Racconto

UN FILO D’ACQUA

L’Appennino è acqua in un involucro di roccia carsica. L’acqua risorge e si immerge, prende vie insospettate, scompare e ritorna. L’acqua entra in tutte le cose ritornando continuamente alla terra, all’aria e al mare.

testo di Giulio Carcani  / Roma

foto Ttyree Adams on unsplash
11/11/2024
8 min
La notte portava un lamento rabbioso di forme confuse. Essenziali, uniti, determinati nell’intenzione erano il terrore liquido che si fa goccia sulla pelle e scarto improvviso nelle zampe.

Erano la paura ancestrale che governa il mondo. Zoccoli e unghie a rimestare la terra che non sostiene. Il vallone era soltanto strettoia, un ingombro di pareti ineluttabili alla fuga. La fame sa, la fame è parsimoniosa e paziente, rende lucidi, affilati, la fame non sopporta fraintendimenti e disprezza l’indecisione. Ancora selva, sassi e polvere fino al fondo, dove il torrente dimentica la roccia e lo spazio si ricompone nell’altopiano. Soltanto allora la luna capì che ne mancava uno alla mandria, forse il più vecchio.

Avana, sulla montagna, respirava il canto della nebbia sopra il mondo.

Quel mattino l’Appennino era luce. Ottobre ha giornate lunghe il giusto e l’aria, memore della tarda estate, non si vestiva ancora d’autunno. Tutto era nitido e il sentiero raccontava la notte, la brina e il primo tepore. Gli insetti esorcizzavano il freddo posandosi sopra i pochi fiori di rugiada. È un buon tempo quando si va su per primi al limitare dell’alba, come frugare in uno scrigno che nessuno ancora ha aperto. L’odore della terra invogliava a essere leggeri, per non muovere l’aria piena di segni. All’estate le piante avevano rubato il sole e regalato semi. Ora, invisibili nel terreno, erano quieti viaggiatori in attesa della primavera.

I faggi erano un po’ più su. Prima timidi, solitari e nel giro di pochi metri predominanti e possenti.

Il bosco di faggi per Leo aveva sempre avuto qualcosa di pauroso, sembrava un organismo capace di muovere pensieri e intenzioni. I faggi parlano con i funghi, con gli esseri microscopici e con le piante ma per gli umani solo silenzio e umidità abitano la foresta. I nuovi faggi vivono dove il gregge dimentica il pascolo. L’Appennino è popolato principalmente di faggi. I gusci dei frutti, le faggiole, scricchiolano e cantano. Fu con Mario, anni prima, che le assaggiò e capì il cinghiale. Erano incuriositi dai sapori che potessero percepire gli animali, sui sensi differenti che avevano sviluppato e sul buon senso, l’evanescente linea concordata che chiamiamo per abitudine realtà. Fu Mario che gli parlò, una volta, di non umani e a lui sembrò che volesse fare contorti voli pindarici.

Lo aveva incontrato casualmente in una libreria dove entrambi cercavano l’ultima copia di Sogni artici. Risero della coincidenza e lo comprarono a metà scrivendo i loro nomi con la data sulla quarta di copertina. Leo lo lesse per primo e glielo passò. La loro amicizia di parole scritte fiorì nei silenzi, sui sentieri lontano dalla capitale. Fu così che Leo capì che non umano non significava inumano ma un qualche cosa situato in un altrove libero dall’arrogante idea di coscienza.

foto Ken Shono on unsplash

I faggi erano un po’ più su. Prima timidi, solitari e nel giro di pochi metri predominanti e possenti.

La foresta di faggi si diradò in prati puntellati da giovani alberi che erano gli avamposti del bosco. Qualche passo più avanti, in un piccolo avvallamento, un cervo, adagiato di lato e smembrato, giaceva riverso sul verde. Gli occhi aperti su un corpo scomposto. Intorno il rosso del sangue. Con delicatezza si avvicinò. La vista del sangue lo turbava, gli occhi aperti senza fuoco, tutto il resto. Lupi, forse cinque o sei, magari due adulti con i cuccioli nati in primavera. Si guardò intorno, non dovevano essere lontani ma sapeva che nel giro di poco tempo la preda sarebbe scomparsa. Fu tentato da una fotografia ma poi si fermò. Restò per qualche minuto e ripartì, con lo stesso passo, la testa più sgombra di pensieri e l’animo più pesante.

Costeggiò delle grandi rocce e iniziò la salita cadenzando il ritmo per spezzare il fiato. Il vento lo accolse dove il panorama si apriva e le nuvole facevano ghirigori nel cielo. Alla sua sinistra la cresta e la vetta, sulla destra un lungo pendio erboso e in lontananza un puntino scuro. In tarda mattinata arrivò in cima, avendo cura di perdersi nei passi e di osservare le api addormentate nei pochi fiori, le mucche e gli scarabei. Nel cielo era accompagnato dal volteggiare dei grifoni che iniziavano ad occuparsi del cervo. Il panorama in quell’angolo d’Italia centrale poteva arrivare a toccare una lieve striscia blu cobalto. La montagna tra le acque del mare: l’Appennino.

Tornando indietro scese verso i grandi prati. Quello che era un puntino si ingrandiva, nell’avvicinamento, in uno stazzo con accanto un riparo. Su un dosso poco lontano Avana lo prese in consegna. Un pastore abruzzese dalle zampe possenti ed enigmatici occhi azzurri. Non fece nessun cenno ed era un buon segno. Arrivato non lontano dalla costruzione di pietra, vicino all’unico sorbo del prato, vide Hassan.

«Buongiorno, è da stamattina che ti osservo».
«Buongiorno Hassan, hai notato anche le smorfie che ti facevo?»
«Ecco perché Avana è contento di vederti».
«E tu?»

Hassan indicò due bicchieri sul tavolo e risero. Dallo zaino Leo tirò fuori una confezione di tabacco, una cioccolata, del tè e dello zucchero.
Tra due pietre e una fiammella stava l’equilibrio del bricco del tè. In altitudine la legna è cosa rara e quel fuoco ben rappresentava la maestria di Hassan, aderire alle condizioni senza eccessi. La menta veniva dall’orto di montagna che con infiniti stratagemmi proteggeva dal cinghiale.
Presero il tè guardando il monte. Ora si vedevano due puntini sulla cima.

«Dove è il cervo?»
«Che ne sai?»
Con un cenno del capo indicò Avana.
«Me lo ha detto stamattina, era tranquillo perché i lupi avevano mangiato».
«Lo trovi sul sentiero all’inizio del bosco».

foto Tandem x Visuals on unsplash
foto Milo Weiler on unsplash
foto Ali Raoufian on unsplash

Nel cielo era accompagnato dal volteggiare dei grifoni che iniziavano ad occuparsi del cervo.

Si mossero verso il gregge. Piera e gli altri cani piccoli vennero saltellando, scantonando, rotolando di gioia incontro ad Hassan.
Rocky, un bastardino, stava imparando il mestiere del pastore. Con Hassan parlavano la lingua dei fischi, dei suoni, del dialetto abruzzese e dell’Atlante marocchino.

«Va Rocky, Rrocky riggiralle Rrockyyy riggirrral».

Tre fischi corti e uno lungo, Rocky salì sul pendio della collina sotto il monte, trecento metri più su dove le pecore erano puntini bianchi nel verde e nell’ocra. Rocky voleva fare bene senza esserne capace e le pecore si sparpagliarono. Ancora tre fischi corti e uno lungo – RRrocky rigirrll riggirall – e Rocky ripartì. La scena andò avanti ripetendosi sotto il cielo fino a quando i grifoni si alzarono in volo e Rocky, esausto, si fermò a guardare sconsolato Hassan.

Piera moriva dalla voglia di radunare il gregge, serrava gli occhi, scodinzolava e guaiva.

«Statt qui, statt quet».

Mario, Leo e Hassan si incontravano nel periodo in cui i pastori abitano la montagna, dai primi di giugno a metà ottobre. Era un trovarsi intermittente e intimo vissuto con la meraviglia dei bambini. Nei mesi invernali ognuno per sé, in pianura o in collina. La loro amicizia seguiva il tempo della transumanza e i profili della montagna senza forzature.
Leo tirò fuori la lettera e lesse.

Fraterno Hassan,
da qui, il mondo è più arido dell’Appennino, ma ugualmente accogliente ed essenziale. Mi sorprendo a volte a confondere i sassi bianchi della controra con le tue pecore e con Avana. I monaci silenziosamente ci guidano nella pratica della benevolenza che ripara le contrarietà della storia. Ho imparato, come te, a fare un piccolo fuoco con pochi sterpi e a far durare le braci per ore. La regola ci porta a lunghi silenzi e le parole tra noi viaggiano rarefatte soltanto al vespero. I grilli nella notte farfugliano strani discorsi che, a tratti, parlano di un mondo intimamente connesso in ogni sua piccola parte. Non ci crederai, ma a volte mi pare di sentire dei canti. Una melodia che ricorda qualcosa di antico, di nascosto che abita tra l’umano e il non umano. Le giornate scorrono serene e mi sto dedicando alla ristrutturazione di un muro del monastero. La pietra non manca e la calce si impasta con poca acqua. Procediamo lentamente e questo ci permette di avere la giusta cura nello scegliere e porre a dimora ogni singola pietra.
Quando l’estate finirà, sarai con Leo a salutare la montagna e a raccogliere un po’ di orizzonte, quello che basta, per accompagnarti nell’inverno. La piccola fonte che a fine stagione ci lasciava con un filo d’acqua si è seccata in quest’anno di siccità?
Non stare in pena per me, la stupidità mi protegge dalla saggezza.

Mario

foto Alberto Bigoni on unsplash

Hassan prese la lettera, alzò un poco il mento con ironia e la sistemò in tasca. Poi carezzo Piera e sussurrò

«Piera, va pigghia, va pigghia, riggiralle abbash abbash».

Piera per un’istante soppesò il pendio, salì con furia a raggiungere Rocky. Tre fischi lunghi e uno corto, tre lunghi e uno corto. Fecero un largo semicerchio a contenere tutto il gregge che fu raccolto, senza indecisioni. Rocky era felice, la stagione successiva avrebbe fatto da solo. Avana e gli altri pastori abruzzesi restarono a guardare.

Giunse il pomeriggio e i due puntini che avevano visto sulla cima della montagna arrivarono alla capanna. Erano due ragazze. Comprarono del formaggio da Hassan scambiando una tazza di tè con qualche parola. Avevano facce solari, notarono il sorbo e il piccolo fuoco di sterpi. Leo prese un momento per soppesare un’indecisione, tirò fuori dallo zaino un libro e glielo regalò. Le due ringraziarono con semplicità e tornate alla pianura notarono che sulla quarta di copertina c’erano appuntati due nomi e una data.

Scese insieme ad Hassan fino alla fonte che, nonostante la siccità, portava un filo d’acqua. Appoggiò la borraccia sulla pietra che riempendosi lentamente cambiò intonazione fino a tacere. Ne bevvero un sorso. L’Appennino è acqua in un involucro di roccia carsica. L’acqua risorge e si immerge, prende vie insospettate, scompare e ritorna, bagna la cima aerea del monte e il fosso buio. L’acqua entra in tutte le cose ritornando continuamente alla terra, all’aria e al mare.

Restarono insieme nelle parole e nei silenzi, poi si separarono, uno verso monte e l’altro verso la pianura. Si sarebbero rivisti il prossimo giugno. Leo scese fino alla radura e del cervo c’erano soltanto le ossa e il palco che qualcun’altro avrebbe raccolto. Si incuneò nella valle nel momento in cui il crepuscolo iniziava a cancellare le ombre.

Avana, sulla montagna, respirava il canto della nebbia sopra il mondo.

disegni di Giulio Carcani

Giulio Carcani

Giulio Carcani

Mi piace andare per boschi, valli, montagne, colline e sentieri di costa. Cerco di raccogliere storie e sistemarle in parole e disegni. Suono il Basso Tuba, dal suono grave e ingombrante, in una street band. Lavoro per un Istituto di ricerca che si occupa di protezione dell’ambiente.


Il mio blog | altitudini.it come la mia rivista digitale. In altitudini.it trovo un luogo accogliente e arioso dove seguire storie e racconti sghembi che aggiungono passi alle mie passeggiate.
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1 commenti:

  1. Zazza' ha detto:

    Col fresco della mattina, è come aver fatto una passeggiata tra le montagne e sentito odori e silenzi.
    Poi mi sono accorto di essere sul treno….
    😘

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