Non è che non mi piacesse l’Appennino. È che l’ho sempre considerato una montagna minore, e per di più velata da una sottile tristezza.
Una scelta di seconda serie, che fai quando non hai il tempo di raggiungere le vette, quelle vere. Le Alpi. Le Dolomiti, per la precisione. Quelle dell’Alto Adige, circoscrivendo ulteriormente. Per una incomparabile bellezza e maestosità, che sfido chiunque a mettere in discussione. Ma probabilmente ancor più per ciò che queste montagne portano con sé, in una miriade di dettagli fondamentali: il verde sgargiante dell’erba rasa a perdita d’occhio, l’odore del fieno tagliato, la perfezione del paesaggio, i campanacci delle mucche, i gerani alle finestre, le sedie con l’intaglio a forma di cuore. Tutto un mondo, insomma. Che, a una cresciuta con il miraggio mistico della vita cristallina di Heidi – si può capire – dà un po’ alla testa.
L’Appennino, invece, è arruffato. L’opposto della perfezione. È più marrone che verde, i suoi sentieri si biforcano e si perdono nella vegetazione fitta. Spesso e volentieri al posto delle cime ti si parano davanti agli occhi dei panettoni irsuti o dei picchi sparuti. Quando arrivi in alto, può succedere che sfortunatamente ti cada lo sguardo su un fondovalle di paesi anonimi, non s’offenda nessuno ma talvolta anche bruttini. Nel peggiore dei casi va a finire che intravedi il cavalcavia dell’autostrada. L’Appennino è difficile. Richiede impegno e perseveranza. Non gode di una bellezza che ti salta negli occhi come quella delle vallate alpine. E diciamocelo: tutti gli umani, o perlomeno molti, preferiscono la seconda. Io non faccio eccezione.
Tuttavia, per un insieme di circostanze, mi sono trovata, quest’anno, a ridimensionare la questione. A parte il fatto che ad agosto i pub, gli aperitivi, la folla vociante e lo smog delle strade dell’Alta Badia mi han svegliata con uno schiaffone dal sogno di una montagna immacolata, è però stata la frequentazione dell’Appennino emiliano fuori stagione – divenuta costante grazie al fatto che la sera non si può fare più niente quindi tanto vale alzarsi presto al mattino – a far sì che nella mia mente l’ancestrale categorizzazione di montagne di serie A e di serie B iniziasse a scricchiolare.
Contatto n.1
Dell’Appennino reggiano, in effetti, sapevo poco e nulla. Il primo avvicinamento risale a una domenica di metà ottobre che, insolitamente, prevede neve. Noncuranti, procediamo. La strada che da Parma si addentra tra le prime colline della provincia di Reggio attraversa un paesaggio di grande bellezza dove penso mi piacerebbe avere una casa. Senonché, all’altezza del paese di Villa Minozzo, si staglia all’orizzonte il Monte Cusna imbiancato. Ma cosa sarà mai, una spolverata, diciamo. Per farla breve, dopo un primo tratto di cammino da Pian Vallese al Passone, ci troviamo a risalire un sentiero ricoperto da quei venti centimetri abbondanti di neve sufficienti a farci arrancare e sudare copiosamente, dal momento che – chi l’avrebbe mai detto – si affonda e si scivola. Superato il passo, ci troviamo davanti a un paesaggio a tutti gli effetti invernale.
Al Monte Cusna manca un’oretta, dice il cartello. Ce ne metteremo due, diciamo noi. Non ci arriverete mai, dice uno che si vede che ne sa più di noi (basta guardargli le scarpe). Ecco, se c’è una cosa che la montagna t’insegna è l’umiltà. Sì, ma l’Appennino di più. O forse, semplicemente, una cosa è saltellare per i prati fioriti tra le baite alpine ad agosto, un’altra è raggiungere gli oltre 2000 metri di questa più che rispettabile cima in un giorno che secondo me doveva essere appena autunnale ma invece no. Quindi, mettendo da parte la mia presunta conoscenza dell’ambiente montano derivante da un’infanzia e un’adolescenza in cui – questo è innegabile – la vacanza è stata la montagna, prendo atto del fatto che ho moltissimo da imparare e che in simili condizioni servono i ramponi (o gli scarponi da alpinismo di quello che ne sa, che costeranno come un mio stipendio dunque non parliamone più).