Racconto

NULLARBOR DESERT

All'estremità meridionale dell'Australia si estende la regione del Nullarbor. In latino significa "senza alberi", ma in realtà è un territorio coperto di piante di acacia e mulga e, dopo la pioggia, anche di fiori selvatici.

testo di Johnny Bertelle

Foto di Alexander Hough su Unsplash
11/06/2023
4 min
Dall’immagine satellitare dell’Australia salta agli occhi quel tremendo morso di squalo che trancia di netto, in un semicerchio, la vastità del Nullarbor Desert.

Nullarbor, così a naso, il senso del nome è chiaro e corrisponde all’arsa realtà. Pietrame coperto da erbe secche e da cespugli spettrali dilaga all’infinito. Molta gente di cultura anglosassone è convinta che l’origine del nome sia indigena, come lo è per molti altri luoghi qui in Australia.

Ora, ad inizio gennaio, è estate nell’emisfero australe; delle bacche appiccicose e tonde somiglianti all’uva spina, come per miracolo trattengono liquidi asprigni. Memore della storia di Chris McCandless di “Into the Wild”, evito di ingerirle, ma se fossi assetato, penso, sarebbe una tentazione dura da sopprimere.

La terra quando si vede tra le rocce è rossa scura e avrebbe la capacità di sostenere le foreste se l’acqua fosse a disposizione.

Ancora, ricorrendo al latino, i primi colonizzatori europei dichiararono questa terra “Terra nullius”, nonostante scambiassero doni con gli indigeni e fossero aiutati con viveri e acqua dolce. Giustificarono un furto agghindato da lingua morta.

Foto di Johnny Bertelle
Foto di Fiona Smallwood su Unsplash

Dirupi che sprofondano in un oceano che ribolle, blu scuro, incorniciato da una sofferenza di schiuma bianca.

Rallento. Vedo una sagoma al bordo della strada e ancor prima di accorgermi che è un’aquila che si ciba di una carcassa, percepisco l’odore dolce della putrefazione. Dal becco del rapace pendono le parti molli, gli occhi mi fissano, gialli, mentre le passo accanto lentamente. La carcassa è quella dell’ennesimo canguro investito, probabilmente all’alba, da camion-treni che come bolidi attraversano ininterrottamente questo deserto. Quando li incroci, lo spostamento d’aria è forte, inatteso e nascosto dietro il guizzo dell’indice all’insù con cui saluto tutti gli autisti che attraversano questo deserto.

Intanto, nei lunghi silenzi tra il passare degli automezzi, si scolorano le ossa disgiunte di innumerevoli creature. Chilometri e chilometri di rettilineo sobbalzante di dossi e alla fine intravedi all’orizzonte la fascia del miraggio: piombo liquido che radia calore, irraggiungibile.

Dove gli incisivi dello squalo segnano il punto più a nord della costa, l’asfalto molle dal sole si avvicina all’oceano. Alcuni chilometri su di un viottolo sterrato e arrivo sull’orlo. Subito mi sento impaurito, i peli si drizzano. Mille chilometri di scogliere da una parte e altrettanti dall’altra. Dirupi che sprofondano in un oceano che ribolle, blu scuro, incorniciato da una sofferenza di schiuma bianca. Il rumore è sordo, potente, perpetuo.

Foto di Vince Russell su Unsplash
Foto di Simon Maisch su Unsplash

Qui cogli il ruotare della terra, la sottigliezza dell’atmosfera, la vastità dell’Oceano Antartico.

Guardo il sole calare e pian piano si fa sera. Le ombre dei bassi cespugli, parallele e lunghe, in contrasto con tutto quel movimento mi riequilibrano e il perdersi e il giocare con i pensieri è facile, senza tempo.

La notte schiarita appena dalle stelle è travolgente. Il timore che mi assale inizialmente dà posto a una dolce e giusta resa. Quasi come un’offerta sacrificale mi sdraio su questa enorme piattaforma, al cospetto del cosmo che ci sommerse come acqua pesante.

Qui cogli il ruotare della terra, la sottigliezza dell’atmosfera, la vastità dell’Oceano Antartico. Intuisci che tutto è una faccenda di scala. Fossi così minuscolo da potermi aggirare tra gli atomi guarderei, a loro, come ora guardo la luna e se fossi grande come una galassia vedrei universi ora inimmaginabili.

Come neuroni dentro cervelli all’interno d’altri sempre più grandi.
Ci sentimmo benedetti.

Foto di Simon Maisch su Unsplash
Johnny Bertelle

Johnny Bertelle

Sono nato a Melbourne, a 4 anni ritorno in Italia con la mia famiglia dopo una crociera di 40 giorni. Durante la naja corono uno dei due sogni di mia madre: conseguire un diploma (prendo quello di rocciatore). Poco dopo l’altro sogno: diventare prete (vado in alpeggio a malga Losco, a Casera Razzo, come pastore di manze, non di anime). Dopo 6 mesi in giro per l'India e il Nepal, a 22 anni, ritorno in Australia. Lì raccolgo mele, avvio ristoranti e laboratori di gelato, lavoro con la forestale, costruisco case in legno e vendo "tempura mushrooms" ai festival della Tasmania. Vivo a Franklin sullo Huon River in una delle mie case, dove offro vitto alloggio ed escursioni, per turisti italiani. Prima di ogni viaggio, per prendere coraggio, andavo sui Monti del Sole con gli amici di allora, le “formiche rosse”: Diego, Aldo, Bob, Manolo, Raffaele e altri ancora. Che bei tempi!


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1 commenti:

  1. umberto ha detto:

    racconto stupendo tra il reale e il sogno

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