Recensione

LE MONTAGNE DI MARIO

Ci sono uomini che, senza clamore, diventano parte del paesaggio. Come alberi antichi. Mario Scudelìn era uno di questi. Boscaiolo, malgaro, primo gestore del rifugio Bruno Bòz (Parco Nazionale Dolomiti Bellunesi) è stato ricordato il 3 agosto 2025 a Canséch in Val di Canzoi, con la presentazione del volume “Le montagne di Mario” scritto da Teddy Soppelsa (Cierre edizioni). Il testo che segue è la prolusione di Diego Cason, intervenuto all’incontro.

testo di Diego Cason

08/08/2025
9 min
Con Le montagne di Mario, che oggi ho il piacere di presentare qui a Cansèch, Teddy Soppelsa restituisce alla memoria collettiva della comunità di Cesiomaggiore la figura di Mario Meneguz, conosciuto come Mario Scudelìn, storico gestore del rifugio Bruno Boz nella conca di Neva.

Nel libro l’autore inizia la sua riflessione con un ossimoro: la “felice nostalgia” (1). È da qui che conviene partire.

La nostalgia è un sentimento dolente, misura la mancanza o la perdita di una condizione sperimentata o appresa, giudicata a posteriori desiderabile. Questo stato d’animo è legato al ricordo, non necessariamente personale, poiché scatena la nostalgia anche il racconto, purché esso sia praticato da persone con le quali abbiamo una relazione emotiva rilevante. L’etimologia della parola “nostalgia” deriva dal greco antico, unendo le parole “nostos” (νόστος) che significava ritorno a casa, rientro o viaggio di ritorno e “algos” (ἄλγος) che significava dolore, sofferenza, afflizione, quindi letteralmente “dolore del ritorno”.

Che cos’è la nostalgia? È uno stato d’animo malinconico, causato dal desiderio di qualcosa che non è presente e si percepisce come lontano o perduto. Entriamo in un mondo in cui sensazioni agli antipodi si mescolano, tristezza e felicità s’incontrano: la speranza insieme al dolore, la piacevolezza con il rimpianto e il senso di una bellezza che opprime. La nostalgia è un’entità di difficile collocazione: sfugge a definizioni precise perché è approssimativa, così come l’oggetto del sentimento nostalgico è soggettivo. La nostalgia, ben frequentata in letteratura è poco studiata dal punto di vista scientifico; eppure, la sua origine avvenne in ambito medico. Nel 1688, a diciannove anni, Johannes Hofer studiò un male endemico, noto come Schweizerkrankheit o “male svizzero” che colpiva i mercenari elvetici.

La parola indicava uno stato patologico ma, nel tempo, ha cambiato significato estendendolo in altri ambiti. Oggi nostalgia ha un significato più vasto che si estende ad una rivalutazione della propria esperienza passata rileggendola, suscitando una tenerezza verso ciò che siamo stati o, quantomeno, ciò che ricordiamo d’essere stati. Il passare del tempo fa dimenticare e questo lascia spazio per costruire un racconto di noi, basato sui ricordi rimasti. Ogni situazione nuova, indecifrabile e inquietante produce nostalgia, perché il desiderio malinconico del passato è nostalgia di sé, del mistero degli anni trascorsi che non possiamo rivivere. Per estensione, è lo stato d’animo causato dal desiderio di persona lontana (o non più in vita) o di cosa non più posseduta, dal rimpianto di condizioni ormai passate, dall’aspirazione a uno stato diverso dall’attuale che si configura comunque irripetibile. Antonio Tabucchi a proposito della “saudade” lusitana affermò che riguarda un desiderio che si vorrebbe vedere realizzato ma non è una nostalgia della felicità avuta e perduta, ma una nostalgia di essere felici ancora, anzi, una speranza di esserlo (2).

La possibilità di percepire la propria esistenza come significativa proviene dalla capacità umana di pensare in termini temporali e, quindi, di impegnarsi in una riflessione nostalgica sul proprio passato. La nostalgia è una risorsa che permette di percepire la nostra vita come dotata di senso e scopo. Serena dice:

…sono convinta di una cosa: sono quello che loro hanno tracciato. Il loro passato è il nostro punto di partenza e pensare a loro mi scalda il cuore.

Mario nei pressi del rifugio Bòz, luglio 1972 (coll. fam. Meneguz).

I quieti pascoli della conca di Nèva dominati dalla possente mole del Sass de Mura (2547 m), 2018 (foto Roberto De Pellegrin).

Quando ti viene nostalgia non è mancanza.
È presenza di persone, luoghi, emozioni che tornano a trovarti.
Erri De Luca

Sentire la nostalgia ci aiuta a integrare parti del passato nel presente.
Riconoscere i vari aspetti della nostalgia ci aiuta a scoprire quali sono le parti della nostra storia che vogliamo integrare nel nostro presente. Contribuisce, in un certo senso, alla costruzione e al mantenimento della nostra identità, anche quando ci stabiliamo in un nuovo contesto, ricordandoci di mantenere attivi i legami significativi che abbiamo con le nostre origini. La nostalgia è un indicatore indispensabile per comprendere il nostro rapporto con il passato, con il presente e con la nostra visione del futuro. Essa è una disposizione, un comportamento della vita collettiva contemporanea ha, quindi, un fondamento sociale e comunitario. Michela ricorda:

A volte, rimpiango l’innocenza e la genuinità che quando eravamo bambine. Forse questo è il segreto dell’infanzia: la capacità di vivere il presente senza paura del futuro, di trovare la meraviglia nelle piccole cose, di credere che ogni giornata possa essere un’avventura.

Il motivo per cui oggi la nostalgia non gode più di grande attenzione risiede prevalentemente nella velocità del cambiamento economico e sociale. Oggi si può più facilmente trovare una patria adottiva rispetto al passato. I fattori di produzione sono separati dalla proprietà e dalla relazione stretta con la terra e le attività ad essa connesse, come l’agricoltura, il pascolo e l’allevamento e con la famiglia che era la struttura aziendale indispensabile per garantire la propria e altrui sopravvivenza. Le famiglie rurali di montagna avevano bisogno di un altro elemento per poter sopravvivere: la solidarietà comunitaria. Senza l’aiuto del prossimo era molto difficile affrontare le difficoltà che i luoghi obliqui e verticali portano con sé. Questi aspetti, che producevano un dolente ricordo del focolare domestico perduto, si sono attenuati allentandosi il senso di appartenenza fisica a un luogo, concepito come casa o patria.

La memoria non è un archivio, la cui più appropriata metafora è l’album delle fotografie di famiglia. Chi ha nostalgia non recupera dei ricordi fissi è, invece, un produttore di nuovi scenari che, partendo dal ricordo, li riscrive, li reinterpreta e li rivive. La necessità di rievocazione del passato e il confronto che facciamo con esso, risponde a bisogni che abbiamo nel momento in cui l’avvertiamo. La memoria è ancorata al passato reale, ma il ricordo è sempre un rimodellamento, un abbellimento e, spesso, una falsificazione. Ecco, la nostalgia è esattamente la componente emotiva del ricordo, ciò che fa emergere il contrasto tra gli eventi e gli stati d’animo che viviamo oggi, confrontandoli con quelli che abbiamo vissuto o conosciuto indirettamente in passato. Ciò che scatena la reazione sentimentale nostalgica è sempre il tipo di risposta che chiediamo alla nostra esperienza di vita anteriore, per dare senso e scopo a ciò che siamo e facciamo ora o che progettiamo di fare domani. Ma, senza dialogo interiore, senza capacità di entrare in contatto con il proprio io intimo, in assenza di linguaggio capace di nominare, descrivere e comprendere (con adeguata intensità cognitiva) il proprio essere è impossibile avvertire nostalgia. La mestizia, che talvolta accompagna questa attività di apprendimento spirituale, è un segno della misericordia con cui trattiamo noi stessi e, di conseguenza, della nostra capacità di praticare questa virtù nei confronti degli altri. Credo sia noto che, se non si sperimentano e non si comprendono le emozioni e i sentimenti che proviamo, difficilmente li sappiamo interpretare e praticare nelle relazioni con il prossimo. Serena ricorda la vita in Cansèch:

Era la nostra vita e ci sembrava perfetta così.

Nostalgia, la consapevolezza di sé.
Ci sono tre tipi di nostalgia che corrispondono a un crescente grado di consapevolezza di sé. Ognuno di noi li sperimenta, non c’è un ordine gerarchico e non ce n’è una migliore dell’altra: dipende dall’uso che ne facciamo.

— Il primo tipo di nostalgia non richiede riflessione, affida acriticamente al passato un valore positivo rispetto al presente, esprime la convinzione che le cose fossero sempre più belle e migliori prima. Ai me tempi sì che se stea ben…
— 
Il secondo tipo di nostalgia dubita sulla vera natura delle immagini che riemergono dal passato e si chiede ma era veramente così? Saralo stat vera?
— 
Terzo tipo di nostalgia riflette sul l’intima natura del suo essere, che non può ridursi alla rie vocazione di ciò che siamo stati. Setu chi po ti belo?

La nostalgia cosciente e riflessiva manifesta il desiderio del ritorno in sé, del contatto con la propria anima, con le profonde ragioni che ci hanno portato e che ci tengono legati al mondo. La montagna è un ambiente obliquo e verticale nel quale lo spazio costringe alla riflessione sul posto che occupiamo dentro la sterminata architettura dell’universo da cui proveniamo (3). In questa percezione del nostro reale ruolo e peso individuale (e come specie) sta l’origine più vera del sentimento sacro. Non essendo un marinaio né un tuareg, posso parlarvi solo dell’esperienza sacra in montagna. Uso qui il termine sacro nel suo significato originario di attaccare, congiungere, aderire o avvincere. È perciò l’attributo che caratterizza il nostro bisogno di comprendere il modo con il quale partecipiamo alla straordinaria avventura della vita. La modernità ha una formidabile capacità di distrazione (separare, disgiungere), di evasione (andare fuori), di divertimento (volgere altrove), tutte parole che chiariscono come la vita contemporanea ci allontani dalla comprensione intima del significato e dello scopo della nostra avventura umana. Tutto agisce per portarci fuori da sé e da noi producendo alienazione.

Canséch, Mario Meneguz e Maria Andreina, 1975 (coll. fam. Meneguz).

Canséch. Da sinistra: Mario, Annamaria Meneguz, Maria Andreina (madre di Annamaria e Angelina), Angelina Meneguz, Serena De Gasperin (pronipote di Mario), Michela Bortolas (figlia di Angelina), Fabio Bortolas (figlio di Angelina), la cagnolina Diana, Gabriele Meneguz (figlio di Alberto), 1967 (foto Sigi Lechner, coll. fam. Meneguz).

Abitare la montagna (non in montagna)
La montagna costringe a salire e a scendere, attività che esigono energia e forza, ovvero l’essenza creatrice dell’universo che è uno spazio apparentemente vuoto ma, in realtà ricolmo di energie e di forze lucenti e oscure. Gli antichi, che guardavano il cielo, hanno trasformato quello spazio sfolgorante di luce o completamente immerso nelle tenebre, in un luogo abitato. Sul grande schermo del cielo stellato hanno raccontato le proprie storie terrene, lo hanno reso capace di parlarci di loro. Per indicare il cammino, per illuminare il percorso, per illustrare la loro esistenza. Oggi il cielo è pieno di satelliti ed immondizie spaziali, ma non racconta più storie agli uomini e degli uomini. Si parla di conquista dello spazio ma abbiamo creato le premesse per perdere definitivamente la sua potenza simbolica.

Giulio De Bortoli ricorda che, al ritorno dal Sass de Mura rientrò al rifugio Boz completamente fradicio, Mario accese il fuoco per asciugare i suoi vestiti e gli disse di andare sotto le coperte per stare al caldo:

Ero così stanco che mi appisolati subito. Ma non del tutto. Ricordo distintamente Mario che, in silenzio, si avvicinò al mio letto e, con una delicatezza infinita, mi sistemò la coperta scivolata a terra. Come fossi suo figlio. Quel gesto, più di tante scalate e vie aperte, mi è rimasto dentro. Una carezza silenziosa che ancora oggi mi commuove.

Chi frequenta la montagna, come Mario, ovvero ci sta di frequente, non solo in qualche fine settimana estivo e invernale, assume una consuetudine alla fatica fisica del salire e scendere, che diventa un “abito mentale” idoneo alla migliore sopravvivenza possibile in questi luoghi pericolosi e repulsivi. La montagna ha alcuni caratteri distintivi che ognuno di voi conosce:

— Il silenzio o un volume moderato dei suoni ambientali;
— L’estensione degli spazi disponibili tridimensionali;
— La distanza da altri esseri umani. L’unico vero modo di frequentare la montagna è andarci da soli (un cane o una mula sono ammessi);
— La variabilità degli ambienti e paesaggi, determinata dal variare della quota;
— L’incertezza sul percorso da seguire e la necessità di fare delle scelte;
— Il movimento imposto dal cammino;
— La costante presenza di rischi più o meno gravi e incombenti;
— Necessità di una dose variabile di talento ed esperienza;
— La percezione fisica del limite.

Abitare la montagna (non in montagna) presuppone l’attitudine al movimento su terreni obliqui, verticali e talvolta strapiombanti. Si tratta di percorrere cenge ingombre di sfasciumi, ghiaioni instabili, pendii ricoperti di foglie o lope umide e scivolose. Bisogna individuare e scegliere appigli e appoggi affidabili e muoversi sfruttandoli abilmente, distribuendo il peso con equilibrio e dinamismo, risparmiare le forze, riconoscendo i propri limiti accettandoli, orientarsi intuendo per dove passare, sapersi muovere sulla neve e sul ghiaccio, conoscere i modi e i luoghi opportuni per proteggersi e per ripararsi in caso di necessità, individuare le fonti di pericoli e di rischio e sapere come fare per evitarli, valutare l’intensità e la durata dello sforzo in base alle proprie capacità e al proprio allenamento. Tutti apprendimenti che esigono una costante familiarità, un giornaliero allenamento ed infine, il più importante dei requisiti: trarre da tutto questo un’inspiegabile ma costante gioia. Credo che essa provenga dalla percezione di stare nel posto giusto, nel modo giusto, sentirsi parte intimamente legata al luogo in cui ci si trova. Ennio racconta che Mario:

nella natura era perfettamente a suo agio […] il suo era un legame autentico con la montagna, anche a livello esplorativo. Certi posti non li ha frequentati per lavoro: c’è andato di sua volontà e per fare una cosa del genere serve un atteggiamento di ricerca e la voglia di fare nuove esperienze.

Se tutto questo funziona, non siamo più ospiti tollerati ma parte del tutto. È lo stesso tipo di gaudio che sperimenta chi canta in coro quando la sua voce si fonde con le altre e crea l’armonia e la bellezza estetica del canto. Così diventiamo ciò che siamo, una parte del luogo, la montagna ci lascia passare, il gracchio e la volpe non ci temono quando camminiamo nell’ombra dell’oscura valle o risaliamo i pendii illuminati dalla luce del mattino, che ci viene incontro dalle numinose cime. Luigi Pat ricorda Mario come:

uno sciamano di questa bella fetta di Alpi, una figura arcana, altra, in continuità con i miti e le leggende dei Monti pallidi. E sono certo che i suoi amici, che sempre lo ricordano, la pensano esattamente come me.

I questi casi non sei tu al centro di tutto questo. Sai che potresti svanire, non esserci mai stato o non tornare mai più. Tutto questo, nella sua potente e innocente bellezza, continuerà ben oltre la fragile vita mortale tua e di tutti gli altri umani. Questo, al di là di ogni inutile romanticismo, produce un sentimento di pacificazione e armonia, fonte della necessaria gratitudine verso il mondo, la sola strada che può condurci alla straordinaria leggerezza della gioia più intima e appagante.
Il sacro, appunto.

Cacciatori in Alvìs. Da sinistra: Antonio Bertelle, Mario, Quintino Pollet e seduto Nino De Nardin, senza data (coll. fam. Meneguz).

La mula Gina al rifugio Bruno Bòz, senza data (coll. fam. Meneguz).

Sotto l’occhio attento di Mario, si può salire in groppa alla mula Gina, senza data (coll. fam. Meneguz).

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La mula Gina riposa a Canséch, 1985 (foto Teddy Soppelsa)

L’esperienza del sacro è da sempre presente nell’umano.
Cosa significa l’aggettivo sacro? È ciò che si riferisce all’esperienza di una realtà altra, diversa, rispetto alla quale l’uomo si sente inferiore, intimorito e affascinato. In un altro senso, non troppo lontano dal primo, il sacro è il valore trascendente dell’immanente concreto, cifra spirituale, mistero separato e nascosto. Esso si rivela nell’incontro fra il sé e il fuori di sé, se lo si abbraccia nel bene o nel male, nella consapevole misura dei propri limiti e nel terrore dell’abisso. Percezione fondata sull’esperienza umana ma indotta dalla necessità non contingente di dare o trovare significato all’essere. L’esperienza del sacro è da sempre presente nell’umano che percepisce il mistero insondabile dell’essere. Oggi la maggior parte degli umani vive in luoghi artificiali dove ha difficoltà a percepire il mistero, anche perché molti, percependolo, non saprebbero più cosa farsene. L’esperienza del sacro è indissolubilmente legata allo sforzo compiuto dall’uomo per costruire un mondo che abbia un senso.

Il Sé dell’individuo solitario e disperso naviga in più mondi e non può appoggiarsi più ad ancoraggi sociali e religiosi tradizionali duraturi e visibili, per cui tende a sacralizzare tutto ciò che lo conforta e gli dà un’identità di fondo, a cominciare, come nel caso della spiritualità ecologica, dalla natura (4).

La natura in latino si riferisce al tema nátus, participio passato di násci e úrus suffisso del participio futuro ovvero “ciò che sta per generare, forza che genera”. Da ciò deriva nasci-tùrus: colui che sta per nascere. La natura indica l’insieme delle leggi che presiedono all’esistenza delle cose e alla successione dei viventi, di conseguenza indica tutti gli esseri che compongono l’universo, siano essi biologici come i biomi oppure inanimati come i minerali. Oggi percepiamo la natura secondo i canoni delle scienze naturali, cose classificate con precisione, ordinate entro categorie tassonomiche ben definite (5). Molte delle specie animali sono allevate dagli uomini e la loro riproduzione è governata da leggi economiche più che naturali. Perciò il mistero, che ogni nuova vita porta con sé, si allontana dall’esperienza quotidiana nella maggior parte delle persone. Gran parte degli esseri viventi, sottoposti al dominio degli uomini, assomigliano più a cose al nostro servizio che non a miracoli della creazione. Serena ricorda che lo zio Mario diceva, di fronte a una possibile preda di caccia:

Fermi tutti, quel l’è massa bel, non se pol coparlo!

Intravedere oggi nel rapporto tra l’uomo e la natura l’origine del sacro, ovvero del rispetto di ciò che non conosciamo e che non siamo in grado di creare, è molto più difficile che non cento anni fa. Pochi sanno mungere una mucca, ancora meno sanno trasformare il latte in ricotta e formaggio, rari coloro che sanno ancora spellare una lepre o aiutare una capra a partorire. Quasi introvabili coloro che sanno ancora leggere i segni del cambiamento meteo dal volo delle zilighe o dal comportamento dei ragni o dei fiori, che riconoscono le qualità di una pianta e le proprietà curative del tarassaco. I contemporanei postmoderni si sono inventati una natura a loro uso e consumo, non ne conoscono i caratteri e non ne rispettano gli equilibri, la consumano come qualsiasi altra merce. La piegano alla loro necessità di fuggire dalla gabbia in cui stanno, infilandosi in un’altra gabbia creata dalla loro immaginazione.

Ecco, in ogni caso il sentimento del sacro era radicato nel cuore della vita umana. La civiltà borghese lo ha perduto. E con che cosa l’ha sostituito, questo sentimento del sacro, dopo la perdita? Con l’ideologia del benessere e del potere (6).

Mario ha vissuto in simbiosi con il mondo che ha abitato, nei fatti, nella quotidiana semplicità. Le tracce che ha lasciato nella memoria delle persone intervistate per scrivere questo libro, ne sono la prova. L’unica forma di immortalità che possiamo sperimentare è la sopravvivenza di ciò che siamo stati nella mente nel cuore di coloro che ci hanno conosciuti in vita. Quanto più estesa e profonda è la diffusione del ricordo, tanto più rilevanti sono state le esperienze positive condivise con la persona scomparsa. Questo è ciò che accade alle persone capaci di empatia, che sanno entrare in relazione affettiva e sentimentale con gli altri. È proprio la qualità di queste relazioni che determina l’intensità e la permanenza dei ricordi, che li rende dolci anche quando ci rattristano, e producono malinconia, le bonheur d’être triste (7), quella tristezza vaga, intima, la cui delicatezza ci accoglie e ci consola.

Mario (coll. fam. Meneguz).

Mario con tre escursioniste dell’Alta Via n.2, ben equipaggiate con scarponi in cuoio, zaini pesanti, ghette e piccozza, senza data (coll. fam. Meneguz).

C’è una nostalgia individuale e una comunitaria.
Dal punto di vista dell’individuo è una risposta alle minacce alla continuità del sé, ricostruendo la memoria del proprio passato si rafforza l’identità per resistere meglio alle minacce del presente. A livello collettivo la nostalgia è sempre una risposta in tempi di cambiamento e di incertezza. Nella relazione tra cambiamento e trasformazione, la nostalgia tende verso la continuità dell’identità comunitaria, che si rafforza condividendo ricordi e memorie. Esattamente quello che stiamo facendo noi in questo momento (8). Anche gli adulti, come gli adolescenti, hanno bisogno di ricostruire continuamente la propria identità personale e comunitaria perché il mutamento della realtà esterna e della nostra consapevolezza psichica è continuo. Perciò c’è bisogno di riconoscere la propria unicità e diversità individuale ma anche di un abbraccio intergenerazionale che solo la trasmissione della memoria permette. I cambiamenti individuali sono legati ai cicli di vita, in qualche misura prevedibili. I cambiamenti che coinvolgono l’intera comunità (la storia) sono imprevedibili e le conseguenze che ne derivano aleatorie. Perciò producono un sentimento di inquietudine più vasto e meno controllabile dal singolo individuo. Garantire la continuità storica e il senso di appartenenza, che è un elemento importante della personalità singolare, offre un rifugio temporaneo all’ansia che molti provano di fronte all’alterazione dei costumi e delle usanze. Le ultime due generazioni con radici piantate nel ‘900, hanno vissuto un periodo di mutamenti rapidi e radicali come mai prima. In questo senso la nostalgia svolge un ruolo importante nell’invenzione delle generazioni ed è il cuore stesso dell’identità generazionale. Le persone qui radunate (9), leggendo il libro di Teddy su Mario, lo comprendono. Hanno sperimentato il mondo in cui Mario ha vissuto e nel quale egli ha costruito la fitta rete di relazioni significative, basate su canoni di comportamento radicalmente diversi da quelli che si praticano oggi. Gli eredi di Mario nella gestione del rifugio Boz sono stati Daniele Castellaz e la moglie Ginetta e anche loro:

hanno saputo accogliere alpinisti, camminatori della domenica ed escursionisti da ogni parte del mondo, come fossero amici, con spirito gentile e sincero. Hanno saputo custodire l’anima autentica di un rifugio alpino: un riparo tra le montagne, semplice e antico, così com’era stato loro affidato da Mario.

Un esempio per tutti: chi raggiungeva un rifugio cinquant’anni fa non aveva pretese, chiedeva e si accontentava di ciò che gli veniva dato. La componente del dono era avvertita in questo scambio, in luoghi in cui la presenza dell’umano solidale era indispensabile per il proprio benessere, l’incolumità e la sopravvivenza. I sentimenti che governavano questa relazione erano la riconoscenza e la gratitudine.

Per tutte queste ragioni Mario oggi è qui con noi. Non mi stupirebbe se qualcuno che l’ha conosciuto, salendo in Néva (da solo) udisse ancora il passo della Gina, intravedesse la sagoma di Mario disegnata nella nebbia leggera del mattino. Fossi in voi, non escluderei di incontrarlo, appena valicato il passo Finestra, mentre, sorridente, vi attende per accompagnarvi, in silenzio, in quel che resta del vostro cammino. Non so quale effetto faccia tutto questo su di voi, per me, costretto ad abbandonare i monti della mia felice e trascorsa gioventù, è di grande consolazione. Ma, come avrebbe detto Mario: Ades bisogna taser.

_____
1) Teddy Soppelsa, Le montagne di Mario. Memorie dalla Val Canzoi, Cierre edizioni, Sommacampagna Verona 2025, la citazione “nostalgia felice” rimanda all’omonimo romanzo di Amélie Nothomb, Voland, Milano 2014.

2) Antonio Tabucchi, Viaggi e altri viaggi, Feltrinelli, Milano 2013.

3) Lo stesso tipo di situazioni si verificano in altri spazi come il mare aperto, orizzontale e mobile e i deserti, vuoti ed immoti, dove rischio e solitudine inducono alla riflessione individuale.

4) Giovanni Filoramo, Il disincanto del mondo e la sacralizzazione della natura, AЯGOS 1 Special issue: Religion and Ecology, pp. 86-102, DOI: 10.26034/fr.argos.2022.3560.

5) La classificazione è un albero filogenetico, sulla base delle analogie fra i genomi delle varie specie. Umberto Galimberti, Il simbolo: orma del sacro, p. 43, in https://www.atquerivista.it/wp/wp-content/uploads/pdf/atque_1ns_2. pdf

6) Pier Paolo Pasolini, Il sogno del Centauro, a cura di Jean Duflot, Editori Riuniti, Roma 1983, pp. 1479-1484.

7) La malinconia è la felicità d’esser tristi, in Victor Hugo, Les Travailleurs de la mer, Flamarrion Paris 1868, in Italiano Mondadori, Milano 1995.

8) Il testo di questa relazione è stato scritto in occasione della presentazione del libro avvenuta domenica 3 agosto 2025 nella casera Cansech in Val di Canzoi nel Comune di Cesiomaggiore. Erano presenti molti testimoni che hanno conosciuto personalmente Mario Meneguz.

9) Vedi nota n. 8.

Le montagne di Mario

Autore: Teddy Soppelsa
Editore:  Cierre edizioni, 2025
Pagine: 132
Prezzo di copertina: € 14,00

Cierre edizioni

Diego Cason

Diego Cason

Sociologo, si occupa di ricerche sociali, economiche e territoriali. Cofondatore del Bard (associazione Belluno autonoma regione Dolomiti), vicepresidente dell'Isbrec (Istituto storico bellunese della Resistenza e dell'età contemporanea).


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5 commenti:

  1. Loredana Corrà ha detto:

    Ero presente a Cansech e avevo seguito con molto interesse il discorso di Cason. Sono molto contenta di aver potuto rileggere il suo testo, veramente bello e profondo.

  2. Vittorio Vittorio ha detto:

    Parlo indirettamente di un testo che non ho letto, ma conoscendo l’autore, non ho dubbi a ritenere questo lavoro un prezioso contributo alla conoscenza, un ulteriore tassello di ricostruzione della memoria che Teddy Soppelsa sta portando avanti da tempo.
    Ebbi a dire su questo blog che Teddy è un rabdomante della memoria e le precise e ampie parole del dott. Cason confermano la bontà della ricerca di Teddy.
    Non ho nulla da aggiungere all’interessante e ampia analisi sviluppata nella prolusione, se non complimentarmi, e il sentirmi anch’io nomade, forse spaesato, allorquando si affronta il tema della modernità, o per meglio dire del contemporaneo; questo tempo che distrae e separa, che rende omogenee le situazioni, che divora le sensibilità e le diversità, che crea nuove povertà e forti disuguaglianze, che distrugge il senso di comunità – perché la comunità ricerca la felicità e non il divertimento, e la felicità, come insegnava Seneca, si raggiunge attraverso la virtù e la ragione -.
    L’alienazione poi, è il frutto di molte situazioni che sradicano l’uomo dalla propria natura facendolo diventare, per usare le parole di Bonhoeffer, uno stupido.
    Mi pare però che su questo testo, che ripeto, non ho letto, si possa fare un’ulteriore riflessione più generale, che è la seguente: “l’uomo qualunque”, colui che non passerà mai alla storia, eppur, nella sua singolarità, è capace di grandi cose, specie se integrato in una comunità, come ad esempio la cura nel rimboccare una coperta ad uomo che ha bisogno.
    E’ un tema interessante questo perché la storia è fatta di uomini che sono stati ricordati solo perché, generalmente, hanno fatto del male a qualcuno.
    La nostra vita è principalmente circondata, a nostra insaputa, di incontri con persone che nella loro semplicità ci insegnano a vivere e offrono sollievo al prossimo.
    Siamo noi che non vediamo.
    Nell’enormità di uomini e donne che vivono da millenni la propria vita con virtù e rettitudine, non ricorderemo una carezza, un sorriso, un gesto gentile, una fatica, perché la storia parlerà di guerre, morte e distruzioni, e solo gli uomini senza virtù saranno ricordati.
    Mi pare quindi che questo testo possa offrire anche questo contributo prezioso ad una riflessione più ampia; come una “seconda vista”, ci permette di apprezzare e valorizzare “l’uomo qualunque”.
    Abbiamo imparato che “l’uomo qualunque”, unico esempio al quale tendere, vive una propria vita nella letteratura, ed è bello e giusto che sia così perché la letteratura unisce la fantasia alla vita vera, mentre la storia si occupa di parti di mondo in gran parte violento.
    Ringrazio quindi l’autore per averci permesso di ragionare anche su questo focus, e di essersi occupato di uno di noi, di qualcuno che da un senso e una prospettiva ad un sorriso, ad una carezza, ad un gesto gentile, e che presto sarà dimenticato.
    Vittorio Giacomin

  3. daniella Pizzolato ha detto:

    leggere queste parole è emozionante!! La nostalgia è un’emozione che ti cattura e ti porta lontano nei tempi che vorresti rivivere, ti ricorda persone care e luoghi che ormai non ci sono più perchè il tempo gli ha traformati. Posso dire che nel leggere queste righe ho pianto. Grazie

    1. Diego ha detto:

      A Cansech ho avvertito, come mi capita sempre più spesso, che i vincoli che consolidano le comunità sono essenzialmente affettivi. E sono robusti, resistenti e tenaci. Sono sempre molto contento quando entro, accolto come un ospite, in questa rete di relazioni che danno senso alla vita di ognuno di noi.

  4. Luca Luca ha detto:

    Un tuffo tra persone e luoghi lontani che forse non ci sono più.
    Un testo che sembra la carezza di cui hai bisogno e che non ti aspettavi

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