La mia Fiat 500 ci aveva portati a Gardeccia, iniziammo a camminare verso l’alto, mentre i dubbi si affastellavano nella mente, era la lotta tra una decisione oramai presa e l’incertezza di affrontare qualcosa di sconosciuto: una scalata in cordata. La prima della mia vita!
Quei pensieri presero corpo lassù, quando, al sole, apparve lo spigolo della Torre Delago.
Continuai a camminare assieme a Giulio, mio spensierato cugino, e al nostro giovanissimo capocordata Giorgio. Avevo voluto mettermi alla prova? Era un volere spavaldo di dimostrarmi forte? Era una sfida? Non lo sapevo.
Cresciuto orfano dall’età di due anni, non avevo avuto un padre a consigliarmi, a infondermi sicurezza, con il quale scontrarmi nell’età in cui bisogna uscire dall’adolescenza, diventare “grandi”. La conseguenza fu che non ho mai posseduto la baldanza per concedermi alle sfide, cercavo solo di sbagliare il meno possibile, non sempre riuscendoci, come quella volta, quando con alcuni amici di montagna andammo alle cascate del Ru delle Nottole.
Cittadino diciassettenne mi ero lasciato convincere a risalire il fianco della cascata, un pilastrino di roccia alto una decina di metri accontentandomi di un “l’è fàzile”.
All’inizio lo era e lo fu fino al punto in cui, spaventato, volli scendere, ma non era più possibile.
Una traversata conduceva al letto del torrente, gli amici esperti passarono lesti, io insicuro scivolai, mi fermai spalmando il corpo sulla roccia. L’acqua della cascata cadeva dieci metri sotto, vi sarei finito dentro, sarebbe stata la morte. Forse mi crebbero gli artigli, o più semplicemente un flusso di adrenalina mi diede la forza per aggrapparmi e trascinarmi fuori da quella trappola.
Avevo salvato la pelle, mi rimasero impressi il terrore dell’acqua e la paura del vuoto.