Sotto la spinta di un impulso incontrollabile mollo tutto e parto. La macchina, come attratta da una potente calamita, procede spedita verso quel posto fantasma, popolato dagli spettri del ricordo. Prima di Castell’Arquato giro a sinistra e il paesaggio si fa ondulato, presagio di altitudini maggiori. Le indicazioni a Cortina dicono di andare diritto e io invece giro a destra, seguendo l’antico richiamo.
Oltrepassata la nuova Locanda delle rose, che della vecchia ha conservato solo il nome, l’asfalto lascia il posto ai sassi e la sensazione è di procedere in una strada senza uscita. Sulla sinistra, metri e metri di prato recintato, maniacalmente rasato e disseminato di bandierine segnaletiche, si sono mangiati cento ettari di quello che era uno dei boschi di castagni più grandi dell’Appennino Piacentino. Sulla destra, un piccolo agglomerato di villette a schiera costruite a corte intorno a una piscina: alloggi del week end per milanesi amanti del golf.
Man mano che si procede, oltrepassato il perimetro dell’ex bosco riconvertito, la vegetazione ritorna padrona. Abbandono l’ormai deserta Strada comunale dei Frati e giro a destra. La via si fa più stretta, la vegetazione più selvaggia, fino a diventare un sentiero nel bosco. Non si può andare oltre su quello che un tempo era l’ingresso sud delle Terme. Parcheggio la macchina in una rientranza della vegetazione e procedo a piedi. Le felci arredano il sottobosco, le fronde degli alberi s’intrecciano, creando macchie d’ombra. C’è ancora qualche insetto che ronza, un merlo salta tra i rami.
Il pavimento stradale è dissestato, nei giorni di pioggia le buche raccolgono l’acqua piovana rendendo impraticabile il sentiero. Procedo spedita, oggi il terreno è asciutto. Nella calma piatta del pomeriggio passa uno sbuffo di vento, le foglie ancora attaccate sui rami fremono, quelle già cadute rotolano spostandosi di qualche centimetro. Eppure mi sembra di sentirle le voci, echi spettrali di bambini che giocavano e il fischio del trenino che li invitava a salire.
Davanti a me un edificio fatiscente ha l’aria austera e decadente di quei nobili che conservano il titolo solo nella memoria di chi li ha visti nel momento del loro massimo splendore. Poco distante i resti amputati e arrugginiti del parco giochi. In piedi, appoggiata alla scala di uno scivolo rimasta orfana della parte metallica su cui scivolare, c’è una bambina. Ha i capelli castani ondulati che si appoggiano sugli spallini del vestito azzurro a pieghe; la frangia troppo lunga le copre gli occhi, la sposta soffiandoci sopra mentre si gira a guardarmi.
«Sei arrivata finalmente» mi dice sbuffando mentre si tira su con le mani i calzini bianchi ornati di pizzo che le erano scesi sotto il cinturino delle scarpe nere di vernice. Si raddrizza e mi tende la mano. Come ogni volta, accetto l’invito e la seguo. Il sole splende caldo, il cielo è terso, forse siamo in giugno.
«Ma sì, certo che è giugno. Non ti ricordi?» mi dice spazientita «Le vacanze estive sono appena iniziate, siamo venute con la zia. Vieni, andiamo a vedere i cigni». Sulla destra, il cartello: Laghetto dei cigni e Grotta delle fonti Gee. Lo passavo quasi tutto lì, il tempo, mentre zia Iside andava da una fonte all’altra a bere le acque della salute. Mi piaceva il silenzio di quell’angolo delle Terme, mi appoggiavo alla staccionata di legno e guardavo i cigni nuotare con la loro calma elegante sul corso d’acqua. Li vedevo sparire sotto il ponticello e riapparire dall’altra parte. Mi sentivo così in sintonia con quel piccolo mondo che non mi accorgevo nemmeno di chi andava e veniva dalla grotta. Quel giorno però successe qualcosa che lo impresse indelebilmente nei miei ricordi.