Reportage

#99 LE SCARPE DI VAN GOGH

testo e foto di Vittorio Giacomin

03/01/2021
8 min
Il Bando del BC20

Le scarpe di Van Gogh

di Vittorio Giacomin

Mi capita a volte di pensare a uno dei tanti dipinti genericamente chiamati: le scarpe di Van Gogh.

Mi interessano molto le immagini evocative e quando riesco, nelle mie gite in montagna, riordino queste immagini che mi aiutano a pensare; trovo nel salire in montagna la dimensione che apre al mondo e le immagini aiutano questa visione.

Si sale per salvarsi, e nel nostro incedere, spesso faticoso, ascoltiamo, memorizziamo, prendiamo appunti. Pensiamo a noi, e pensiamo agli altri, e dentro la nostra testa ci raccontiamo delle storie, inventiamo delle storie, viviamo la storia di quel preciso presente che stiamo attraversando.

Non dimenticare può diventare l’imperativo, perché quel momento va condiviso, va fermato, va trasmesso alle persone che ci sono care o più semplicemente conservato come lenitivo del nostro animo. Viviamo dentro la storia che con la nostra vita contribuiamo a costruire, anche se inconsapevolmente, e solo in alcuni momenti ci rendiamo conto del nostro essere nel mondo, in questo mondo, in questo momento. La memoria, il racconto, le immagini, diventano parte di questo bagaglio che permette all’uomo, sensibile, di entrare in una zona particolare fatta di emozioni: il mistero della vita.

Delle semplici scarpe, consumate, a volte un semplice testo, diventano quindi un formidabile strumento di comunicazione, un racconto che ci permette di capire l’essenza delle cose, che ci consente di incamminarci nella ricerca di tracce di verità, che ci apre all’ascolto di noi stessi e degli altri, che ci insegna a leggere il mondo attraverso un filtro: quelle scarpe sgualcite non valgono per quello che apparentemente mostrano, cioè qualcosa che per il nostro mondo consumistico ha esaurito la propria funzione, ma mostrano il mondo di chi ha usato quelle scarpe, un mondo che nell’immaginario di ciascuno può essere fatto di fatica, solitudine, angoscia, o magari anche di gioia e libertà.

Quelle scarpe diventano testimoni di un’esperienza; la nostra relazione con l’immagine, o il testo, ne definisce il contenuto.

Mi pare che la montagna, non quella dei caroselli innevati, ci dica ancora questo. Si erga a testimone della necessità di ricercare sempre e ostinatamente la verità, di trasmetterla agli altri come un patrimonio universale, ricordandoci che la funzione ornamentale non è quella esclusiva di una cosa, e che, con un’altra vista, possiamo leggere la vera dimensione della nostra stessa vita e della storia.

Desiderio
Molti anni fa, prima che Paola diventasse mia moglie, decidemmo di percorrere il bellissimo sentiero, denominato “degli Dei”, che da Bologna arriva a Firenze, per poi proseguire poi nel Chianti, fino a Siena. Erano anni nei quali questo tipo di attività era agli albori, ci si doveva aiutare molto con l’esperienza nella ricerca del sentiero, sia per la mancanza di cartine aggiornate, sia per la mancanza di segnaletica; ci si doveva adattare nella ricerca di luoghi dove dormire o trovare da mangiare. La dimensione avventurosa del trekking, unita alla giovane età, e ai toponimi che incontravamo lungo la via, resero quella vacanza molto appassionante. Ricordo il passo dell’osteria bruciata che richiamava alla memoria suggestive storie di brigantaggio, o la leggera inquietudine nell’attraversare la pineta di Mercatale Val di Pesa ricordando gli orrori del mostro di Firenze.

Non ho più rifatto quel percorso, che ad un certo punto, nel fitto della vegetazione, regala la meraviglia di una strada romana “la Flaminia militare”, ma ciò che ricordo di questo Appennino è di un luogo abbandonato dove l’uomo si è ritratto, risucchiato dalla città. C’era in quei paesaggi (in particolare tra Madonna dei Fornelli e Monte Senario) una bellezza melanconica, tutto appariva dimesso, trascurato, indifferente alle cure dell’uomo, con la particolarità che la stessa natura, pur lasciata libera a se stessa, non rendeva quei luoghi propriamente magici, mancava una serenità di fondo.

Il percorso, quasi alle porte di Firenze (un giorno di cammino ancora), prevedeva il transito per il Santuario di Monte Senario. Di quella giornata, particolarmente impegnativa, ricordo però l’arrivo al Santuario e la magia di quel momento.

Eravamo sul far della sera con la calda luce di settembre, salendo si delineava ad est la linea imponente del monte Falterona, nel mezzo le colline che ospitano Barbiana sotto il monte Giovi, colline che si portano la storia di Don Milani, questo grande prete pedagogo, rivoluzionario, giusto e coraggioso, e le storie dure, e di solidarietà, della resistenza partigiana. Davanti a noi il complesso conventuale con la piccola chiesa; poi ad un tratto, uno slargo, uno squarcio nell’orizzonte e giù proprio di fronte a noi Firenze, la nostra meta, ma ancora a un giorno di cammino.

Ricordo la fortissima emozione di quella vista e la gioia di quell’incontro, reso ancora più intimo proprio dalla distanza che ci separava. Si vedeva solenne la cupola di Santa Maria del Fiore, “Structura si grande, erta sopra e’ cieli, ampla da coprire con sua ombra tutti e’ popoli toscani…“, come Leon Battista Alberti scrisse in omaggio a Brunelleschi. Si vedeva il meraviglioso campanile di Giotto, quell’opera stupenda che traghetterà con Brunelleschi il gotico verso il rinascimento. Firenze con questi artisti si apprestava ad uscire dal gotico, dall’irrazionalità, dalla fuga della realtà, dal contesto fiabesco, dalla dimensione religiosa, per approdare alla razionalità, alla laicità, al rimettere al centro l’uomo e la sua storia.

Tutti questi pensieri formarono un turbine dentro la mia testa e io mi sentivo già in quella città pur ad un giorno di cammino, ne sentivo il desiderio, vivevo l’esperienza leopardiana del “Il sabato del villaggio”, del “gradito giorno, Pien di speme e di gioia”. Trovai più bella l’esperienza di immaginarmi la città, tale era l’emozione e il desiderio, che non volevo perdere, scaturito da quella vista, anziché esserci, perché in quel momento, come scrisse Calvino, abitavo “questo desiderio” e ne ero contento.

Silenzio
Pioveva fitto quel giorno al passo della Calla.
Il proposito era quello di una gita di due giorni nello splendore delle foreste Casentinesi. Camminare, per il solo gusto di farlo, nella natura, nei colori e nel silenzio. Avevamo deciso di pernottare alla foresteria di Camaldoli per ritornare, il giorno seguente, al passo. Indugiammo a lungo se partire comunque sotto quella pioggia battente e alla fine decidemmo di rinunciare e andare alla foresteria in auto.

E’ sempre un’emozione varcare quel portone che già Lorenzo il Magnifico e il Poliziano varcavano nei loro soggiorni camaldolesi per discorrere con Marsilio Ficino di questioni neoplatoniche, con Firenze, aperta e proiettata nel rinascimento, che si rivelava una città in profonda trasformazione e profonda crisi, che l’avvento del Savonarola avrebbe fatto esplodere.

Ficino, Lorenzo, e chissà chi altri, magari Botticelli,  pensavo, emozionato, qui dentro, a discutere dell’anima e del corpo, immersi ad indagare sui diversi destini di anima e corpo come insegnava Agostino, a mediare con l’universo, a rileggere il mito e dare nuovo impulso all’immaginazione.

Pioveva quel giorno, senza pausa, il suono della pioggia e del vento accompagnavano ogni nostro passo dentro la silenziosa e austera foresteria. L’affacciarsi alla finestra mostrava le fronde degli alberi scosse dal vento con una pioggia orizzontale che batteva su qualsiasi cosa. Di fronte a noi, la sagoma del santo fondatore, Romualdo, persona vocata al silenzio, ma anche alla diplomazia, che nel 1.012, nel mezzo delle sue peregrinazioni fonda questo eremo e monastero. Parola e silenzio, dilemma di chi ama la vita solitaria, ma ancor più, di chi veramente vuol prestare ascolto,  si fondono in questo grande santo solitario e viaggiatore.

Quel pomeriggio, potevamo decidere di leggere, di ascoltare la pioggia e il vento, decidemmo invece di andare al museo di Borgo Sansepolcro per rivedere quell’assoluto che è la Resurrezione di Piero della Francesca. Eravamo in cerca di emozioni forti.
E che cosa c’è di forte di quel Cristo triste e solo, avvolto nel silenzio? Ritornammo alla foresteria in una sorta di silenzio contemplativo.

Il giorno seguente aveva smesso di piovere, salimmo quindi all’eremo e prendemmo il sentiero alto che conduce alla cresta. Non c’era nessuno, eravamo immersi in un paesaggio estraneo alla nostra quotidianità, fatto di colori della terra e suoni rari e rarefatti. Camminavamo in questa dimensione magica fatta di mistero e magia, ognuno racchiuso nel proprio rigenerante silenzio.

I nostri sensi erano proiettati a captare il “genius loci”di questo spazio unico fatto di silenzio nel quale anche i nostri stessi pensieri diventavano silenziosi, creavano spazio. In situazioni come queste si vive una forma di reverenza e rispetto nei confronti della terra che ci conduce a pensare come il silenzio sia una sorta di elemento primordiale del nostro essere nel mondo senza il quale la nostra esistenza non si compie.

Il silenzio di quel giorno ci fece sentire quanto noi siamo parte della natura e di quanto sia necessario prenderne le difese, di quanto la nostra esistenza si sia impoverita e resa incapace di raccogliere i suoni interiori, quelli più arcaici che giungono dagli archetipi sopiti, o per meglio dire nascosti, dentro di noi.

Pensavo, tutto ritorna, tutto ha un senso, Lorenzo e Ficino venivano qui in questa palestra del silenzio a ricercare l’anima, la stessa che con grande ostinazione ricercava il tormentato Michelangelo nel tentativo di dare forma all’invisibile, e in questa bellezza, in questo angolo di assoluto, mi affiorarono i primi versi della poesia di Pavese, I Mari del Sud: “Camminiamo una sera sul fianco di un colle, in silenzio… Tacere è la nostra virtù”.

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foto:
1. / 2. Un paio di scarpe, Aprile-Giugno 1887, Museo di Baltimora_tratto dal Catalogo Vincent Van Gogh_Arnoldo Mondadori Arte_1990.
3. Foreste Casentinesi.

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Vittorio Giacomin

Vittorio Giacomin

Scrivo, qualche volta; cammino, quando posso; immagino, sempre.


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