Erano la paura ancestrale che governa il mondo. Zoccoli e unghie a rimestare la terra che non sostiene. Il vallone era soltanto strettoia, un ingombro di pareti ineluttabili alla fuga. La fame sa, la fame è parsimoniosa e paziente, rende lucidi, affilati, la fame non sopporta fraintendimenti e disprezza l’indecisione. Ancora selva, sassi e polvere fino al fondo, dove il torrente dimentica la roccia e lo spazio si ricompone nell’altopiano. Soltanto allora la luna capì che ne mancava uno alla mandria, forse il più vecchio.
Avana, sulla montagna, respirava il canto della nebbia sopra il mondo.
Quel mattino l’Appennino era luce. Ottobre ha giornate lunghe il giusto e l’aria, memore della tarda estate, non si vestiva ancora d’autunno. Tutto era nitido e il sentiero raccontava la notte, la brina e il primo tepore. Gli insetti esorcizzavano il freddo posandosi sopra i pochi fiori di rugiada. È un buon tempo quando si va su per primi al limitare dell’alba, come frugare in uno scrigno che nessuno ancora ha aperto. L’odore della terra invogliava a essere leggeri, per non muovere l’aria piena di segni. All’estate le piante avevano rubato il sole e regalato semi. Ora, invisibili nel terreno, erano quieti viaggiatori in attesa della primavera.
I faggi erano un po’ più su. Prima timidi, solitari e nel giro di pochi metri predominanti e possenti.
Il bosco di faggi per Leo aveva sempre avuto qualcosa di pauroso, sembrava un organismo capace di muovere pensieri e intenzioni. I faggi parlano con i funghi, con gli esseri microscopici e con le piante ma per gli umani solo silenzio e umidità abitano la foresta. I nuovi faggi vivono dove il gregge dimentica il pascolo. L’Appennino è popolato principalmente di faggi. I gusci dei frutti, le faggiole, scricchiolano e cantano. Fu con Mario, anni prima, che le assaggiò e capì il cinghiale. Erano incuriositi dai sapori che potessero percepire gli animali, sui sensi differenti che avevano sviluppato e sul buon senso, l’evanescente linea concordata che chiamiamo per abitudine realtà. Fu Mario che gli parlò, una volta, di non umani e a lui sembrò che volesse fare contorti voli pindarici.
Lo aveva incontrato casualmente in una libreria dove entrambi cercavano l’ultima copia di Sogni artici. Risero della coincidenza e lo comprarono a metà scrivendo i loro nomi con la data sulla quarta di copertina. Leo lo lesse per primo e glielo passò. La loro amicizia di parole scritte fiorì nei silenzi, sui sentieri lontano dalla capitale. Fu così che Leo capì che non umano non significava inumano ma un qualche cosa situato in un altrove libero dall’arrogante idea di coscienza.
Col fresco della mattina, è come aver fatto una passeggiata tra le montagne e sentito odori e silenzi.
Poi mi sono accorto di essere sul treno….
😘