Racconto

Rio Galves, Amazzonia

testo e foto di Luciano Caminati  / Castel Maggiore (BO)

Nella selva
16/12/2018
5 min
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Tre declinazioni diverse ed egualmente fondamentali per vivere la foresta: navigare, vedere, scoprire.

Tre declinazioni diverse per un’unica suggestione emotiva con cui la selva amazzonica sa mostrarsi, in tutto il suo fascinoso e straordinario universo, senza alcuna mediazione; spontanea, immediata e crudele.
La canoa fila leggera, il motore pulsa il ritmo di questo sfilare monotono tra le sponde che chiudono il Rio Galves. Una sensazione di straniamento muto aleggia sul fiume e sulla vegetazione incombente, ossessiva, paranoica che pare dormire di un riposo esausto.
Più ci inoltriamo, più il Rio Galves si stringe finché la corrente aumenta ed il letto del fiume si fa insidioso. Denis, a prua, con la mano indica di volta in volta la direzione da seguire: destra, sinistra, di nuovo a destra e così via. Avanziamo a rilento, controcorrente, sondando il fondale con la pagaia.

Spento il motore, subito si accende il silenzio e di nuovo il soffio caldo con gli odori della giungla e del muschio decomposto. La foresta più che vederla si intuisce, al pari dei suoi abitanti mimetizzati nel vuoto assoluto di questa pienezza di occhi che spiano invisibili, incogniti.
Tutto ciò mi coinvolge, mi entra dentro, mi avvolge nel corpo e nei pensieri. L’ignoto, lo stupore enigmatico dell’incerto e, soprattutto, la consapevolezza di essere in un luogo così remoto alimentano fantasie, creano sogni e speranze.

E finalmente, dopo l’ennesima ansa del fiume, ecco la nostra meta.

Chiudo gli occhi e nel silenzio gli invisibili abitanti della selva cadenzano sequenze di suoni e rumori impersonali e monotoni, senza fine e senza inizio, un ritmo altalenante, sempre eguale come le note incantate di un disco rotto. E le parole si fermano anche loro, imbrigliate dalla corrente nei rami della pura immaginazione.
Volto pagina e, come una danza liberatoria, le parole si ricompongono e fuggono via al di là del fiume, aggrappandosi alle ali di una coppia di ara, una scia sfuggente di colori, un lampo di luce improvvisa, un volo liberatorio come gli ultimi pensieri prima di addormentarmi.

E finalmente, dopo l’ennesima ansa del fiume, ecco la nostra meta. Ci accampiamo qui, per qualche giorno, su questa altura fangosa, in questo luogo di creta e argilla mista a sabbia che il caimano ha deciso di abbandonare dileguandosi nel groviglio della selva.
Il motore spento, il silenzio che ancora una volta cala con impeto sorprendente, come un colpo di tuono, uno schiaffo sulla nuca. Secchi e precisi tosto s’abbattono colpi di machete che tagliano, frantumano, levigano rami e tronchi che alla bisogna adattano le nostre guide Matsés, con stupefacente abilità. In pochi minuti arde già il fuoco del campo e dal nulla si intrecciano le ramaglie in una sapiente geometria che definisce il nostro attendamento come da manuale. Un ritaglio di rassicurante civiltà nella selvatichezza che ovunque incombe a filtrare la calda luce del tramonto nella fitta trama delle fronde.

Non devo allontanarmi troppo perché sono come cieco davanti alle insidie.

L’acqua del fiume raccolta nel secchio brulica nel cosmo di microrganismi che vedo galleggiare in piena vitalità. Per poco ancora, perché entro breve comincerà a bollire. D’altronde si tratta pur sempre di proteine ed in questi luoghi da ultima frontiera, si può ben dire che tutto fa brodo.
Dopo l’ultima tazza di tè bollente scendo al fiume. Hector si è raccomandato di puntare sempre la torcia dove metto i piedi, con un occhio a foglie e rami. Non devo allontanarmi troppo perché sono come cieco davanti alle insidie. Nei pressi della riva l’aria è assai più umida e fresca e sul volto mi alita questo mondo primordiale, un fiato leggero che sfiora la pelle in una fragranza densa e dolciastra. Tutto è immerso nel silenzio, nel luccichio opaco e lontano delle prime stelle, sempre più brillanti in un cielo dove l’ombra degli alberi si staglia più scura e ancor più grande di cupa presenza.

Le ultime parole del nostro cicaleccio serale annegano in un sorso di rhum, nell’ipnosi delle flebili fiamme. Una brezza improvvisa ed il fuoco si spegne. La Croce del Sud brilla appena sopra la cortina degli alberi. Nell’oscurità del sottobosco lampeggiano qua e là gli spiriti vigili e inquieti della notte, le lucciole, occhi dei morti. Ed emergono, piccole luci ammiccanti, emergono dalle profonde tenebre della terra, le lucciole brillano sulla faccia nera della selva.

  • Luce
  • Tramonto
Luciano Caminati

Luciano Caminati

Sono una persona curiosa che ha imparato a non dare nulla per scontato. Mi piace viaggiare per questo. Sono un sognatore, nella continua illusione di trovare il luogo, il tempo dell’armonia, quella con la A maiuscola, dove il tutto si riconcilia in un equilibrio perfetto. Raccontare, quindi, diventa la condizione imprescindibile del viaggio. Il viaggio nasce, si svolge, termina per poi rivivere nel racconto; scrivo, essenzialmente, per non dimenticare.


Il mio blog | Il mio blog "IsoleBianche.com" è dedicato a territori sospesi nel vasto oceano delle riflessioni, a terre da esplorare e coprire di immagini, agli appunti vergati in tutta fretta su taccuini di viaggio e non solo; segni, graffiti dove fissare pensieri fugaci che mai più ritorneranno con la medesima intensità. Parlo di spazi immacolati da percorrere con il respiro delle emozioni, alle intuizioni da comporre e scomporre come tessere di un mosaico nell'impermanenza delle parole usate, abusate, negate, seguendo il filo labile che lega luoghi vissuti, luoghi immaginati, incontri, popoli in cammino verso un dove inconsapevole.
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