E stanco oggi, chiudo le imposte della mia mente, estrometto dall’eredità dei ricordi quei momenti, solo così per una giornata riavrò le mie gambe e la mia libertà sulla vetta dove torno a sdraiarmi.
Brecce incurabili. La consapevolezza di quella melma vischiosa che ho già oltrepassato.
Non sapevo niente, né giorno né ora in cui sarei stato disceso in quel corpo di pietra. Ho dilapidato l’attesa perché non l’avevo riconosciuta. E solo allora ho scoperchiato l’immagine di me stesso, la coscienza di un essere estraneo che niente riuscirà a raschiar via. Ne sentirò accanto il fragore dei passi, l’eco profondissimo internamente, ogni qualvolta salirò sulla croce di vetta.
La sofferenza e il tedio inquieto di quei giorni furono tremendi, ma ora lacero la tela dei ricordi, inabissando la sorda lotta con la ragione, perché il rischio di perdermi in ciò che amo e l’ardire di sbagliare non lo voglio perdere.
Agire, questa è la vera intelligenza. Viviamo attraverso la nostra volontà.
Grigi di gesti che abbiamo solo sognato, non tocchiamo la vita neanche con la punta delle dita.
La mia tragedia è questa. Lo ripeto a me stesso.
“Voglio arrivare, quanto posso, lontano,
attingere la gioia che ho nell’anima,
e cambiare i limiti che conosco,
e sentirmi crescere la mente e lo spirito.
Voglio vivere, esistere, “essere”,
e udire le verità che sono dentro di me.”
(Direzioni Nuove – Doris Warshay)
Racconto liberamente ispirato da “Il libro dell’inquietudine” – F. Pessoa