Racconto

L’ALBENZA È UN CONFINE

testo di Marco Macconi

13/02/2025
2 min
Avanguardia dell’alpe sulla pianura, il suo bianco calcare è eroso come polvere dal lavorio di formica di ruspe ed escavatori.

Acquolina di cava: le sue viscere di roccia chiara fanno gola alla fame di cemento della metropoli ai suoi piedi. Lo stesso profilo di questa montagna, osservato da diverse prospettive, è una contraddizione: dal basso, onde verdi e pacifiche di pascoli morbidi; dalla sua cresta, irta di antenne nere e turgide, gli squarci squadrati scavati nel grigio cereo delle cave. Sui ventosi prati meridionali, che si spalancano ancora sulla piana sottostante, stanno come in un camposanto le ultime baite, molte nel silenzio raccolto dell’abbandono. A maggio le contorna, quasi tetro, il profumo dei narcisi selvatici. Dai bassi boschi avanzano lente le betulle: spettrali pioniere dei pascoli trascurati, inventano pallidi carnevali contorcendosi sotto i venti capricciosi di quei versanti.

L’Albenza è un confine: la notte, sulle spalle ampie di questo gigante, le migliaia di luci che vibrano mille metri più in basso, spauracchi del buio, appaiono come i deliri febbrili di un allucinato. Volgendosi a nord, quando la luna argenta i prati, i profili scuri delle cime che proseguono la sua dorsale fino a lontananze invisibili invitano la ricerca di cammini perduti. Sentieri che non ritroveremmo comunque, se non negli anfratti montani più riposti: oggi imperano le strade bianche. L’Albenza è la monumentale lacerazione tra il regno degli avi, immoto e ormai alle soglie della nostra comprensione, e quello irreale, sfilacciato e votato al caos della contemporaneità. Il secondo fagocita ansiosamente il primo, come sempre è avvenuto alle soglie dei nuovi cicli della storia.

Batte il vento dell’Albenza alle finestrelle sgangherate delle baite ridotte a catapecchie in rovina.

Batte il vento dell’Albenza alle finestrelle sgangherate delle baite ridotte a catapecchie in rovina […]. Riporta i suoni delle fienagioni maggenghe ed agostane, lo struscio della cote ed i colpi del martello sulla lama della falce, gli strilli dei bimbi che si rincorrevano tra i covoni, le cantate lunghe e solenni a sera nei cortili e nelle aie delle cascine sparse alle sue pendici. Melodie tramandate per secoli da una generazione all’altra ed ora languenti ed obliate come le pietre cadenti delle baite avite. Tutt’attorno l’abbandono, il silenzio di una landa, che impaurisce nell’ora del crepuscolo. E il canto nostalgico e disperato del vento dell’Albenza.

Il destino dell’Albenza non è forse più quello di un desiderabile abbandono: troppo vicino ad una pianura sconvolta, la sua storia prosegue nella disgregazione. Volteggiano tra i faggi e i pascoli spiriti capricciosi, impressioni remote che riesco ancora appena a cogliere – chissà per quanto tempo ancora. L’Albenza, alle cui pendici infine mi sono legato, scegliendole come dimora, è un vasto specchio di dissoluzione e conflitti nel quale potersi riconoscere.
_____
Testo citato: U. Zanetti, Leggende di Val Brembana, Edizioni Bolis, Bergamo, 1993

Marco Macconi

Marco Macconi, dottore in lettere moderne, è sfuggito dalla vita di città per trovare la sua strada in un vecchio borgo di montagna. Profondo appassionato delle Alpi Orobie, è partito dall’intensa frequentazione di queste per studiare i più diversi aspetti della cultura alpina con particolare attenzione al suo immaginario e alla sua componente spirituale, antica e moderna. Si dedica inoltre alla poesia e alla fotografia.


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5 commenti:

  1. Susy ha detto:

    Da qualche tempo ricevo e leggo con molto piacere le vostre storie su Altitudini.
    Una bella lettura per iniziare la settimana con cose belle, grazie.

    1. Teddy Soppelsa ha detto:

      Grazie Susy.

  2. antonella ha detto:

    suggestive visioni d’albenza.
    che bel narrato!

  3. Carla Nozza ha detto:

    Grazie Marco,x questo prezioso racconto.

  4. Simonetta ha detto:

    L ho letto ed ecco che mi è venuta voglia di assaporare questo mondo di sbieco alla vita.
    Bravo

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