Racconto

#20
SVEGLIA

Cammino con determinazione e naturalezza, il passo è costante e sicuro. Ad ogni gradino o ostacolo da superare sento i muscoli delle gambe contrarsi con vigore...

testo e foto di Alessandro Bruyere  / Torino

02/01/2022
12 min
Marco_Rossignoli_014

Sveglia

di Alessandro Bruyère

Cammino con determinazione e naturalezza, il passo è costante e sicuro. Ad ogni gradino o ostacolo da superare sento i muscoli delle gambe contrarsi con vigore, percepisco lo sforzo, senza che mi spaventi o mi disturbi. Mi soddisfa.

Mi appoggio sulle bacchette, la cui impugnatura è saldamente stretta nei palmi delle mie mani, e le utilizzo per cadenzare il ritmo, lasciandomi ipnotizzare dal suono prodotto dalle punte ormai smussate, che scintillano sulla pietra e infilzano il terreno umido. Metto i piedi dove dovrei metterli.

Il cuore batte violento e il sangue mi riecheggia tra orecchie e mandibola, respirando con forza cerco di controllarlo. Pochi metri di dislivello mi separano dal colle, da lì si vedrà il bivacco. Ragiono su quanto aver ben chiara la meta ti aiuti a raggiungerla, su quanto ogni volta la montagna mi regali metafore e paragoni con la vita di tutti i giorni. Su quanto la Natura, sempre, ci possa insegnare. Il flusso di coscienza in cui scorrono i miei pensieri mi riporta in quel bivacco a cui sto per arrivare.

Non sapevo ancora andarci, in montagna, la prima volta che raggiunsi quel luogo. Ne avevo la possibilità, la montagna accoglie chiunque. Magnanima e magnificente. Ma saperci andare è un’altra cosa. Impari con gli anni, con le uscite. Con i consigli di chi è più esperto di te, con ciò che leggi nei libri. Con gli errori. Ancora una volta: che differenza c’è con la quotidianità?
Volevo dormire in bivacco. L’idea mi aveva sempre affascinato ma non ne avevo mai avuto l’occasione. Siamo sempre lì in bilico tra ciò che ci piacerebbe fare e ciò che poi effettivamente facciamo, tra la versione di noi stessi che ci piacerebbe essere e chi invece riusciamo ad essere davvero, persi nella frenesia del mondo che ci circonda, nelle convenzioni. Nella realtà. Credo sia giusto, a volte, decidere di fare e fare.

Mentre ci ragiono di istinto tiro fuori dalla tasca della giacca il telefono e apro l’applicazione in cui leggo la mia posizione, il gps mi guida per mano lontano dai pericoli e mi mostra il mondo spalmato in due dimensioni. Tocco con l’altra mano la tasca opposta, dove al tatto intuisco la presenza del mini-caricatore ad energia solare, che mi infonde sicurezza e arricchisce il mio ego.
Non solo non avevo l’applicazione, quel giorno a cui la mia mente è tornata, ma d’un tratto neanche lo smartphone. Non avevo ragionato sul fatto che anche in estate possa fare freddo. E col freddo la batteria crolla. Una banalità, per chi lo sa.

Dormire in bivacco, oltretutto neanche sapevo esattamente cosa volesse dire, e non mi ero informato più di tanto. Agivo per supposte conoscenze acquisite chissà dove: remote estati di gioventù passate con la famiglia tre le favolose Dolomiti, forse autrici di questa mia atavica passione per la montagna, racconti di amici, immagini di film. Eppure, avevo deciso di andarci senza preoccuparmene. Che ci vuole, in fondo?

Raggiunto il colle mi fermo per qualche istante, raddrizzo il capo e mi asciugo una guancia, un minuscolo insetto mi solletica la fronte. Il bivacco si intravede immerso in una nuvola che si sposta veloce, accarezzandolo. Mi sfilo lo zaino per prendere il sacchetto di frutta secca. Non ho particolarmente fame, ma so che l’ultimo strappo richiederà un po’ di energia. La schiena si libera del carico e mi sento leggero, una fresca brezza raffredda la maglia bagnata facendomi accorgere di quanto io abbia sudato e chiedere se sia il momento di sostituirla con una asciutta. Una routine ormai consolidata.

“Ragiono su quanto aver ben chiara la meta ti aiuti a raggiungerla, su quanto ogni volta la montagna mi regali metafore e paragoni con la vita di tutti i giorni.“

Mastico guardandomi intorno, ogni rumore da me prodotto si sente con chiarezza e interrompe a tratti un silenzio difficile da trovare in altri luoghi. Sfilo dal comparto laterale dello zaino la borraccia, sorridendo per la forma che le tante ammaccature le hanno dato. L’acqua è ancora fresca e piacevolissima, la sete soddisfatta uno dei miei piaceri preferiti.

Sistemo tutto con attenzione e isso lo zaino in spalla, stringo le fettucce su pancia a torace e la schiena trova conforto, obbligata a stare dritta. Un paio di secondi di freddo, in cui il corpo deve riabituarsi all’umidità di maglia e schienale, e sono pronto a partire di nuovo.

Quel sopracitato giorno riaffiorato alla mente non avevo una maglietta di ricambio. A metà percorso, che si stava rivelando più lungo di quanto avessi immaginato, la maglia che indossavo era zuppa. Colpa della felpa che indossavo e del guscio che ci avevo infilato sopra, probabilmente. Avevo avuto freddo, dopo un po’ che camminavo, e mi ero coperto eccessivamente, con materiali non adeguati. Ricordo che tolsi la maglia con piacere, nonostante la temperatura esterna, e che strizzandola grondò sudore. Avevo dovuto mettere la felpa umida a contatto con la pelle e legare la maglietta bagnata allo zaino, sperando che si asciugasse sotto i raggi del sole. Era stato in quel momento di disagio che mi ero accorto che il sole non c’era più. Ero partito in condizioni ottimali: cielo aperto, prevalentemente limpido e colorato di un azzurro acceso e potente, poco vento, aria frizzante e profumata di odori leggeri. Ma poi il clima era cambiato, così velocemente ma allo stesso tempo così naturalmente da non lasciarmi il tempo di accorgermi quando fosse successo. Di colpo ero vestito male e troppo ed ero sudato marcio. Ma congelando. Bella la montagna, mi ero detto sarcasticamente.

Un brivido mi corre lungo tutto il corpo, forse in memoria di quel freddo o di quel momento, e ringrazio il materiale tecnico che oggi indosso. Dei sassi cadono da qualche parte e mi fermo cercando di intuire dove. Chiudo la bocca avida di ossigeno, inspiro col naso, espiro calmando l’affanno. Ascolto il silenzio.

Una macchia si muove nel mio campo visivo e in ritardo mi arriva il rumore dello zoccolo sulla roccia, rimbalza qua e là attorno a me, si ripete. Lo stambecco si ferma appena lo vedo, al centro della parete rocciosa che mi si staglia davanti, rimane lì immobile come se fosse dipinto. Non c’è abbastanza spazio su quella cengia per tenere l’equilibrio, ma a lui non importa. È giovane, le corna sono corte, a misurare tre o quattro inverni trascorsi. È lontano rispetto a dove sono io, ma mi vede e mi guarda. Poi si gira, lecca il sale della parete e si sposta. Si muove in silenzio, salendo una scala fatta di gradini che non ci sono, come se li immaginasse e comparissero sotto le sue zampe. Dopo qualche attimo arriva anche il suono.

Riprendo a camminare e a ripensare a quel giorno.

I primi stambecchi visti da vicino, ad aspettarmi a fianco del bivacco. Cinque, forse sei, non ricordo con esattezza. Come la mia testa era comparsa da dietro le rocce, semi nascosta dalla nebbia che nel frattempo aveva permeato l’ambiente, avevano alzato le loro all’unisono, orchestrati perfettamente da chissà cosa. Mi ero bloccato lì come loro, emozionato, nel timore di spaventarli e farli scappare. Vorrei aver pensato a godermi quel momento, e invece, lucidissimo, avevo ragionato sul fatto che il cellulare fosse morto, ma che avevo con me la macchina fotografica. Priorità assoluta: fare una foto. Perché? Per farla vedere ad altri, per condividere con più persone possibili quel momento vissuto da solo. Per mostrare cosa avessi trovato lassù tra i monti, in un posto così inusuale per i più.

“Visto? Ho fatto tutta sta fatica e ho vinto un premio, beccatevi questa.”

O forse per avere un ricordo di quel momento. Ma guardando meglio, fermandomi lì ad assaporare quella scena, assimilandola, non avrei ora un ricordo ancora migliore? Avere un ricordo della foto fatta, l’era dello sharing frenetico: il valore di un istante è diventato misurabile in quante persone ne saranno a conoscenza. Che peccato, non aver goduto di quella eccezionalità.
Avevo fatto qualche passo verso di loro, i quali appurato che fossi un altro semplice umano in visita, avevano ripreso a mangiare e a pensare alle loro cose. Erano abituati alla presenza di escursionisti e scalatori, e rimanevano lì a condividere quello spazio con me, fedeli ad un tacito accordo secondo il quale ci saremmo lasciati in pace a vicenda.

“Gli stambecchi sparivano e apparivano, assieme al bivacco, che mi dava un punto di riferimento per capire quanto velocemente si stessero spostando le nuvole che ammantavano ormai tutto e rubavano i colori.“

Intanto, distratto dalla loro presenza non avevo percepito un ulteriore cambio delle condizioni climatiche. Le nubi erano scese, la nebbia si era infittita, non c’era più luce. Gli stambecchi sparivano e apparivano, assieme al bivacco, che mi dava un punto di riferimento per capire quanto velocemente si stessero spostando le nuvole che ammantavano ormai tutto e rubavano i colori.

Il panorama tanto agognato era nascosto. Mi ero rintanato nel bivacco.

Dentro era freddo, quasi più di fuori. Ma la casupola d’emergenza era equipaggiata egregiamente. Oltre a scatole di pasta, caffè, bustine di zucchero, piccoli alimenti e cianfrusaglie, tutto sistemato su delle spartane mensole, c’erano quattro spessissime coperte di lana adagiate su magri materassi a loro volta adagiati su assi di legno. Un letto a castello artigianale regalava quattro posti letto alla piccola struttura. Era tutto una novità per me, entusiasta ed inesperto.

Ero partito da Torino convinto che sarebbe stata una notte magica, in compagnia delle stelle, di un buon libro e una buona birra, e della montagna in toto. E invece è stata una delle nottate più brutte di cui io abbia memoria.
Il freddo nelle ossa. L’attesa del sonno, assieme alla stanchezza. Il mal di testa. L’altitudine a cui non ero abituato, a dar malessere al corpo estenuato. Il prurito della lana. L’assenza del telefono. I pochi minuti di assopimento, disturbati da sogni starni. I rumori fuori, e quelli dentro.
Il ricordo di quella notte è vago e sfumato, ma ho ben chiaro ciò che pensavo. Mi chiedevo cosa ci fosse di bello, in tutto quello. Se ne valesse la pena. Se allora non avessero ragione gli altri, quelli che ti chiedono chi te lo faccia fare. Quelli che ti dicono che non ha senso ricercare apposta ciò che loro vedono come una fatica superflua, come un disagio inutile, che preferiscono la comodità. Quelli che ti chiedono il perché.

E ricordo che pensavo che non lo avrei mai più fatto.

Arrivo al bivacco mentre sorrido notando che sto paradossalmente rivivendo quel pensiero proprio nel momento in cui giungo nuovamente lì.
Non ci sono gli stambecchi, ma sono passati da poco: piccoli ciuffi di pelo e feci sparse qua e là ne svelano il passaggio, mi illudo di sentirne l’odore che pervade l’aria. Più tardi torneranno, mi farà piacere incontrarli.

Apro la porta di quella casupola a me tanto cara, e tutto è rimasto come quel giorno. È un aspetto della montagna che continua ad emozionarmi e affascinarmi, la sua immutabilità. Come se il tempo lassù scorresse a rallentatore.
Mi siedo al grezzo tavolo che occupa il centro del bivacco e, dopo un paio di piacevoli minuti di nulla, allungo la mano per prendere uno dei tre quaderni impilati l’un sull’altro che ci sono sotto la finestra. Lo conosco molto bene, ci scrissi sopra anni fa le mie prime parole scritte in un diario di alta quota, ignaro di quanti quaderni avrei trovato in futuro, e in quanti luoghi incredibili. Ero inconsapevolmente all’inizio di un lunghissimo viaggio. Scorro il tempo all’indietro, ora, e cerco la mia grafia.

“Oggi per la prima volta mi sono svegliato in bivacco. Ero arrabbiato e non vedevo l’ora di scendere, ma poi è successa una magia. Dalla finestra appannata non vedevo bene e sono uscito preparandomi ad immergermi nella nebbia come ieri sera. Ma le nuvole questa notte sono scese e ora formano un mare bianco e sconfinato tutto intorno me, qualche decina di metri più sotto, dal quale emergono solo le cime più alte. Credo sia la cosa più bella che io abbia mai visto. Oggi mi sono svegliato due volte. Ora capisco.”

Chiudo il quadernetto e lo metto al suo posto, dove starà per sempre. Poi mi alzo e mi preparo alla notte, felice di essere qui.

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Alessandro Bruyere

Alessandro Bruyere

Mi chiamo Alessandro Bruyère, sono il titolare di due palestre, ex judoka e ora maestro di Judo. Amo i viaggi, i libri e la montagna. Perché credo che ci sia sempre qualcosa di nuovo da scoprire. Sono laureato in filosofia, scrivo per gioco e vivo e lavoro a Torino, una città che nei giorni più belli sembra un dipinto incorniciato dalle Alpi.


Il mio blog | Il mio blog, dal titolo "La via è sotto i vostri piedi", è semplicemente una raccolta di alcuni miei scritti, che mi piace ritrovare di tanto in tanto, per leggere il mio percorso in divenire. Il titolo del blog è mutuato da un antico detto giapponese, che ci ricorda che ognuno di noi ha la sua strada da percorrere e che ognuno è l'autore della propria storia.
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4 commenti:

  1. Elisa ha detto:

    Lo trovo molto intenso e figurativo.Mi ci sono immersa

  2. luana luana ha detto:

    bello!

  3. Gegio ha detto:

    Ho avuto la stessa folgorazione anch’io sempre dormendo in un bivacco la prima volta, coricandomi una persona e risvegliandomi un’altra… è tutto vero, è tutto incredibile, è sempre una meravigliosa esperienza!

  4. Domenico ha detto:

    Mentre Alessandro saliva avevo la sua stessa percezione: la paura di andare avanti e che ciò che mi ero immaginato stesse sfumando ad ogni passo.
    Essere impreparati in un luogo selvaggio e pericoloso ti fa sentire piccolo di fronte alla natura. Questo è il mio passaggio: il rispetto di quanto ci è dato con grande umiltà permette di assaporare quello che ci viene donato e conquistato con fatica.
    Grazie Alessandro per queste immagini e il dipinto di quel bivacco che per tutti segna un inizio

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