Reportage

#22 BATTESIMO DI GHIACCIO

testo e foto di Irene Massera  / Parma

01/12/2020
8 min
Il Bando del BC20

Battesimo di ghiaccio

di Irene Massera

Quando devi passare così tanto tempo chiusa in casa, senza poter uscire nemmeno per una corsetta, inizi a sognare ad occhi aperti e a promettere a te stessa che non appena tutto sarà finito, o quasi, la prima cosa da fare sarebbe stata partire per un’avventura, che ronzava nella testa da un po’, in attesa di essere portato a compimento, con tutte le aspettative del caso.

Questa avventura aveva come obiettivo il raggiungimento della Capanna Margherita a Punta Gnifetti, nel gruppo del Monte Rosa. Un desiderio nato qualche anno fa, considerato quasi impossibile o se non altro molto difficile, reso improvvisamente più vivido l’inverno scorso, grazie a una persona che la montagna te la fa vivere a 360°, con una tale intensità da farti girare la testa.

P. è un’anima nata in pianura, ma fatta per vivere in montagna, in modo libero e spensierato, che non puoi in nessun mondo incatenare nella routine di tutti i giorni; persino i suoi pensieri e le sue idee viaggiano talmente veloci da portarti già a 4000 metri solamente parlando. Purtroppo l’inverno è stato brutalmente troncato da questa terribile pandemia e quel sogno, che era sembrato finalmente così vicino, si era allontanato di nuovo, insieme a P. Ma se c’è una cosa che l’isolamento mi ha insegnato è che se voglio davvero qualcosa devo andarmela a prendere, senza aspettare che siano gli altri a portarmela. Detto fatto. Alla fine di agosto, io e altri cinque amici, insieme alle Guide della Pietra di Bismantova, ci stavamo preparando per salire a Punta Indren con gli impianti. Da lì sarebbe iniziata l’avventura.

La mattina della partenza il meteo si presentava avverso, le previsioni davano temporali per tutto il giorno, con poche speranze di restare all’asciutto; le Guide stavano già per posticipare la partenza, quando un’insperata finestra di bel tempo ci ha consentito di partire per l’orario previsto. Dopo essere saliti con i tre tronconi di impianti, ci siamo incamminati per la prima parte di facile salita verso il Rifugio Mantova, attraverso quello che rimaneva del ghiacciaio Indren, ormai così ritirato da non richiedere nemmeno l’utilizzo dei ramponi.

Dopo una sosta al Mantova, è stato il momento di indossare l’attrezzatura da ghiacciaio, per prendere confidenza con picca, ramponi e, soprattutto, il fatto di essere legati in cordata. Ogni Guida si era legata con altre 4 persone; io e altri 3 amici ci siamo legati con Luca “Becca” Beccari, scialpinista dal passo deciso, che ci ha soprannominati la “cordata dei Freerider” (grazie al cappellino Black Crows del mio amico).

La salita alla Capanna Gnifetti era ormai abbastanza breve, distando soltanto mezz’ora dal Rifugio precedente, alle 4 di pomeriggio avevamo già sistemato gli zaini nelle camerate da 8 della Capanna, pronti per sorseggiare la prima birra della giornata a 3647 m, oltre ad ammirare un panorama mozzafiato su tutte le Alpi circostanti. Sì perché, nel frattempo, salendo di quota le nuvole si erano diradate, fino a lasciare il cielo completamente terso: il Monte Bianco e il Gran Paradiso si stagliavano maestosi di fronte a noi. Oltre al fatto di trovarsi nel bel mezzo di un ghiacciaio, la Capanna Gnifetti ha un’altra cosa veramente stupenda: una terrazza panoramica a quasi 360° sull’arco alpino. E lì, in quel momento, al tramonto del sole e al sorgere delle stelle, era già tutto meraviglioso. Tutte le preoccupazioni della vita quotidiana, la pandemia, l’ansia, le delusioni, in quel momento non ne rimaneva traccia; era tutto talmente distante, e il legame con la montagna così forte, che sembrava quasi di respirare per la prima volta. Una cosa che in quel momento mi ha colpita parecchio, è stata la completa assenza di rumore, di confusione, di frastuono: tutto ritorna al suo stato naturale, così semplice e allo stesso tempo così infinito.

Durante la cena (penso fosse parecchio tempo che non mangiavo così tanto) ci hanno spiegato come si sarebbe svolta la salita del giorno dopo. In quel momento, l’agitazione stava già crescendo per svariati motivi (oltre che alla pura eccitazione per l’indomani): chi per la sveglia (ore 3.30), chi per la paura di non farcela (circa 900 metri di dislivello su ghiacciaio con ramponi), e chi per la paura di avere il mal di montagna (qualcuno aveva già iniziato a prendere medicinali giorni prima della partenza). Per quest’ultimo in effetti non ero molto preoccupata, avevo molta fiducia nel mio fisico e nella mia testa; in più, io e un amico eravamo saliti in Valle d’Aosta due giorni prima rispetto agli altri, sia per acclimatarci che per approfittarne per fare un’escursione ai piedi del grande Re, sua maestà il Cervino. Escursione, o meglio ferrata, che avrebbe dovuto essere abbastanza tranquilla, mentre invece si è trasformata in circa 10 ore di cammino per più di 2000 metri di dislivello, toccando una quota di circa 3200 metri. Però alla fine il mal di montagna non l’ho avuto.

Ore 3.30: suona la sveglia. Penso di avere dormito si e no 2 ore, ma sono tutt’altro che stanca. In circa 10 minuti lo zaino è fatto e scendo a fare colazione, cercando di captare qualche eventuale sintomo del mal di montagna, che fortunatamente era assente. Dopo aver mangiato veramente tanto, scendo per indossare tutta l’attrezzatura. Da ultimi casco e torcia frontale, dato che sono le 5 del mattino ed è ancora notte. Mi lego in cordata con il Becca e i miei tre compagni e sono pronta. Inizia l’avventura. La partenza è subito esplosiva con un piccolo ma ripido tratto di ferrata in discesa, in cui bisogna scendere una scala di ferro verticale con i ramponi.

Un ottimo allenamento. Poi si parte sul ghiacciaio del Lys, facendo molta attenzione ad evitare gli evidenti crepacci e a non sostare sui ponti di neve, prima con passo blando, poi accelerando sempre di più, fino a diventare la prima cordata del gruppo (il Becca è parecchio competitivo). La prima parte di salita è illuminata dalla luna e dalla via lattea (oltre che dalle frontali) e ci permette di arrivare al Colle del Lys (dove è prevista la prima sosta) proprio nel momento esatto in cui sorge il sole. Inutile dire che lo spettacolo è qualcosa di inimmaginabile: colori infuocati e luce esplosiva, che piano piano si posano su Sua Maestà, rendendogli la giustizia che merita. Alla nostra destra si stagliano invece la vetta del Balmenhorn, culminante con la maestosa statua in bronzo del Cristo delle Vette, un’altra salita che vorrei presto affrontare, e la Piramide Vincent.

E quindi, proprio nel mezzo del Colle del Lys, ci fermiamo a fare merenda, per così dire: il Becca tira fuori una bella punta di parmigiano e la divide con tutti noi, sicuramente una carica in più per continuare la salita. Dopo poco ripartiamo, prima in lieve discesa e poi di nuovo in salita, per fortuna protetti dal vento gelido, ma con la neve che si fa sempre più profonda, obbligandoci a restare in traccia per non sprofondare fino al ginocchio. Man in mano che proseguiamo, si fanno evidenti le scariche di alcune valanghe, proprio sopra la traccia utilizzata fino a pochi giorni prima.

Il Becca ci fa anche notare la vicina Cresta dei Lyskamm, una via alpinistica tanto complessa quanto affascinante, fatta per gente dal passo fermo e mente solida e a sua detta ‘quella parete nord è perfetta da scendere con gli sci, ma piuttosto ripida’. E se lo dice lui. Proseguendo, notiamo la tenda arancione di due ragazzi piuttosto temerari che hanno passato la notte nel bel mezzo del ghiacciaio, a 4000 m, per poi proseguire il giorno dopo. Non nascondo che un po’ li invidio, magari la prossima volta. La salita si fa un po’ più ripida, ma inizia a comparire all’orizzonte, o meglio in vetta, la Capanna Margherita. E la fatica inizia a scomparire, riesco solo a pensare che ci siamo quasi, che il mio sogno si sta per avverare.

La Capanna si staglia arroccata su Punta Gnifetti; per arrivarci è necessario compiere un ultimo tratto in salita piuttosto verticale in conserva corta e con l’ausilio della picca. Per cui, prima di procedere, facciamo un’ultima pausa, per legarci tutti più vicini e approntare l’attrezzatura necessaria. In quel momento il compagno di cordata che già dalla partenza non si sentiva tanto bene, inizia a dare segni di cedimento. Fortunatamente il Becca lo sprona, promettendogli un tè caldo non appena arrivati in cima. Realizzata la conserva corta, partiamo per l’ultimo tratto, in modo piuttosto faticoso, perché la conserva è ‘davvero corta’ e il vento ora soffia parecchio forte.

Ore 8.20: ci siamo. Sto percorrendo gli ultimi metri che mi separano dalla meta. Il respiro si fa affannoso e no, non è per la fatica, è qualcos’altro. Non riesco a trattenermi e mi commuovo. Inizio letteralmente a piangere. In quel momento è davvero tutto perfetto. Il panorama che si apre dalla terrazza della Capanna Margherita è qualcosa di indescrivibile. La distesa di neve su quelle montagne così alte e maestose, fa sembrare di essere per davvero in cima al mondo e che tutto, lì, sia possibile. Il sole splende, le bandiere sventolano forte ai lati del rifugio; inizio a scattare foto all’impazzata, non so neanche da che lato girarmi prima. Poi, poso la macchina fotografica, e mi appoggio alla ringhiera della balconata respirando piano l’aria gelida: la meraviglia, lo splendore, la felicità.

Non appena tutte le cordate arrivano al Rifugio, entriamo, e, dopo esserci tolti ramponi e imbrago, ci sistemiamo ai tavoloni di legno: ordino una bella birra media per festeggiare, non senza lo stupore delle guide (ma fai spesso i 4000?). Alcuni si mangiano anche un bel pezzo di pizza, ovviamente margherita, la specialità del rifugio, una bella colazione rifocillante direi. Stiamo lì un’oretta a chiacchierare, bere e mangiare in compagnia, fino a che non è il momento di prepararci per la discesa (e per la foto di gruppo di rito). Sinceramente non me ne vorrei andare, ma la cordata parte, con me in testa oltretutto, e così lasciamo la Capanna Margherita (ma è solo un arrivederci).

Durante un’estate costellata di ansie, preoccupazioni, dubbi causati dall’inferno della pandemia di Covid-19, salire in alta montagna sembra quasi una delle poche alternative per ritornare in pace con sé stessi, almeno per un giorno o due; diventa quasi un processo naturale, non c’è fatica o paura, solo connessione con lo spazio che ti circonda, l’impressione è di essere esattamente dove devi essere e al momento giusto. Sembra quasi brutto da dire, ma in quel momento potresti essere con chiunque, l’unica cosa che conta è quello che senti dentro. E in definitiva, anche se spesso si dice “non importa la meta, quello che conta è il viaggio”, è un po’ meno vero (solo un po’) quando la meta è la cima del mondo.

Essere riuscita finalmente ad arrivare in cima, ammirare quello spettacolo, è stata davvero un’emozione incredibile per me. Detto così potrebbe sembrare banale, ma non lo è in effetti. Per tanto tempo ho creduto di non esserne capace, che non ci sarei riuscita, addirittura non l’avevo mai neanche preso in considerazione, pensando fosse una ‘cosa’ solo da alpinisti esperti e che avrei continuato a guardare quello spettacolo solamente in fotografia. E invece, ad agosto 2020, ero là, in persona, a più di 4000 metri, più viva e libera che mai. A respirare davvero, a guardare il mondo dall’alto con occhi diversi.

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foto:
1. L’arrivo di una cordata alla Capanna Margherita.
2. Una cordata transita nell’ultimo tratto pianeggiante prima di affrontare l’ultima ripida salita a Punta Gnifetti.
3. Il panorama che si ammira dalla famosa balconata della Capanna Margherita.

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Questa storia partecipa al Blogger Contest 2020.

Irene Massera

Irene Massera

Attualmente vivo a Parma e lavoro in uno studio di architettura. Pratico tanti sport, molti dei quali legati al mondo della montagna, grazie ai quali riesco a viverla a 360°. Esploro spesso posti nuovi e fare nuove esperienze, immortalando il tutto con la mia macchina fotografica, che mi porto ovunque.


Il mio blog | Non ho un blog/pagina digitale, eleggo altitudini.it come la mia rivista digitale. Trovo che Altitudini sia un bellissimo modo di dare spazio a storie e racconti legate alle terre alte, per viaggiare con l’immaginazione o per scoprire nuove persone e realtà.
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