali ed estreme attirano spesso più velocemente l’attenzione, ma in fondo il mondo della montagna è fatto di persone normali, gente come noi che di tanto in tanto, nel loro piccolo spinge i propri limiti un po’ più in là. In quella soleggiata giornata di agosto il nostro limite ha preso il nome di Acherkogel.

Qualche settimana prima ci eravamo avventurati con molto rispetto e precauzioni su una via alpina di 600 metri con un approccio di 900 metri di dislivello, che si era rivelata un successo. Contenti e soddisfatti ci apprestiamo a cercare un nuovo progetto che ad un occhio inesperto come il nostro sembra addirittura più facile del nostro debutto alpinistico. Fin dall’inizio della giornata riceviamo dei segni dal “destino”?, “fato”?, per chi vuol credere in suddette istituzioni, ma che decidiamo di ignorare. Difficile col senno di poi capire quanto questa scelta fosse cosciente e guidata dalla voglia del successo, oppure da una mancanza di sensibilità. L’unica verità che resta è che se la prossima volta, dopo un’ora di approccio, ci renderemo conto di aver dimenticato i caschi in macchina, anziché correre a prenderli ci faremo una passeggiata e gireremo i tacchi. Ma arrivati a quello che sembrava l’attacco della via, a mezzogiorno, decidiamo di indossare imbraghi e fare i primi passi verso l’alto, ignari delle difficoltà alle quali andavamo incontro.

Non trovando un evidente punto di inizio ben marcato, decido di iniziare la salita verso la cresta ben evidente davanti a noi. In fin dei conti si tratta di un susseguirsi di secondi e terzi gradi alpini che potremmo probabilmente anche arrampicare in conserva.

«Conserva? Cos’è?» mi chiede Anne. Upsy forse avremmo dovuta esercitarla in condizioni più rilassate. Per coloro i quali non lo sapessero si tratta dell’arrampicata simultanea di entrambi i membri della cordata su protezioni mobili, posizionate dal primo e recuperate dal secondo, attraverso le quali scorre la corda. Ci rendiamo conto velocemente che non è un’alternativa valida per il livello della nostra cordata. Mi ritrovo quindi ad organizzare soste ma soprattutto a non rendermi conto che il tempo sta passando velocemente e che probabilmente l’unico modo per scendere è arrivare fino in cima.

Nonostante tutto procediamo abbastanza tranquilli fino a quello che sembra essere il passo chiave, una placca appoggiata di quarto. Nell’arrampicata colui che sale da primo e porta su la corda è di solito il più esposto e prende più rischi, purtroppo però in montagna ci sono delle eccezioni e senza rendercene conto eravamo proprio di fronte ad una di quelle. Il passo chiave era ben protetto dal basso con un chiodo, e seguito da venti metri di corda libera sulla cresta. Arrivo in sosta ed Anne inizia ad arrampicare fino a quando si rende conto che quel chiodo che avevo utilizzato prima del passaggio duro era l’unico punto che la proteggeva da un potenziale pendolo di 20 metri contro la parete sottostante della cresta. Vi potrete immaginare il seguito.
«Tirati sulla corda e quando sei sopra il chiodo togli il rinvio», grido.
«Non ci riesco ho troppa paura!», mi risponde.
«Ok aspetta che vengo a prenderti».
«No, non voglio che vieni».
Scambiando grida di angoscia senza saper veramente cosa poter fare.
«Basta sto scendendo» grido io nel panico della situazione andando incontro ad Anne in lacrime che si preoccupa ancora di più vedendomi lasciare la sosta e scendere sulla corda (dopo aver messo la sua corda in sicurezza ovviamente).

Lei grida «No, no, resta lì», ma il panico e la rabbia degli ultimi momenti scompaiono improvvisamente non appena le nostre mani si toccano. La tiro su in sicurezza sulla cresta togliendo quel rinvio incriminato. Ci abbracciamo, lei piange, i singhiozzi si calmano. Io tiro un respiro di sollievo, come faremo a finire questa via? Non siamo nemmeno a metà. Per fortuna Anne non se ne rende conto. Devo solo tenere duro, mantenere una buona velocità di crociera e portarla in salvo il più velocemente possibile ma soprattutto in sicurezza. La difficolta più grossa sembrava essere superata e dopo aver asciugato le lacrime ed esserci ricordati della fortuna che abbiamo ad essere insieme sani ma non ancora del tutto salvi, procediamo con l’arrampicata tortuosa su questa cresta che da giù sembrava ben più diretta e liscia.

Dopo una serie di soste immaginate su friends con la paura costante che non avrebbero retto una caduta, arrivo sulla prima cima intermedia. Non mi dimenticherò mai il susseguirsi di emozioni negli occhi di Anne, dapprima felicità di aver raggiunto una vetta seguita dal terrore della vista della vera cima sulla quale ci saremmo dovuti dirigere.

Erano le 18.00 quando dopo 6 ore di arrampicata e l’ombra della notte che si avvicinava un attacco di panico ci folgora e in quanto cordata ma soprattutto in quanto coppia, non sappiamo più che fare. Anne non vuole più continuare per paura di commettere un errore fatale nel buio, ma la discesa è un’idea impossibile con l’attrezzatura a disposizione. Improvvisamente ci rendiamo conto che l’amore per la montagna in quel momento non è ricambiato lo stesso oggetto delle nostre passioni e sogni ci sta giocando oggi un tiro basso.
In preda all’impotenza dettata dal momento o forse a causa della disperazione mi sembra di vedere una via di fuga. Una scorciatoia che porta sulla via di discesa. Che esista una tal cosa non citata nella redazione sappiamo benissimo quanto sia poco probabile. Ma a causa di quella dea di cui si dica sia l’ultima a morire mi avventuro in avanscoperta abbandonando le lacrime di Anne sulla cima. In 15 minuti scendo e risalgo con quella che sembra possa essere una buona notizia. Basterebbe attrezzare una doppia di 20 metri per ritrovarsi su un plateau che porta giù in sicurezza. La paura e l’insicurezza ci fanno ripercorrere quell’inizio di discesa ma questa volta in più di un ora in cui ogni passo è incerto e le pietre che no scivolano a valle non poche. Arrivati all’attacco di quella che poteva essere la fine dopo una serie di tentativi ci rendiamo conto di essere bloccati.

Chiamiamo il soccorso alpino! Ma quanto costa? Non so, possiamo chiedere. 6000 euro ci dicono al telefono… ma non possiamo dormire qui? Non legati senza coperta di sopravvivenza e con i 6 gradi della notte? Di certo non moriamo? No, ho troppa paura in fondo a che servono i soldi se hai paura per la tua incolumità.

In quei momenti di panico e di delirio si pensano le cose le più strane. Ci si chiede ma perché? Ma perché siamo qui, perché si ha voglia di legarsi ad una corda ed andare verso l’alto, la Montagna ma cos’è? Quel impulso primordiale di superare i propri limiti, più grande pregio e difetto dell’uomo. Volare, arrampicare perché questa necessità di combattere la gravità. Forse la routine della vita sedentaria per la quale non siamo geneticamente fatti? Forse un patrimonio da nomade che ci portiamo di generazione in generazione ma che lasciamo chiuso nel cassetto ogni volta che ci alziamo per una nuova giornata che non sarà diversa da quella precedente né da quella successiva.

La Montagna! Io amo la Montagna! In fondo non sappiamo bene cosa vogliamo dire, o forse lo sappiamo così bene che non abbiamo bisogno di spiegarlo. Forse è un sentimento così intimo cosi profondo ed allo stesso tempo animale che non si possono trovare parole per descriverlo. Si dice non c’è amore senza sofferenza, ma non amare per paura di perdere è un po’ come non vivere per paura di morire.

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Giorgio Arcuri

Giorgio Arcuri

Giorgio Arcuri 30 anni. Ho lavorato per Black Diamond ed ora vivo ad Innsbruck dove cerco di vivere e coltivare la mia passione per la montagna.


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