Reportage

Wapta Traverse, Canada

Cinque giorni di attraversata scialpinistica sul ghiacciaio Wapta, tra lo Yoho e il Banff National Park. "Una cosa molto divertente che non farò mai più".

testo di Simonetta Radice, foto di Marco Favero e Simone Accornero

14/01/2018
10 min

Fino a quando non ho messo piede in aeroporto, non ho mai pensato di partire veramente per questo viaggio. Avevo la quasi certezza che fosse qualcosa di superiore alle mie capacità. Una parte di me vorrebbe sempre mettersi alla prova, testare i propri limiti, alzare l’asticella, partire con la voglia di addentare la carne dell’orso. Un’altra col cavolo. Andare al cinema, leggere sul divano, fare una gitarella al rifugio e mangiare la polenta. La mia vita è un estenuante dialogo tra queste due parti e quando la prima convince la seconda di solito cominciano i guai. La prima convince molto spesso la seconda, devo dire.
Questa volta la trattativa è andata per le lunghe ma alla fine lo Shackleton dei poveri che c’è in me ha vinto. Ha vinto ai punti, ma ha vinto. Ho capito subito che non ero minimamente attrezzata. Sci e attacchi troppo pesanti, non avevo un piumino, non avevo uno zaino comodo, non avevo dei pantaloni adeguati, nemmeno delle calze abbastanza calde. Nemmeno un borsone per portare tutto, insomma niente o quasi. Ho iniziato a comprare un po’ di queste cose dicendomi che in ogni caso mi servivano. Fare shopping mi ha distratta dai pensieri nefasti che avevano colonizzato la mia mente: sarei finita sotto una valanga? dentro un crepaccio? Crollata esausta il primo giorno? Persa nel whiteout? e tanti altri pensieri motivanti.

I miei compagni di viaggio, Silvia, Simone e Marco, decisamente più avanti di me a livello alpinistico, mi hanno incoraggiata fino a pensare che forse ce l’avrei fatta. Ci siamo conosciuti tutti online, ma online ormai è un posto come un altro. Abbiamo fatto diverse uscite insieme prima di partire, lavorando su dislivelli più lunghi e portando degli zaini più pesanti del solito. Alla fine ci sentivamo quasi pronti.

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Il Wapta Traverse, Canada, sono cinque giorni di sci alpinismo da rifugio a rifugio sul ghiacciaio Wapta, tra lo Yoho e il Banff National Park. È la haute route d’oltreoceano, tecnicamente molto più facile di quella nostrana. “Adatto a chi ha poca o nessuna esperienza alpinistica”, dice il sito dell’Alpine Club of Canada, e questa frase sarà il mio mantra nei tanti momenti di sconforto pre partenza (una volta là sarò troppo impegnata a sopravvivere per ricordarmene). Credo che questo viaggio sia quanto di più simile a una “spedizione” abbia mai fatto nella vita. I rifugi del Wapta Traverse sono attrezzati ma non sono gestiti. Ergo, oltre alla normale attrezzatura alpinistica, serve portare sacco a pelo e cibo per 5 giorni. I dislivelli giornalieri sono però molto contenuti (non arrivano mai a mille metri) e le distanze pure (quasi mai oltre i 10 km).

Leggere le relazioni americane e canadesi è bellissimo. Alcune dicono che le pelli sono utili, ma potresti cavartela con una buona sciolina da fondo (!); altre che in discesa dal Balfour High Col (l’unico tratto che presenta qualche pericolo oggettivo) è bene sciare legati per il pericolo dei crepacci (addirittura?), altre ancora che un paio di ramponi per cordata bastano (e gli altri? Mah).
Una cosa però l’avevamo capita già da qui e si è rivelata vera: questo non è il Canada delle grandi discese, il Wapta traverse è un vero e proprio viaggio sugli sci, dove attraversare incredibili deserti bianchi, laghi, boschi e ghiacciai e, se si ha fortuna con il tempo, godere di un po’ di sana polvere abbandonando gli zaini ai colli che permettono di salire brevemente sulle cime più vicine (Mount Gordon, Mount Thompson, Mount Olive, Mount St Nichols).

Siamo partiti il 9 aprile 2017, ma l’anno scorso le condizioni erano decisamente invernali. C’era tantissima neve (un paio di metri circa sopra il ghiacciaio) e, fino a poche settimane prima che arrivassimo, l’attività valanghiva spontanea aveva registrato picchi eccezionali a causa di “uno strato persistente debole” che non era previsto si stabilizzasse fino al disgelo (!) – I bollettini erano decisamente preoccupanti e moltissime persone avevano rinunciato alla traversata, abbiamo scoperto poi.
Le previsioni del tempo in Canada non sono affidabili, nemmeno nel breve periodo. Non per la nostra esperienza, quanto meno. I giorni che dovevano essere belli sono stati i peggiori e viceversa. Quindi abbiamo semplicemente fatto il giro seguendo le tappe stabilite e prendendo quello che veniva, senza farci troppi problemi. Il GPS è stato fondamentale muovendoci senza guida. Su cinque giorni, due e mezzo sono stati di bel tempo, gli altri molto meno. Il witheout è una specialità locale che va assaggiata, e direi che ne abbiamo avuto anche troppo, soprattutto dove non doveva esserci, sul Balfour High Col, il punto che in teoria richiede la visibilità migliore.

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LA TRAVERSATA

Giorno 1 (#maperché)
Siamo partiti con tempo discreto. Abbiamo lasciato l’auto sull’Highway 93 e dal parcheggio ci siamo subito infilati in un bosco. Apri gli attacchi, chiudi gli attacchi, metti le pelli, togli le pelli, dopo un po’ di questo simpatico esercizio su neve ghiacciata, decidiamo che la cosa migliore è togliere gli sci, e tanti saluti. Il bosco porta  ad attraversare il Peyto lake, che si estende per circa 3 km e mezzo. Passato il lago ci si infila in un piccolo canyon dove è necessario guadare un torrente, niente di complicato per fortuna. A questo punto le relazioni sconsigliano di proseguire lungo il canyon e suggeriscono piuttosto di risalire la ripida morena sulla destra.

“Ma no, noi non dobbiamo salire lassù, sono le tracce di gente che ha voluto fare quella cima”, dice Simone guardando il GPS. Sospiro di sollievo, pensavo già che con quello zaino – subito battezzato “il mostro” – non ce l’avrei mai fatta. Il sollievo però dura poco: “Ehm, no, bisogna salire proprio da lì, ma non è poi così ripido”.

Era davvero così ripido e in un punto, tolti gli sci, mi sono ritrovata a piantare le mani nella neve a mo’ di piccozze. Simone ha fatto più volte il servizio trasporto sci quando proprio non ce la facevamo più e a lui va un sentitissimo ringraziamento.
Dalla cima della morena siamo scesi poi al Peyto Glacier. Era praticamente l’unico tratto di discesa della giornata, ma talmente poco ripido che ho deciso di non togliere nemmeno le pelli per risparmiare energia, lasciandomi semplicemente scivolare a spazzaneve in modalità powersave. Dopo aver attraversato il ghiacciaio, mentre le condizioni meteo volgevano decisamente al peggio, abbiamo affrontato l’ultimo e faticoso tratto del percorso che ci ha portato, battendo traccia, a risalire finalmente al primo rifugio (il Peyto Hut), ormai nella bufera e nel whiteout. Avevo sottovalutato l’influenza del peso dello zaino sul livello di stanchezza. A fine giornata avevo letteralmente la nausea per lo sforzo fatto, ma ero anche molto felice di aver superato tutto sommato discretamente quella che almeno secondo le relazioni era la parte più faticosa. Io e Silvia abbiamo compilato ogni giorno il diario di bordo, scegliendo un hashtag riassuntivo della giornata. Dopo un paio d’ore di whiteout “on top” su tutto il resto, l’unica cosa che siamo riuscite a partorire è stato #maperché.

Risalita Tomson e discesa al Balfour.
Risalita Tomson e discesa al Balfour.

Giorni 2 e 3 (#chiediallapolvere)
I due giorni successivi sono stati i più belli, il tempo era abbastanza buono – ha sempre nevicato in realtà, anche quando c’era il sole –  e siamo riusciti a salire e sciare il Mount Thompson senza gli zaini, godendo finalmente la polvere e assaporando gli spazi sterminati del grande Nord. Faccio scialpinismo da poco tempo e della polvere avevo sempre e solo sentito parlare. Tutto sommato pensavo che non esistesse nemmeno. Finalmente l’ho provata. Credo che sciare nella polvere sia quello che più si avvicina alla mia idea di felicità. Lo ammetto, signori della corte, la sciatrice da pista mai sopita che c’è in me ha desiderato un elicottero, sì, un elicottero che me ne facesse scendere altre dieci di cime così, e ciao ai fair means, altroché. Ma invece dell’elicottero, scesi dal Mount Thompson ci aspettavano solo gli zaini che reclamavano di essere sollevati.  Si riparte quindi, e in breve si raggiunge il Bow Hut, il rifugio più grande, dotato anche di stufa a legna. Molte persone si fermano più notti al Bow Hut per salire le cime nella zona. È decisamente una valida alternativa alla traversata completa e un po’ abbiamo rimpianto di non aver fatto così.

Il tratto dal Bow hut al Balfour Hut, prevista per il terzo giorno, è facile e tranquillo. La giornata con un tempo che si è rapidamente volto al bello ci ha permesso di salire al Mount Gordon, con un altro emozionante giro di polvere e Simone e Silvia hanno deciso di fare anche il Mount St Nichols, con piccozze e ramponi. La semplice discesa al Balfour hut dà perfettamente l’idea di quanto sia difficile curvare con “il mostro” sulle spalle. Evito il pendio più ripido perché mi rendo subito conto di non essere capace di curvare e mi infilo ignominiosamente nella traccia di salita, controllando gli sci il minimo indispensabile.
“Guarda che è perché non hai stretto bene lo zaino”
“No, guarda che è perché non sono capace!”

Il rifugio Balfour è forse il più bello. Non troppo grande, non minuscolo, ci regala un tramonto spettacolare e un’ottima visuale sul Mount Balfour e il percorso che dovremo fare il giorno dopo. Arrivare al rifugio, sciogliere la neve, infilare calze e ciabatte (più o meno asciutte) e non avere nulla da fare per il resto della giornata è un’altra cosa molto simile alla mia idea di felicità.

Penso che vorrei fermarmi qui, a gestire questo rifugio nel mezzo del nulla, preparare il tè per chi arriva e guardare gli ultimi raggi di sole accarezzare la cima scintillante del monte Balfour. Nella notte, qualche tuono di valanga in lontananza. Dopo queste giornate, l’aver fatto questo viaggio sembra finalmente una buona idea.

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Giorno 4 (#peoplediethere #witheout #apritisesamo)
Il quarto giorno saliamo finalmente al Balfour High Col, per raggiungere lo Scott Duncan Hut. È il passaggio che gli americani chiamano “the crux”, il passaggio chiave insomma, perché attraversa un’area crepacciata e la traccia passa abbastanza vicina a una serie di seracchi. “People die there!” è l’incoraggiamento di un signore canadese al rifugio, ma guardando l’area crepacciata non sembra tanto diversa da quella vicino alla capanna Ginifetti, per dire, e la neve è davvero tanta. Partiamo fiduciosi, è presto, la temperatura è bassa, l’alba è promettente le previsioni dicono che il tempo sarà buono (sbaglieranno, sbaglieranno tutto).

Vediamo diverse persone legarsi direttamente al rifugio. Sciare legati però è davvero orribile se non strettamente necessario, quindi decidiamo quanto meno di avvicinarci alla terminale e capire meglio la situazione.
Cerchiamo di passar via veloci i punti più vicini ai seracchi, di crepacci nelle vicinanze nemmeno l’ombra (esclusi quelli più ovvi), c’è tanta, troppa neve. La visibilità intanto peggiora rapidamente. “People die there!” risuonano le parole del signore canadese ma in ogni caso non sembra una situazione particolarmente pericolosa (sarà che non si vede nulla?).

“Ma dov’è la terminale?” dico a un certo punto. “L’abbiamo già passata, siamo al colle!”

Ottimo! In pratica arriviamo in cima al colle senza esserci mai legati e in condizioni di visibilità pessima, esattamente il contrario di quanto le relazioni consigliano di fare. Ormai comunque non ha senso tornare indietro e i crepacci sono chiaramente chiusi da metri di neve. Peraltro, una volta arrivati al colle, il tempo migliora rapidamente e in pochi minuti uno splendido sole… ma no dai, scherzavo. Una volta al colle, gli elementi si scatenano in tutta la loro furia: tira vento, nevica e la visibilità è praticamente pari a zero. Hai voglia a dire “Apriti sesamo”, non si apre proprio niente e da qui in poi sarà pura navigazione strumentale. Il pendio per fortuna è poco ripido, sciamo seguendo i GPS (indispensabili!) e stando sempre tutti a vista. In breve raggiungiamo un altro gruppo di sciatori che scende l’altro lato del pendio. La grandiosità del paesaggio si può solo intuire vagamente, ed è un vero peccato.

Dopo una lunga e per fortuna dolce discesa (ci mancava solo un bel ripidone), riusciamo finalmente ad avvistare nella nebbia lo Scott Duncan Hut. È in alto, molto più in alto rispetto a noi, bisogna rassegnarsi a ripellare e a salire lentamente l’ultimo pendio mentre la bufera regala frizzi e lazzi assortiti. Il rifugio è molto piccolo (12 posti) e non particolarmente confortevole, la neve entra dalla fessure della porta fin dentro il bivacco; andare al bagno (esterno) richiede un gesto di coraggio estremo e la voglia di batter traccia (con gli scarponi o con le ciabatte, a seconda del grado di disperazione) e ci concediamo un torneo a briscola e a scopone scientifico aspettando l’ora del tè.

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Giorno 5 (#shittysurvivalskiing #lamorte e altro torpiloquio a piacere)
La mattina dell’ultimo giorno non parte bene per me. Ho la nausea e sono stanca, credo di non aver digerito la cena. Probabilmente sarebbe stato meglio se mi fossi fermata un giorno in più al rifugio, anche perché il tempo è pessimo. Alla fine decidiamo comunque di partire, sperando in un miglioramento che troveremo in realtà solo molto più in basso.

C’è quella luce orribile, che appiattisce ogni pendio e non permette di distinguere nulla… e infatti finisco subito a terra, più e più volte. Secondo la relazione, la giornata odierna è tutta in discesa, e questo è comunque confortante… ma non sarà così. Vuoi per le condizioni decisamente invernali, vuoi perché non conosciamo per nulla il luogo, ci ritroviamo a pellare quasi subito. Fermarsi a pellare – vorrei ricordarlo – vuol dire abbassare lo zaino, togliere gli sci, togliere i guanti, congelarsi le mani, attaccare le pelli, girare gli attacchini, litigare con gli attacchini per rimettere gli scarponi, sollevare lo zaino e ripartire. Non sarà l’unico cambio assetto, ne faremo un altro per aggirare in maniera più sicura quello che sembra un grosso crepaccio, nei pressi del mount Nile e svariati altri più in basso, in una zona di saliscendi che non è mai chiaro come sia meglio tenere gli attacchi. Intanto la neve è brutta, crostosa, la polvere dei giorni scorsi è ritornata nel mondo delle idee astratte e si fa davvero fatica a girare gli sci.

“Ma fino a qui dovevamo venire per trovare la crosta?”
Shitty survival skiing, direbbero gli americani.

Mi esibisco in una serie di spazzaneve vergognosi, cado in continuazione, sono stanca e faccio fatica sia in salita che in discesa. Peraltro il fastidio allo stomaco non passa e non riesco a mangiare nulla. A un certo punto raggiungiamo finalmente la linea degli alberi e la visibilità migliora. Vediamo addirittura dall’alto lo Sherbrooke lake, che più tardi dovremo attraversare. Il più sembra fatto, ma la giornata sarà ancora lunga. Mai pensare “il più sembra fatto”. Mai dimenticare le tre regole dell’alpinismo: “it’s always further than it looks, it’s always taller than it looks and it’s always harder than it looks”. La discesa nel bosco è relativamente breve ma assai ripida, poi un lungo tratto più o meno i piano porta finalmente il lago e attraversato velocemente il lago, c’è l’ultimo, lungo, e a questo punto per me estenuante, saliscendi nel bosco.

“Ma Bonatti non aveva mai momenti di sconforto?” dice Silvia che pure è molto meno a pezzi di me. E su questo interrogativo, dal bosco, a un certo punto iniziamo a sentire, con sentimenti contrastanti, i primi rumori della strada. In breve usciamo dal sentiero e ci troviamo subito dietro il Great Divide Lodge, catapultati nella civiltà. Prima ancora di pensare alcunché veniamo investiti da un bel diluvio universale, che poi diventerà neve e poi ancora sole… end of the game, sono le 18,30 e siamo in giro dalle 11, l’unica cosa che riesco a pensare è “Basta, basta”. Un finale poco edificante e poco eroico, mi rendo conto.

CONCLUSIONE

Ci sono stati momenti d pura gioia e altri di pura fatica. Come nella vita, insomma. Non ho mai avuto paura e non mi sono sentita mai in pericolo, nemmeno nella bufera, nemmeno nel whiteout, nemmeno sul Balfour High Col dove la gente muore, o quando mi sono messa a piangere l’ultimo giorno dopo l’ennesima caduta nel bosco. Di questo, oltre che di avermi dato la necessaria iniezione di fiducia per partire, non posso che ringraziare i miei preziosissimi compagni di viaggio, per i quali spero di essere stata una compagnia sopportabile (Una ola per Simone: guida, sherpa, icefall doctor, navigator e chi più ne ha più ne metta). È stato un vero viaggio sugli sci, seguire la forma delle valli, aggirare le montagne, salirle anche, ma in fondo le sciate erano solo un di più. Il giorno dopo l’uscita dal Wapta Traverse, per rilassarci, abbiamo fatto una quindicina di chilometri di saliscendi nel bosco, tra neve, sole, silenzi e tè caldi in riva al fiume. Credo che dopo questo viaggio posso dire di aver imparato a convivere con la fatica. “Che uomo sei se non fai un po’ di fatica, dai” diceva Mario Curnis quando lo conobbi lo scorso anno. Magari non è molto, ma a me piace.

Simonetta Radice

Simonetta Radice

Giornalista pubblicista, addetta comunicazione. Da sempre amo la montagna e tutto ciò che ha a che fare con essa. La libertà è un poco al di là delle tue paure. Vivo tra Milano e Gignese (VB).


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