Vapore informe
testo e foto di Laura Bortot / Thiene (VI)
Ammasso di goccioline d’acqua aventi diametro di qualche millesimo di millimetro… fenomeno che si verifica talora in alta montagna, per cui si ha un addensamento della nebbia al fondo valle o a mezza costa, mentre le cime restano scoperte nel cielo sereno.
Cammino con quel senso di lieve vertigine che si insinua nei pensieri e percorre il corpo quando la visibilità si offusca. Mi tolgo un guanto, cerco di raccogliere nel palmo della mano il vapore informe, volatile. Riprendo il cammino. Il silenzio mi accompagna e mi fa da spalla.
Non è mai stato un problema il silenzio. Posso trascorrere ore, giorni senza parlare, non ho bisogno di parole pronunciate. In realtà il problema è proprio questo. La sensazione di non aderire verbalmente alla realtà. Il mio cervello è un vulcano in costante ebollizione, lavora e plasma quantità enormi di materiale incandescente, idee, suggestioni, prospettive, rielaborazioni, calcoli. Sono un instancabile processore di oggetti intellettuali. E il corpo si adatta a questo ambiente magmatico, nel contempo astratto, quasi sterile, dove il rigore lucido e metodico strangola sul nascere qualsiasi tentativo di pulsione, qualsiasi fuoco.
Sistema eterogeneo costituito da una fase liquida dispersa sotto forma di gocce minute in una fase continua gassosa.
La nebbia si infittisce e mi allaccia in una morsa. Percepisco la pressione crescente sulle gambe e sulle braccia, anche il respiro sembra impattare con qualcosa di solido, un aggregato pastoso, una folta vegetazione di fumi grigi, spettrali. Improvvisamente ho paura. Non mi appartiene, la paura, eppure di colpo la riconosco, quasi provenisse da un tempo smarrito, da un lido di me stesso che le onde hanno eroso fino a modificarne i tratti. Affiora con un’accelerazione del cuore, poi dilaga, abbatte gli argini. Li sento cadere uno a uno e comincio a tremare; quasi per simmetria, nella nebbia si spengono in successione anche i solitari paletti di legno che potrebbero indicarmi una traccia. Non ho più alcun appiglio visivo. Mani indistinte mi spingono e mi comprimono in un luogo senza punti cardinali. Cerco di reagire, di stabilizzare il battito e di trovare un sostegno nei passi. Solo che i movimenti, per quanto lenti e calibrati, non riescono a disegnare traiettorie regolari, vengono risucchiati in vibrazioni concave, strutture circolari dello spazio che annullano la dimensione orizzontale e verticale, sfilano il terreno da sotto i piedi e cancellano qualsiasi idea di cielo.
Un escursionista mi ha superato pochi minuti fa. Mi impongo di camminare più rapido. Procedo dritto, lo sguardo incollato davanti a me. Cerco di individuarlo. Non lo vedo. Lo chiamo. Ma la mia voce esce ponderata, riflessiva. Di nuovo la paura. Mi sbilancio in volumi più alti, provo ad articolare un mozzicone di frase. Ma la mia voce esce argomentativa. Accelero ancora il passo, mi concentro su un punto preciso, stringo le cinghie dello zaino e chiudo la giacca fino al collo, come se il proteggermi dal freddo potesse darmi una sorta di compattezza fisica, e interiore.
Vapore informe
Invece la sensazione che mi assale è di perdere consistenza. Uno sfumare ineluttabile delle singole parti del corpo, una dissoluzione opaca, senza dolore ma anche senza ritorno. Mi guardo, mi tocco. Ho un bisogno estremo di sentirmi reale, tangibile, forse per la prima volta da tanto tempo.
La vertigine aumenta. Inizio a sudare. Chiamo di nuovo l’escursionista. Non lo vedo, lo chiamo ancora. Mi fermo, mi giro, procedo a tentoni, non so più dove sono, la nebbia mi stringe le caviglie e sale. Annaspo e perdo aderenza, mi sembra di scivolare, ma non cado. Lo chiamo ancora e ancora.
Finché qualcosa dentro di me non si spezza. Come un ramo secco, un crepitìo istantaneo, definitivo. E allora urlo, cerco aiuto, il cuore mi batte all’impazzata, i vapori informi si raggrumano in una miriade di volti di me stesso che cominciano a vorticarmi intorno, mi vedo urlare, tremare, il respiro corto, le lacrime che si appesantiscono ma rimangono bloccate, il sudore sulle mani, sulla fronte, lungo la schiena.
Uso fig.: Di cosa che offusca le facoltà spirituali, che toglie fiducia e sicurezza.
La mente tenta un’ultima strenua resistenza opponendo un pensiero razionale: nel mondo delle pulsioni, della variabilità, dell’altalena tra legge e sregolatezza sono sempre stato un punto fermo e solido, in grado di filtrare attraverso l’intelletto le sollecitazioni accidentate, asimmetriche, per poi controllarle e gestirle. Il fondo valle con le sue disordinate conformazioni naturali o artefatte è l’immagine più significativa di questo mondo. Quindi risalendo la montagna, verso le terre alte così vicine al cielo sgombro di nuvole, perfetto, levigato, simile al pensiero puro e cristallino, dovrei sentirmi via via più contiguo a me stesso, definitivamente al riparo da scossoni emotivi, arretramenti, cadute.
Le goccioline si avvitano in spirali più strette, sembrano aizzate dal ritmo del respiro, più vado in affanno più il movimento febbrile dei microscopici volti cresce d’intensità. So che non devo fermarmi, devo uscire dalla bolla di nebbia, procedere sul sentiero tastando il terreno passo passo. Quando mi sarò liberato da questa trama assurda di sdoppiamenti e allucinazioni tutto acquisterà un suo volume e un suo posto, in una dimensione pulita e trasparente in cui posso riconoscermi come parte di un ordine, e quindi di uno spazio sicuro. La prigione è il fondo valle, mi obbligo a pensare.
La vetta
Per simmetria…
Di colpo mi rendo conto che non percepisco alcun rumore, sono immerso in una realtà ovattata, anche le spirali gassose non producono suono. La paura mi artiglia di nuovo, questa volta assesta colpi alternati e regolari: mi trovo in un guscio sospeso dove le leggi della fisica sembrano annullate, oppure sta accadendo qualcosa di sinistro, si stanno ribaltando i piani, le certezze, le evidenze. Arrivano le lacrime, quelle vere, non di sudore o di affaticamento visivo, ma di angoscia e di confusione. Piango. Come non faccio mai. Piango. Come un bambino.
La parola bambino si affaccia al pensiero e subito viene spinta in profondità, in qualche crepaccio remoto dentro di me, ma fa in tempo a produrre un’onda d’urto nella nebbia. Il cuore si arresta per un attimo: specchiata in minuscole particelle di acqua e di gas vedo la mia infanzia, mi vedo correre a perdifiato, poi nascosto sotto le scale; mi vedo tremare, cercare affannosamente qualcosa, proteggermi gli occhi con le mani, vedo e sento. Sento il dolore, e infine anche il vuoto. Sento il vuoto di dolore, l’assenza di sentimenti che ho voluto creare all’interno dei labili confini del mio corpo, per poi irrobustirli, difenderli, come frontiere minacciate da un pericolo esterno.
… la condensazione del vapore intorno agli ioni prodotti dall’eventuale passaggio di una particella ionizzante, dà luogo, in condizioni opportune di illuminazione, a una traccia visibile che può essere fotografata.
Sento, sento, sento. Mollo la presa, dopo un tempo ormai innumerabile. A quel punto il corpo collassa, si sbriciola. Le gambe non reggono più, e piano piano cedono. Inginocchiato a terra chiudo gli occhi e mi raggomitolo proteggendomi la testa con le braccia. E così rimango. E rinuncio.
Rinuncio alla traccia sicura, alla preparazione, all’attrezzatura, al cielo limpido, pulito, all’atmosfera rarefatta del pensiero.
Rinuncio a me stesso, alla fitta e robusta tramatura di me stesso. E allora anima e corpo si rimescolano. Si rimescolano i piani, gli ordini, le categorie.
Dicono che la vetta della montagna sia il punto in cui la terra tocca il cielo. E i piccoli uomini si arrampicano fin lassù per sfiorare anche solo per un attimo l’immensità azzurra. Sono momenti sublimi, di coesione spirituale, di perfetta sovrapposizione a sé stessi. A me, qui e ora, sta accadendo qualcosa di inconcepibile. La vetta della montagna si capovolge, si rovescia in basso fino a raggiungermi su questo sentiero sperduto nella nebbia, e mi indica un cielo diverso, tutto dentro di me, un’altra immensità, profondamente umana, sottile, fragile. La montagna mi dice chi sono.
Rimango in questa posizione per un tempo indefinibile. Forse esausto mi addormento. A un certo punto riapro gli occhi. Un vento lieve mi spira accanto con un fruscio che somiglia a un sussurro gentile. La nebbia si sta diradando, si sfilaccia in vapori luminosi. Davanti a me la vetta imbiancata della montagna, di una bellezza che mi spoglia di qualsiasi pensiero, mi lascia in ginocchio, meravigliosamente vulnerabile. Dentro quella gracilità emotiva mi imbatto in un silenzio quieto, che tuttavia rintocca e si increspa sul filo del respiro, in perfetta armonia con la natura che mi circonda. Mi disperdo e mi ritrovo, senza attriti, senza smottamenti.
Il cuore riprende a battere forte.
Sono commosso, sono felice, sono emozionato. Sono vivo.