Reportage

#86 SULL’APPENNINO REGGIANO, IN DUE TEMPI

testo e foto di Giulia Foschi  / Bologna

02/01/2021
8 min
Il Bando del BC20

La neve, il rifugio, il crinale: sull’Appennino reggiano, in due tempi

di Giulia Foschi

Non è che non mi piacesse l’Appennino. È che l’ho sempre considerato una montagna minore, e per di più velata da una sottile tristezza.

Una scelta di seconda serie, che fai quando non hai il tempo di raggiungere le vette, quelle vere. Le Alpi. Le Dolomiti, per la precisione. Quelle dell’Alto Adige, circoscrivendo ulteriormente. Per una incomparabile bellezza e maestosità, che sfido chiunque a mettere in discussione. Ma probabilmente ancor più per ciò che queste montagne portano con sé, in una miriade di dettagli fondamentali: il verde sgargiante dell’erba rasa a perdita d’occhio, l’odore del fieno tagliato, la perfezione del paesaggio, i campanacci delle mucche, i gerani alle finestre, le sedie con l’intaglio a forma di cuore. Tutto un mondo, insomma. Che, a una cresciuta con il miraggio mistico della vita cristallina di Heidi – si può capire – dà un po’ alla testa.

L’Appennino, invece, è arruffato. L’opposto della perfezione. È più marrone che verde, i suoi sentieri si biforcano e si perdono nella vegetazione fitta. Spesso e volentieri al posto delle cime ti si parano davanti agli occhi dei panettoni irsuti o dei picchi sparuti. Quando arrivi in alto, può succedere che sfortunatamente ti cada lo sguardo su un fondovalle di paesi anonimi, non s’offenda nessuno ma talvolta anche bruttini. Nel peggiore dei casi va a finire che intravedi il cavalcavia dell’autostrada. L’Appennino è difficile. Richiede impegno e perseveranza. Non gode di una bellezza che ti salta negli occhi come quella delle vallate alpine. E diciamocelo: tutti gli umani, o perlomeno molti, preferiscono la seconda. Io non faccio eccezione.

Tuttavia, per un insieme di circostanze, mi sono trovata, quest’anno, a ridimensionare la questione. A parte il fatto che ad agosto i pub, gli aperitivi, la folla vociante e lo smog delle strade dell’Alta Badia mi han svegliata con uno schiaffone dal sogno di una montagna immacolata, è però stata la frequentazione dell’Appennino emiliano fuori stagione – divenuta costante grazie al fatto che la sera non si può fare più niente quindi tanto vale alzarsi presto al mattino – a far sì che nella mia mente l’ancestrale categorizzazione di montagne di serie A e di serie B iniziasse a scricchiolare.

Contatto n.1

Dell’Appennino reggiano, in effetti, sapevo poco e nulla. Il primo avvicinamento risale a una domenica di metà ottobre che, insolitamente, prevede neve. Noncuranti, procediamo. La strada che da Parma si addentra tra le prime colline della provincia di Reggio attraversa un paesaggio di grande bellezza dove penso mi piacerebbe avere una casa. Senonché, all’altezza del paese di Villa Minozzo, si staglia all’orizzonte il Monte Cusna imbiancato. Ma cosa sarà mai, una spolverata, diciamo. Per farla breve, dopo un primo tratto di cammino da Pian Vallese al Passone, ci troviamo a risalire un sentiero ricoperto da quei venti centimetri abbondanti di neve sufficienti a farci arrancare e sudare copiosamente, dal momento che – chi l’avrebbe mai detto – si affonda e si scivola. Superato il passo, ci troviamo davanti a un paesaggio a tutti gli effetti invernale.

Al Monte Cusna manca un’oretta, dice il cartello. Ce ne metteremo due, diciamo noi. Non ci arriverete mai, dice uno che si vede che ne sa più di noi (basta guardargli le scarpe). Ecco, se c’è una cosa che la montagna t’insegna è l’umiltà. Sì, ma l’Appennino di più. O forse, semplicemente, una cosa è saltellare per i prati fioriti tra le baite alpine ad agosto, un’altra è raggiungere gli oltre 2000 metri di questa più che rispettabile cima in un giorno che secondo me doveva essere appena autunnale ma invece no. Quindi, mettendo da parte la mia presunta conoscenza dell’ambiente montano derivante da un’infanzia e un’adolescenza  in cui – questo è innegabile – la vacanza è stata la montagna, prendo atto del fatto che ho moltissimo da imparare e che in simili condizioni servono i ramponi (o gli scarponi da alpinismo di quello che ne sa, che costeranno come un mio stipendio dunque non parliamone più).

Ma non tutto è perduto. A parte che già essere arrivati fin lì ci sembra un’impresa sufficientemente onorevole per due sprovveduti quali abbiamo appena appreso di essere. La bella notizia è che là in fondo, a nemmeno venti minuti di cammino, e soprattutto senza salire, c’è il rifugio Battisti, che un amico sempre appartenente alla categoria di quelli che ne sanno ci aveva detto essere assai bello. Dunque, è questa la nuova meta. La raggiungiamo per pranzo. Intravediamo polente fumanti, ma siccome pensavamo di consumare il pasto trionfanti sulla sommità, abbiamo i nostri panini che consumiamo più modestamente su un bel tavolo di legno all’esterno. Sono comunque ottimi.

La vista è comunque stupenda. Dopo, entriamo per una fetta di torta. Rendo noto sottovoce che le torte del rifugio Battisti sono prodotte da una ragazza che di mestiere è pasticcera, e che sono sublimi. La gestione del rifugio infatti è piuttosto curiosa. Nel senso che a gestirlo è un gruppo di ragazzi forse attorno ai trent’anni (non lo so, secondo me han sempre tutti trent’anni, me compresa) che sembra più che altro un gruppo metal, anche se poi in realtà dentro c’è della musica combat folk che mi riporta indietro di quelli che, sempre secondo il mio personale conteggio del tempo, sono genericamente alcuni anni. Comunque, tutto ciò è molto divertente. Quindi decido che, Cusna o non Cusna, torneremo.

Contatto n.2

Il ritorno avviene solo due settimane dopo. Appena in tempo, prima che tutto chiuda un’altra volta. Non è che siamo molto più attrezzati di prima, diciamolo pure (su questo stiamo ancora lavorando). Siamo però ragionevolmente certi che quella neve precoce e bellissima non ci sia quasi più. Infatti così è. Seguiamo un itinerario diverso, partendo da Case Cattalini perché, sì: dormiremo al Battisti. Ciò significa che lo zaino pesa. Secondo me, se dormi fuori una settimana o una notte il peso dello zaino non cambia in maniera decisiva. Questa è un’altra supposizione squisitamente teorica che andrò a verificare , secondo le mie intenzioni, nei prossimi mesi estivi. Questo solo per dire che nonostante le baldanzose intenzioni, faccio fatica a camminare per un’ora nel bosco per arrivare a mollare lo zaino al rifugio. Qui, non tanto per bisogno di privacy quanto perché ci troviamo ai prodromi della seconda ondata pandemica, ho prenotato quella che scopro essere una microstanza. Ma ci va bene, eh. Fa solo ridere perché è davvero minuscola, con un triplo letto a castello che quando ci sali allungando il braccio tocchi il muro opposto.

Con le spalle alleggerite partiamo alla volta del monte Prado. Il cui crinale, per offrire anche qualche informazione utile, superando anch’esso i 2000 metri, segna il confine tra la provincia di Reggio e quella di Lucca. Da una parte l’Emilia, dall’altra la Toscana. Di questa seconda regione, dice Wikipedia, è la montagna più alta. Confermo: da lassù si vede tutto. Anche se questo tutto è coperto da strati di nuvole. Il che non è niente male. Siamo in cima alle cinque di pomeriggio. Il sole si abbassa, l’aria è immobile. Silenzio. Il cielo è striato, la luce di un giallo tenue. In fondo, sbucano dalla coltre bianca le cime delle Apuane. Là dietro, da qualche parte, c’è il mare. Ora, se non dormi in quota tutto questo te lo perdi, perché a quest’ora sei già a valle a pregustarti i canederli con cui ti abbufferai a cena, ignaro di quel che la montagna ti avrebbe riservato lassù. Qualcosa di completamente diverso. E non è solo lo scenario, a fare la differenza, bensì la sensazione di abitare, fosse anche solo per un giorno, la montagna. In qualche modo di farne parte, sentendoti un po’ meno turista, appena meno di passaggio. Sempre in punta di piedi, che la vita di montagna, chiaro, è un’altra storia.

Incontriamo solamente altre due persone, due signore che sono risalite dalla Toscana. Anche loro dormiranno al Battisti. Siamo tra di noi, insomma, i legittimi abitanti del posto, al momento. Che lusso. Alla casa base ci sistemiamo per la cena. Siccome la microstanza non concede soste superiori allo stretto necessario, scendiamo subito in sala da pranzo per una birretta. C’è la stufa accesa e presto si crea un piacevole microclima tropicale. Sui fili le signore toscane stendono ad asciugare i loro vestiti. A un tavolo c’è un ragazzo di un paese giù a valle, apparentemente di origini indiane, con un’amica: pare che tra qualche giovane, qui, sia diffusa l’usanza di trascorrere il sabato sera a quote più elevate. A condividere la cena un ventenne altissimo e dinoccolato che nella sua breve esistenza ha accumulato un’esperienza da alpinista che io se mi ci metto adesso recupererò in due vite.

Dietro di noi una tavolata di neolaureati in economia che intraprendono una discussione animata e molto seria sulle sorti della sinistra italiana come non mi capitava di sentire dai tempi dell’Università, per poi uscire ad ascoltare al freddo i CCCP e gli Offlaga Disco Pax, che oggi come ieri placano almeno momentaneamente ogni dissidio. Infine, una famiglia presto ribattezzata La Famiglia Perfetta con giovani genitori amorevoli ma sobri, ben tre figli biondi educatissimi e un cane ricciolino che aspetta fuori e dimostra il suo affetto grufolando come un piccolo cinghiale. Un’altra delle mie teorie, ovvero che la montagna rappresenti una selezione naturale di persone migliori – dal mio punto di vista, si capisce – o per essere più politicamente corretti diciamo a me affini, dopo la sbandata subìta nell’estate altoatesina trova così commosso conforto ai 1765 metri dell’Appennino reggiano.

Moderata conquista e ritorno

Il giorno seguente partiamo alla conquista del Monte Cusna. Questa volta non ci sono fenomeni atmosferici inattesi a intralciare il nostro percorso che prosegue senza intoppi (e ancora una volta senza peso avendo per gentile concessione dei ragazzi del rifugio lasciato lì gran parte del contenuto degli zaini). Raggiungiamo la vetta dalla via più lunga e meno irta. Non è una scelta gloriosa, ma purtroppo col passare degli anni divento sempre più prudente (che tristezza). Ho anche un principio di vertigini (che decadenza). Inoltre ho recentemente imparato che non mi posso considerare un’escursionista esperta, come recita la dicitura sul cartello che indica la via diretta, detta anche delle roccette, come ci comunica un altro di quelli che ne sa che ci oltrepassa correndo con nonchalance come se stesse facendo jogging sul lungomare di Rimini.

La vetta del Cusna è affollata, e subito rimpiango il Prado al calar del sole. Adesso, siamo nella terra di tutti. Tornando indietro ci fermiamo a osservare a lungo un gruppo di persone che salgono per la via diretta e penso che abbiamo fatto bene a evitarla. La gloria può attendere. Quando ripassiamo dal Battisti a recuperare i nostri averi sembra che tutti, dalla regione, si siano dati appuntamento lì. D’altronde incombe un nuovo lockdown, o qualcosa del genere, e chi può prende aria. Giusto così. In ogni caso è giunto il momento di abbandonare il campo base. Torniamo alla macchina sbagliando strada come sempre, ma compiaciuti. Alla fine, il Cusna, per il quale eravamo tornati, è stata solo l’appendice del viaggio. Il Prado la cresta amata. Il rifugio il fulcro. Il tardo pomeriggio l’orario eletto. Le persone incrociate il colore. L’Appennino la lezione.

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foto:
1. Non c’è dubbio: sul Cusna c’è la neve.
2. La nuova meta: il rifugio.
3. Sul crinale del Prado, quasi al tramonto.

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Giulia Foschi

Giulia Foschi

Mi chiamo Giulia, sono una giornalista. Oggi scrivo di tante cose, su diverse testate. Per alcuni anni mi sono occupata di teatro. Sono romagnola ma vivo a Bologna. Amo la montagna da quando ci sono stata portata per la prima volta: credo avessi un anno. Da un po' di tempo ho ricominciato a tornarci ogni volta che posso. E ho intenzione di continuare.


Il mio blog | Ho un piccolo blog, ma parla di teatro, per cui lascio con piacere che altitudini.it accolga questo scritto, anche se in fondo l'obiettivo è lo stesso: raccontare ciò che si vive e si osserva. Questa è la ragione per cui mi piace altitudini: raccoglie storie, il modo migliore di conoscere il mondo. Altitudini.it è mia rivista digitale.
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