Intervista

VAL GRANDE, 1971-2021

Intervista a Teresio Valsesia a 50 anni dall’istituzione delle riserve naturali piemontesi del Monte Pedum e del Monte Mottac, due aree protette da cui nacque il Parco Nazionale della Val Grande.

testo e foto di Fabio Copiatti

Teresio Valsesia firma una copia dell'ultima edizione di “Val Grande ultimo paradiso”
21/11/2021
10 min

«Scaredi è sullo spartiacque fra la Val Loana e la Val Portaiola che immette nella Val Grande. Da una parte gli alpeggi vigezzini: candidi grappoli fra il verde dei pascoli in un paesaggio dominato dalle linee dolci e sinuose. Dall’altra una natura selvaggia e incorrotta fra aspre pareti di roccia. Studiamo la situazione. Paolo ed io. E guardiamo a lungo la valle ignota e allettante. Zaino in spalla e giù per il costone seguendo una traccia che subito si perde tra l’erbe alte».

Teresio Valsesia, Una vera foresta a due passi da casa, in “Risveglio ossolano”, 30 novembre 1967.

Conosco Teresio Valsesia dal 1990, quando lo ascoltai a Cossogno, il paese delle mie origini, in occasione della presentazione di una nuova ristampa di “Val Grande ultimo paradiso”, libro di cui già possedevo la prima edizione uscita nel 1985.

Qualche anno dopo ebbi modo di incontrarlo altre volte, io dipendente e lui consigliere del Parco Nazionale Val Grande. Mi capitò anche la fortuna di camminare con lui sui sentieri “dell’area selvaggia più vasta dell’Alpi”, slogan che accompagna da sempre questa zona protetta situata tra il lago Maggiore e le valli Cannobina, Vigezzo e d’Ossola.
Alpinista, giornalista, scrittore, già vicepresidente del Club Alpino Nazionale, Valsesia è una figura molto nota nel panorama della cultura alpina.
Da tempo avevo il desiderio di soddisfare alcune mie curiosità sul suo legame con la Val Grande. L’occasione mi viene data ora da un doppio anniversario. Cinquant’anni fa, infatti, il 26 luglio 1971 veniva approvato il decreto attuativo dell’istituzione della Riserva naturale Val Grande, già individuata dal 1967 nell’area del Monte Pedum come prima Riserva integrale delle Alpi, e della confinante Riserva naturale orientata del Monte Mottac. Inoltre, nello stesso anno, sul numero 6 della rivista “Novara”, mensile economico della CCIAA provinciale, usciva l’articolo di Valsesia “La Valgrande”, poi edito in estratto come opuscolo.
Al futuro parco nazionale, veniva così dedicata la prima di tantissime pubblicazioni monografiche.
Complice la pandemia in corso e la mia lontananza dal Piemonte, scelgo di inviare le mie domande a Teresio e lui, con la consueta disponibilità e amicizia, mi risponde con quell’entusiasmo che da sempre lo contraddistingue.

Ciao Teresio. Spero che tu stia bene e voglia soddisfare alcune mie curiosità che, lo ammetto, da anni si risvegliano nella mia mente ogni volta che sfoglio un tuo libro o leggo un tuo articolo. L’occasione è questo anniversario. So che i tuoi primi articoli risalgono a qualche anno prima, ne ho letti alcuni del 1967. Mi sono sempre chiesto a quando risale la tua prima escursione in valle e lungo quale percorso si svolse.
Caro Fabio, sto abbastanza bene (un mio amico diceva: “discretamente male”). La mia prima volta in Val Grande. Ne ho già fatto cenno qualche volta. Ero in Vespa con un mio amico di Bogogno (paese vicino a Santa Cristina, dove abitavo). Lui era un esperto di astronomia. Eravamo diretti verso la Formazza. Macugnaga – che poi divenne il mio paese – non la conoscevo ancora. Avevo circa 18 anni. Quindi siamo a fine anni ’50. Arrivati a Gravellona Toce abbiamo visto che l’Ossola era tutta buia. Invece sulle montagne del Verbano splendeva il sole. Una linea meteo che si ripete alcune volte all’anno: brutto a nord della linea da Poschiavo-Biasca-Domodossola. Bello a sud. Abbiamo quindi girato a destra ripiegando su Fondotoce, e poi continuando verso Bieno, Santino, Rovegro fino a Cicogna. La strada era stretta e non ancor asfaltata. Di Cicogna non sapevo niente salvo che esisteva perché l’ultimo parroco prima di don Fiora era del mio paese, don Claudio Mora, che era sfuggito al rastrellamento nazifascista perché sceso a Intra dal dentista. Non tornò più a Cicogna. Me l’aveva raccontato mio padre. Don Claudio, che era giovanissimo, subì un grande spavento e le conseguenze si manifestarono anche negli anni successivi.

Come ricordi l’arrivo in quella che poi sarebbe diventata “la capitale del Parco”?
In piazza a Cicogna non c’era anima viva. Il paese era deserto. Poi vedemmo la casa parrocchiale con affisso un cartello: “Cave Canem”. Incuriositi, siamo entrati. C’era una scala in sasso che finiva con due porte, a destra e a sinistra. A destra si sentiva che c’era qualcuno. Ci siamo trovati davanti a uno che chiodava degli scarponi. «Ci scusi, non cercavano un calzolaio, ma il parroco». E lui: «Sono io». Era don Antonio Fiora. Siamo diventati amici e mi ha sempre mandato il suo bollettino parrocchiale. Poi siamo saliti alla Casa dell’Alpino e siamo ritornati in paese, che anche quella volta si presentò deserto. Dopo un po’ di tempo sono ritornato con mia mamma, sempre con la Vespa. Siamo saliti ancora alla Casa dell’Alpino. Pranzando abbiamo visto che le pecore scappavano dal prato e si rifugiavano sotto i grandi faggi. Ho guardato in alto: volteggiavano due aquile e un aquilotto. Anche allora non abbiamo incontrato nessuno.

La 1a edizione di Val Grande ultimo paradiso, 1985

La 6a edizione di Val Grande ultimo paradiso, 2008

Immagino che la tua innata curiosità ti abbia spinto a cercare notizie su Cicogna e sulla sua valle?
Sì, ma libri che parlassero di quei monti non ce n’erano. Ho incominciato a leggere qualcosa della Val Grade trovando un articolo (che ho conservato) dell’allora presidente del CAI Verbano che proponeva di sistemare il sentiero per la Zeda e rievocava le storie del rastrellamento con la morte di un partigiano triestino (un medico) sulla Marona e con l’arrivo, nell’immediato dopoguerra, dei suoi genitori che, disperati, si sono suicidati nell’alberghetto che li ospitava a Intragna.
Nel 1963 poi sono andato a fare il custode della capanna Sella di Macugnaga e per due anni alla Zamboni. Quindi mi sono dedicato al Rosa, senza però dimenticare la Val Grande.

I tuoi primi articoli dedicati alla Val Grande risalgono al 1967, se non ricordo male. Tra questi uno iniziava con «Cristo si è fermato al Casletto», parafrasando il titolo del famoso libro di Carlo Levi.
Credo di aver fatto la prima vera escursione in Val Grande proprio in quegli anni, sempre solitaria, dal ponte Casletto a Velina passando sul sentiero del fondovalle, pericolosissimo. Ricordo dei ponticelli formati da tronchi di alberi marci. Passavano solo pescatori e cacciatori. C’era (e c’è tutt’ora, credo) la lapide del maggiore Mastrodicasa, precipitato negli anni Trenta durante i lavori dell’IGM. Nella sede dell’IGM a Firenze, dove sono stato, c’è una grande lapide che lo ricorda. Credo che sia stato l’unico ufficiale superiore dell’IGM a morire nell’adempimento del suo lavoro. A Velina i pochi alpigiani rimasti erano increduli e meravigliati del mio arrivo. Era la fine di agosto. «Lei è il primo escursionista che passa quest’anno», mi dissero. La Val Grande, la sua vegetazione e i suoi silenzi erano ancora intatti.
Sono ritornato a Velina tante volte. In una baita bruciata di Baserga ho trovato anche le munizioni abbandonate dai partigiani di Mario Muneghina e un elmetto delle SS con il foro e la sigla raschiata “SS”. Sul sentiero del fondovalle siamo passati alcuni anni dopo, quando ho lanciato un programma delle  escursioni intersezionali delle Sezioni Est Monte Rosa: ma il sentiero nel frattempo era stato parzialmente sistemato dai forestali e in alcuni passaggi noi avevamo collocato delle corde per favorire il passaggio della nostra escursione. Eravamo in 207. È stato l’inizio di alcuni anni escursionistici che riunivano appassionati non solo del VCO e del Novarese.

Una vita interamente dedicata alla montagna e alla Val Grande…
Alla Val Grande ho dedicato veramente tanto tempo: escursioni, accompagnamento di tanti amici, di sezioni del CAI, scuole con il WWF, proiezioni e conferenze, articoli sui giornali. La prima proposta del parco nazionale l’ho fatta in un articolo su “Il Giorno”. Qualche volta ci siamo anche persi. Una volta sulla via del ritorno, siamo passati da Fondotoce e al bar (che c’era già alla Rotonda), ci hanno presi per due contrabbandieri, avvertendoci che poco lontano c’era una pattuglia della Finanza. Eravamo stanchi e malconci. In val Grande ho portato anche l’allora prefetto di Novara (Corsaro) e il presidente della provincia, (Cattaneo, cognato di Oscar Luigi Scalfaro).

Nel 1967 l’allora Ministero dell’Agricoltura e Foreste individua nell’area del Monte Pedum la prima Riserva integrale delle Alpi e ne decreta l’istituzione, poi formalizzata nel 1971, giusto 50 anni fa. Che ricordi hai di questi due momenti?
Dell’istituzione della riserva integrale, all’inizio, non sapevo nulla. Ho acquisito queste info dopo che avevo visto la vecchia casermetta dei forestali In la Piana, parlando appunto con i forestali e in particolare con il papà del dott. Ivano De Negri, ex direttore dei parchi dell’Ossola. Più tardi su una trave della casermetta qualche bracconiere ha scritto: «Valsesia con le tue balle hai rovinato la valle». Ormai passavano molti escursionisti e non potevano più cacciare liberamente come prima. C’è stato un periodo in cui uno mi telefonava minaccioso a tutte le ore, anche di notte. Qualche volta i miei figli rispondevano al telefono: «Papà c’è uno che vuole uccidermi!». Ne parlai con il procuratore della Repubblica di Verbania che avevo accompagnato in Val Grande. Mi disse: «Se continua, lo prendiamo». Ma un giorno a Cicogna ero con il procuratore e altra gente. È passato casualmente un cacciatore che secondo me era quello che mi minacciava. Da allora non mi ha più telefonato anche perché i miei figli – andando alle scuole elementari –  avevano imparato a inondarlo di parolacce: insulti che io non ho mai usato, ma i figli a scuola li avevano subito imparati.

Le creste della Val Grande con, sullo sfondo, il Monte Rosa
Corte Buè e le pareti dirupate del Pedum, riserva Integrale

Alla fine dell’Ottocento la Val Grande era una delle mete preferite dai soci della Sezione Verbano del Club Alpino Italiano. Poi nel secondo dopoguerra fu un po’ dimenticata, frequentata da pochi temerari, complice il progressivo abbandono di alpeggi e sentieri.
Negli anni ’60 quasi nessuno del CAI conosceva la Val Grande. Questo te lo posso assicurare. Anche il Soccorso alpino. Un amico che ha fatto alcune escursioni con me era il dott. Mario Lambrini, farmacista di Pallanza e Suna. Aveva fatto la traversata della valle con il papà di Elisa Longo Borghini di Ornavasso, oggi campionessa di ciclismo. Poi c’erano stati gli alpinisti di Intra (in testa Tino Micotti). Però tutti un po’ in autonomia, senza promuovere il territorio o incidere su di esso. A parlarne in un articolo sulla rivista “Cooperare” del Centro Studi per la Cooperazione fu anche il giornalista di Varese Roberto “Robi” Ronza, poi importante collaboratore della Regione Lombardia. Successivamente Ronza ha pubblicato un romanzo sull’Alto Verbano. L’ho conosco molto bene. Inoltre c’è stato – ma molto più tardi – il bravissimo Ivan Guerini, credo il primo in Italia a fare il 7° grado, che ha scritto anche due libri sulle sue imprese in Val Grande. L’ho conosciuto a Milano e si allenava percorrendo con le braccia il cornicione di casa, a 20 metri di altezza. Queste sono solo alcune citazioni che mi ricordo.  Naturalmente non ho fatto cenno ai grandi personaggi del CAI Verbano dell’Ottocento.

Tu vieni considerato, a buon diritto, “il padre” del parco nazionale. Ma da sempre riconosci un ruolo fondamentale a Mario Pavan, forse il primo a riconoscere l’importanza naturalistica della Val Grande.
Il prof. Pavan, precursore dell’ambientalismo, nel 1965 aveva pubblicato un articolo sul Corriere della Sera attinente alla riserva del Pedum, dal titolo “Rispettando la natura l’uomo difende se stesso. Nasce nel territorio del comune di Cossogno la prima riserva naturale integrale dell’arco alpino italiano”. L’ho conosciuto a Pavia dove tenevo una conferenza sulla Val Grande all’università dove lui insegnava e come assistente aveva il figlio di Fanfani. Infatti era stato ministro dell’ambiente in uno dei governi Fanfani. In quel contesto aveva approvato una serie di protocolli facendoli accettare anche dai governi europei (Russia compresa). Ma di questo più nessuno si ricorda. Pavan mi aveva scritto una lettera di apprezzamento per il libro “Val Grande ultimo paradiso”.

Un titolo di successo per un libro molto amato dai frequentatori Valle e non solo, ristampato e riedito più volte. Proprio in chiusura dell’articolo del 1971 scrivi della Val Grande come di un «piccolo eden dove si conserva intatto e incontaminato l’equilibrio fra tutte le espressioni del mondo vivente e del mondo inanimato… ». Eden, paradiso.  La definizione “ultimo paradiso” ha quindi preso forma fin dalle tue prime “esplorazioni”?
Il titolo mi è venuto in mente pensando alla Val Grande come paradiso ambientale. L’ultimo, appunto, ancora esistente. Poi ho pensato che – come rilevi tu – c’erano anche gli alpigiani e le loro fatiche. Tutt’altro che paradisiache. Il capitolo delle loro testimonianze è sicuramente il più interessante del libro, insieme a quello dei disboscamenti.  E oggi, come sai, più che l’ambiente la natura e i grandi silenzi, la Val Grande è “l’antropologia dell’estremo”, con l’esigenza di salvaguardare le relative testimonianze che ci sono ancora, ma per poco.

Grazie Teresio per aver soddisfatto alcune delle mie curiosità. Spero che si possa proseguire la chiacchierata vis-à-vis, come suggerisci tu. Mi piacerebbe approfondire l’interessante tema dell’antropologia dell’estremo. Un carissimo saluto da Belluno.
Grazie a te Fabio, è stato un piacere ricordare gli anni della mia scoperta della Val Grande. A Belluno sono stato varie volte. La prima nel 1970 a presentare una proiezione sul Rosa. Allora c’era come comandante provinciale della Finanza il maggiore Carlo Valentino, ex comandante della scuola alpina della Finanza di Predazzo, poi diventato generale. Ci sono stato ancora nel 1994, con il Consiglio direttivo del CAI, ospite della Brigata alpina Cadore. Ho conosciuto casualmente l’allora tenente colonnello Antonio Li Gobbi, figlio di Alberto, quest’ultimo generale dell’esercito, medaglia d’oro della Resistenza e partigiano anche in Val Strona, nel Verbano e nell’Ossola, poi diventato comandante del settore sud della Nato. È sepolto nelle nostre terre verbanesi, a Oggebbio. Poi a Belluno sono venuto per il Camminaitalia, nel 1995. La ricordo come una bella città alpina.

La Val Grande
Il Monte Pedum e la Val Grande
Cicogna "d'antan"
Fabio Copiatti

Fabio Copiatti

Sono nato a Verbania nel 1963, da genitori originari di Cossogno, paese al quale sono profondamente legato. Dal 1996 al 2019 ho lavorato per il Parco Nazionale Val Grande. Trasferitomi nel dicembre 2019 all’ombra delle Dolomiti Bellunesi, oggi mi occupo di politiche per la sostenibilità. Ricercatore storico, biologo e guida escursionistica ambientale, da trent'anni studio la cultura e le tradizioni alpine. Tra i miei libri ricordo gli ultimi: "A passo di vacca. Dalla Val Grande alle valli Ossolane con Antonio Garoni (1842 -1921), la guida alpina che tracciò il sentiero Bove", Azimut, Verbania, 2018 (seconda edizione ampliata e aggiornata 2019) e "Cicogna ultima Thule", MonteRosa edizioni, Gignese, 2020.


Il mio blog | "A passo di vacca" è la mia filosofia del camminare, ovviamente lento, osservando quello e quelli che incontro lungo strade e sentieri. Questo blog raccoglie pensieri, racconti e frammenti di storia, editi e inediti, dedicati a terre e acque lepontine, tra lago Maggiore e valli ossolane.
Link al blog

1 commenti:

  1. Pietro Pisano ha detto:

    Bravo Fabio, come sempre sei profondo e preciso nelle tue ricerche e negli scritti che proponi. Un grande grazie anche a Teresio, magistrale conoscitore dell’antropologia alpina della Val Grande. Fine e inarrivabile scrittore che si caratterizza sempre per la sua disponibilità e modestia.

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