Reportage

#17 SPATZLE E PARETI

Ricetta di una scalata Dolomitica

testo e foto di Marco Zanchetta  / Carnago Varese (VA)

27/11/2020
8,5 min
Il Bando del BC20

Spatzle e pareti

di Marco Zanchetta

Partiti! La Clio macina chilometri di asfalto rovente lasciandosi alle spalle Milano. La A4 è un deserto sia per le temperature sia perché è il 2 agosto.

Siamo in tre sulla rossa: io, Edo e, sul sedile posteriore, cinture ben allacciate, il suo haul bag da 70L. L’abbiamo sistemato lì perché il baule è stracolmo: corde, moschettoni, vestiti a caso, tenda, tavolino, sedie e tanto tanto cibo. Sì, non voglio che il giovane al mio fianco mi azzanni un polpaccio preso da una crisi di fame. Ma lo spazio maggiore sulla Renault è occupato da grandi progetti, ambizioni e sogni verticali.

Dolomiti stiamo arrivando! Sono così carico che le quattro ore con le chiappe incollate al sedile non mi pesano. Mi sento un bambino in attesa dei regali di Natale… Cavolo! L’uscita di Egna-Ora mi passa sulla destra a 110 km/h (o forse più?). Non importa, l’obiettivo di oggi è solo arrivare a destinazione; dopo mille tornanti e valichi a me ignoti, il motore smette di ruggire a Pozza di Fassa. Non soddisfatti delle scorte portate dalla pianura commettiamo un errore da dilettanti: fare la spesa da affamati.

Un carrello pieno e due sgommate dopo, siamo all’imbocco del sentiero della Vallaccia. Si presenta puntuale una costante delle nostre avventure 2018: la pioggia, o meglio, i temporali. Sul podio ricordiamo i 300 metri di calate dalla parete del Qualido sotto l’acqua e la ritirata dalla Nord della Presolana con tanto di grandine.

Pochi istanti passano dalle prime gocciolone all’apertura delle cascate celesti e alla successiva caduta di noci di ghiaccio. Come marinai in balia della tempesta guidiamo o, meglio, guadiamo fino a quello che sembra un ristorantino aperto. La tattica è entrare per mangiucchiare qualcosa e, sfruttando la nostra simpatia e facendo leva sulla carità altrui, chiedere uno spazietto per i nostri sacchi a pelo. Siamo entrambi universitari e una camera sarebbe troppo per le nostre tasche, ormai rosicchiate da due mesi di scalate vagabonde per le Alpi.

Testa o croce per chi scende dalla macchina in mezzo alla tempesta per chiedere. Perdo. Giacca ben chiusa e con tre salti sono dentro. Il locale è stupendo, tanto legno e cura trentina per i dettagli; mi sento a casa. Solo la proprietaria dietro al bancone, alla quale pongo la mia richiesta con aria compassionevole. Risposta negativa, con questo tempo sono chiusi, ma capendo la mia necessità indica fuori dalla finestra. Mi volto e vedo una chiesina sulla strada. «Là potrete stare tranquilli, di solito è aperta e la luce è accesa».

Neanche il tempo di dirlo a Edo che siamo già accampati sulla navata centrale. Sotto lo sguardo perplesso dei santi trasformo il sagrato in una cucina. Gli spatzle si tuffano nell’acqua bollente per poi abbracciare la panna e lo speck. La fame e l’atmosfera li rendono divini. 500 gr. in due, senza contare i condimenti, almeno per questa notte il leone Edo sarà tranquillo e, così, anche io.

Dopo l’ennesima sconfitta a scopa decido che è meglio scivolare nel sacco a pelo.

Un colpo sordo ci sveglia, è la scopa che il mio scaltro compagno ha appoggiato alla porta. Ignara di tutto, entra una signora con tanto di fiori in mano. Al posto di farci un quarto grado si scusa infinitamente e, dopo averci scavalcato per cambiare tutti i vasi, ci saluta amichevolmente. Guardo l’ora… sono le 5.30! Per rispetto del luogo trattengo qualche simpatica parola e preparo la colazione.

L’alba è splendida e, pagato l’ottimo pernotto nella cassetta delle offerte, prepariamo gli zaini per due giorni di avventura. Un’ora di fangoso sentiero ci porta al bivacco Zeni, tornato alla sua funzione dopo essere stato vetrina di un noto marchio di abbigliamento.

Scarichiamo tutto dentro alla rinfusa e siamo già imbragati alla base della parete. Oggi proviamo la “Via dei 5 muri”, linea che mi aveva attratto sfogliando una rivista. Sarà il nostro test d’ingresso in Dolomiti. Parto sul primo tiro e intuisco qualche regola di questa scalata. Le prime sono seguire l’istinto, il facile nel difficile e la bella roccia. Le altre le scoprirò salendo. Il secondo tiro è fradicio e non capiamo dove passare. Edo accenna un paio di tentativi sulla destra e poi mi cede il testimone. Benedetto dalle acquasantiere dove affondo le mani, esco dal primo strapiombo sulla sinistra e guadagno la sosta. Gli altri tiri scorrono goduriosi su una roccia eccezionale, alla faccia di chi definisce le Dolomiti “marce”! Si rivela invece proprio così il sentiero di discesa che tra pietre instabili, canaletti umidi e ghiaioni ci riporta al fiammante bivacco.

Da lontano vedo sbucare due sagome dalla porta e spero siano simpatici o, meglio, simpatiche.

Sono una giovane coppia saliti per scalare l’indomani. Dopo le dovute presentazioni passo all’esigenza primaria: sfamarci. Il menù del giorno prevede 250 gr. a testa di ravioli in brodo, serviti in due turni a causa della pentola troppo piccola. Dopocena, tra chiacchiere e carte al lume di candela, propongo a Edo una via di cui avevo sentito ben parlare, lo carico un po’ leggendo un racconto e gli mostro la relazione. E’ gasato almeno quanto me e accetta ingenuamente senza sapere cosa lo aspetta… nemmeno io in realtà. L’ennesima sconfitta inferta dai Bergamaschi ci fa optare per il letto. Uno sguardo alla stellata magnifica, alla parete illuminata dalla luna, alle luci del paese laggiù e la porta si chiude cigolando. Chiudo la zip del mio bozzolo e parte la danza dei pensieri. Penso alla via di oggi; ad ogni tiro, ad ogni passaggio e ad ogni appiglio. Penso a domani; ripercorro la linea studiata sulla carta, penso al materiale da portare e che ne abbiamo la metà di quello indicato. Non riesco a prendere sonno. Sarà colpa della cena troppo leggera offerta dal signor Rana? Oppure di quella frase che non mi si toglie dalla mente? “Paragonata alla via del Pesce, è stata giudicata da alcuni ripetitori più difficile”. Questa è l’introduzione alla via scritta da un’autorità dell’alpinismo. Un confronto con la via “Attraverso il Pesce” in Marmolada! Un capolavoro per bellezza e difficoltà che, un giorno, mi piacerebbe ripercorrere.

La digestione e la stanchezza hanno la meglio e crollo fino alla sveglia delle 8.

I nostri coinquilini sono già in corsa verso la vetta. Due battutine motivazionali al mio socio pigrone e siamo in piedi. Un ottimo caffè solubile, manciate di biscotti, uova sode, pane e marmellata sono la perfetta colazione. Un momento così fondamentale per Edo che, ad ogni uscita, è diventato propiziatorio chiedergli: «cos’hai mangiato questa mattina?» La risposta mi stupisce sempre per quantità e varietà. Ogni volta mi si apre lo stomaco ripensando al mio tè accompagnato da due tristi fette di pane velate di marmellata.

Prepariamo il materiale come fosse un rito sacro misto ad un mercato di paese.
Io: «2 friend gialli, 8 rinvii… martello e chiodi?».
Edo: «Porta, non si sa mai».
Io: «Va bene, anche se non li ho mai usati… Barrette?»
Edo: «Porto solo queste».
Io: «Saranno una decina! Ti basteranno?»

Pochi passi ci separano dall’attacco della via. Giornata stupenda, esposizione nord-ovest, si sta benissimo. Coerente in ogni gioco, perdo anche a testa o croce vincendo così il primo tiro. Complici i solidi spit e la difficoltà non elevata, i metri scorrono veloci sotto le scarpette e. acchiappando dei ciuffi d’erba bagnata, guadagno la sosta. Aspettando Edo, scatto due foto ai Berghem 50 metri a destra di noi.

Alziamo la testa e non vediamo altro che roccia compatta. Un muro perfettamente verticale a buchetti incombe su di noi. Estraggo la relazione, la ingrandisco con gli occhi, la giro e rigiro, ma quella clessidra indicata sulla carta in parete non si vede.
Positivo esclamo: «Sarà nascosta in quel diedro, vai tranquillo…»

Non troppo confortato il mio pavido compagno traversa in cengia e lascia per qualche metro la sicurezza del praticello in fiore, ancora un paio di passi e retrocede alla casa base. «Io non ho visto nulla, prova tu!». Mi armo di coraggio, materiale da carpentiere, e parto. Dopo 10 metri a destra inizio a salire seguendo una teoria di buchi spettacolari. Quando ormai le violette della cengia non si distinguono più, metto una protezione. Quel friend giallo mi strappa un ironico sorriso, so che è una protezione solo psicologica. L’effetto placebo funziona e salgo ancora verso qualcosa che pare un cordino. Lo raggiungo, sono 15 metri sopra la sosta con due buchi discreti tra le dita, il chiodo è proprio davanti a me ma il cordino è tranciato e lo sfilo lanciandolo nel vuoto. Estraggo dalla tasca dei pantaloni un kevlar aperto, frutto dell’esperienza del giorno precedente. Il chiodo è un pezzo di tubo con due piccoli fori e centrarli con una sola mano è un’avventura. Tra un tentativo e l’altro rilasso le braccia e, alla fine, faccio centro! Il secondo step è fare il nodo. Sono stanco e sudaticcio, una gamba inizia a tremare, subito imitata dall’altra. Un bel respiro, tuffo le mani nella magnesite e rallento il battito. In aiuto alla mano arrivano i denti a chiudere quel maledetto nodo. Salvo!

Con l’adrenalina a mille danzo fluido fino al chiodo successivo che estraggo senza sforzo dalla terra per poi rimetterlo al suo posto. Ottimo, penso tra me.
La parete perde verticalità e raggiungo la salvezza della cengia. Esco dalla mia bolla di emozioni e urlo «Soooosta!»
Mentre recupero le corde mi guardo attorno, non penso a nulla, gli occhi corrono da una parete all’altra, ai verdissimi prati sotto di noi e al cielo puntellato di meringhe all’orizzonte.

La bellezza della scalata ha aperto lo stomaco all’alpinista di Lissone che, con mezza barretta cocco e cioccolato in bocca, mi farfuglia qualcosa. Intuisco che mi passa il comando e gli rubo il materiale dall’imbrago. Ancora roccia stupenda, verticalità assoluta e qualche sporadico chiodo o clessidra. Da ingegnere mi stupisco per l’abilità di come siano piantati; a volte accoppiati tra loro o bloccati da pezzetti di legno. Mi fido della loro tenuta ma nel dubbio stringo un po’ di più quella tacchetta con la mano destra e quel buchetto di sinistra.

Tra un colpo al cuore e l’altro, il rosso bivacco si rimpicciolisce; sale l’adrenalina, cresce la concentrazione richiesta e con essa la stanchezza. Salgono anche le nuvole, non più così candide ed innocenti.

Ultimo tiro, ultimi sforzi e ultimi metri di roccia instabile mi accompagnano in vetta! La blu e la gialla scorrono rapide al ritmo sostenuto di Edo. 350 metri di tensione scorrono lungo la mia schiena fino alla punta gommata delle scarpette come fossi un parafulmine. Smezziamo una CLIF bar al mirtillo, due foto con facce sobrie e ci stringiamo la mano. Un gesto che mi piace sempre per ciò che racchiude: amicizia, soddisfazione, fiducia, legame con la natura, stima reciproca e mille altre sfumature.

Siamo elettrizzati almeno quanto le nuvole sopra di noi! Dov’è finito il Catinaccio? Un muro d’acqua lo nasconde e punta verso la nostra direzione. «Inizia a scendere! Sistemo le corde e arrivo». Ripercorriamo la discesa del giorno prima: canalino marcio, ometto, crestina e giù dritti nel ghiaione ignorando la traccia ufficiale. Arriviamo allo Zeni con le suole roventi e riempiamo gli zaini con meticoloso disordine. Corriamo tra mughi e abeti, e saltiamo in macchina appena prima del diluvio. Rapidità o semplicemente fortuna?

Azzannando il mitico polletto di Klaus con patatine croccanti guardo davanti a me. Dietro a un piatto di sole ossa c’è Edo, lo guardo e mi rivedo. Entrambi sbarbatelli, pieni di magnesite, gli occhi rossi per la stanchezza e la disidratazione ma soprattutto sprizzanti di gioia e soddisfazione. Mi guardo attorno; altra gente mangia panini e beve birra. Inizio a tornare con i piedi a terra e vorrei raccontare in che mondo siamo stati nelle ultime 48 ore.

Nell’attesa di un panino di rinforzo ripensiamo alla giornata. Ci interroghiamo riguardo a quel biglietto ritrovato nel bivacco: “Bravi, re di bastoni”. Dopo qualche supposizione, cediamo all’aiuto di internet ma poco importa il pensiero degli altri. Solo noi abbiamo vissuto questa giornata, perfetta così. Siamo vivi.

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foto:
1. In vetta: stanchi, felici e affamati.

2. Edoardo perso in un mare di roccia.
3. Ultimo tiro con bivacco alle spalle.

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Marco Zanchetta

Marco Zanchetta

Sono Marco, originario delle colline Varesotte ma mi sento a casa in ogni valle, bivacco e sotto a un cielo stellato. Amo la montagna e la vivo tramite arrampicata, alpinismo e trail running. Scalare ed esplorare vanno di pari passo e nutrono la mia curiosità. Da ingegnere mi piace anche l'aspetto tecnico e i materiali ma resto comunque un romantico. Mi piace scrivere e dipingere il mondo verticale.


Il mio blog | Non ho un blog/pagina digitale, eleggo altitudini.it come la mia rivista digitale. Altitudini mi piace perchè è aperto a tutti, ognuno vede e vive la montagna da un versante diverso e qui può condividere le proprie esperienze.
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