Saggio

INFANZIA E ADOLESCENZA DELLO SCI

A un secolo e mezzo dalla sua timida comparsa in Svizzera, nessuno si chiede più se l’universo sciistico avrebbe potuto essere diverso, né si interroga sulle forze che hanno condotto alla sua attuale declinazione.

testo di Ledo Stefanini

Soci della Sezione CAI Feltre sui campi da neve del Monte Avena (13.3.1930) - archivio CAI Feltre
17/12/2025
15 min
L’immagine dello sci è giunta a maturazione, associata agli attrezzi, alla moda, alle piste, alle località, diffusa e sostenuta dalle televisioni, dal cinema e dai giornali.

A un secolo e mezzo dalla sua timida comparsa in Svizzera, nessuno si chiede più se l’universo sciistico avrebbe potuto essere diverso, né si interroga sulle forze che hanno condotto alla sua attuale declinazione.
A dispetto del fatto che la storia dello sci, a somiglianza di quella degli uomini, non si è svolta su una pista obbligata; ma è più simile a quella di una strada forestale, priva di indicazioni, e con una quantità di bivi e incroci, ciascuno dei quali avrebbe comportato opzioni diverse.

Il pattino da neve

In un numero della Rivista Mensile del CAI del 1896, il socio Felice Mondini, fra gli attrezzi necessari ai praticanti l’alpinismo, unitamente al clivometro e al barometro aneroide, suggeriva un paio di ski, con l’avvertenza che la pronuncia corretta è “sci”.

Un altro strumento che funge da racchetta e permette marcie rapidissime sulla neve molle è lo ski, il pattino nazionale norvegese. Esso è formato da un asse di frassino della larghezza della scarpa, lungo da m. 2.10 a 2.35, coll’estremità anteriore rialzata e terminante in punta, il quale ha una scanalatura longitudinale su tutto il lato che tocca terra, allo scopo d’impedire scivolamenti di fianco nel traversare pendii di neve un po’ consistente. Il piano dell’asse è a sezione leggermente arcuata di modo che lo ski da sè solo poggia sul terreno soltanto colle sue estremità; quando lo si è calzato, il peso del corpo lo rende aderente al terreno. Questa forma convessa fa dello ski una vera molla ed aiuta potentemente la marcia. Press’a poco a metà del pattino, dove il legno è un po’ più spesso, v’è il posto del piede il quale vien fissato con due correggie in modo però che la sola punta resta fissa, e la parte posteriore è invece libera. È bene notare che non si possono adoperare di questi pattini se non sono proporzionati per superficie e convessità al peso del proprio corpo.

Per diriger la marcia si adopera un bastone di bambù munito di puntale di ferro, alla distanza di 5 cent. dal quale è fissata una larga rotella d’acciaio, che gli impedisce di sprofondare nella neve.
Cogli ski è possibile salire pendii nevosi purché non troppo erti, ma sopratutto si fanno rapidissime discese, anche con salti di parecchi metri. Sappiamo che diverse Società e Sezioni alpine Svizzere, Austriache e Tedesche hanno delle Sotto-sezioni per dedicarsi in montagna a tale piacevole esercizio nella stagione invernale. Qualche giornale alpino tedesco pubblica dei supplementi tutti dedicati alle gite in ski, le quali hanno preso molta voga nei paesi teutonici, specialmente in Engadina. Vi si leggono sovente ascensioni e traversate di colli da 2000 a 2700 metri (1).

Il primo Convegno Nazionale di Skiatori si tenne al Sestriere nel 1904, in tempi in cui persino raggiungere tale località richiedeva grandi sacrifici.

Nessuna meraviglia che la pratica dello sci in Italia si sia inizialmente diffusa in Piemonte. I motivi sono molteplici e, fra essi, due hanno avuto principalmente un ruolo. Il primo è quello banalmente geografico, in quanto, negli anni che vengono indicati come “Belle époque”, il Piemonte era l’unica regione a carattere alpino. La seconda è di carattere culturale: il C.A.I. era stato fondato, a imitazione dell’Alpine Club britannico, proprio da scienziati e politici piemontesi. Certo, il termine “sciare” aveva un significato molto diverso dall’attuale.

Pubblicità della ditta Grosso, da Rivista Mensile del CAI, Febbraio 1909.

Nel numero di dicembre 1898 del Mitteilungen des Deutschen und Österreichischen Alpenvereins il grande alpinista e pioniere dello sci Oscar Schuster (1873 – 1917) compilò una rassegna dell’attrezzatura consigliata per chi si apprestasse ad una escursione con gli ski:

Mantellina
Maglione
Calze lunghe e corte di ricambio
Corpetto di ricambio
Ramponi per ski
Punte inglesi per scarpe
Utensili per riparazione ski
Corda
Piccozza con custodia
Racchette canadesi
Giunchi e cinghie di ricambio per ski
Paraffina ed olio di lino
Lanterna e candele
Zolfanelli resistenti al vento
Vaselina o lanolina e grasso per scarpe
Farmacia tascabile
Bussola, barometro aneroide, clinometro e termometro
Guide e carte geografiche
Coltello e apriscatole
Fornelletto ad alcol
Spirito o alcol
Borraccia e bicchiere di alluminio
Occhiali con lenti affumicate
Corno per richiesta di aiuto.

Non si tratta solo di un elenco sorprendente per chi oggi si appresta ad affrontare una giornata sulle piste; ma un utile metro atto a misurare la distanza concettuale che separa gli ski dagli sci. Che, soprattutto, fornisce un’idea dell’evoluzione che, in pochi decenni, ha trasformato una declinazione dell’alpinismo in un’ attività strettamente ludica che coinvolge milioni di persone e ha mutato l’economia di innumerevoli valli e località alpine.
Per indagare sulle radici dello sci modernamente inteso, ovvero a partire dal 1880 allo scoppio della Grande Guerra, è necessario attingere a due fonti bibliografiche, cioè alle opere di Fridtjof Nansen e di Wilhelm Paulcke.
Il norvegese Nansen (1861 – 1930), celebre esploratore polare e premio Nobel per la pace (1922), era originario di Cristiania. Insieme ad alcuni compagni, compì la prima traversata sciistica della Groenlandia di cui diede un’accurata descrizione che rappresentò a lungo un riferimento per chi si volesse avvicinare alla tecnica dello sci (2).
Il tedesco Paulcke (1873 – 1949), geologo, alpinista e divulgatore dello scialpinismo, fu tra i promotori della Federazione Sciistica Tedesca. Nel 1901 pubblicò «Der Skilauf in den Alpen» che si può considerare il primo manuale di tecnica sciistica, seguito a breve da una seconda edizione più estesa ed accurata (3).
All’evoluzione dello sci da attrezzo alpinistico a strumento ludico-sportivo contribuirono efficacemente i miglioramenti tecnici che riguardavano i materiali e, in particolare, gli attacchi che erano (e sono) in rapporto dialettico con le tecniche di sciata.

L’evoluzione degli stili di sciata determinò quella degli attacchi – bloccaggio della sola punta o di punta e tallone – che, per molti anni rimase funzionale al telemark, elegante e funzionale su neve fresca; meno su pista battuta. Lo sciatore che contribuì in modo decisivo al passaggio dall’era del telemark a quella dello sci alpino, ideando diversi tipi di attacchi per fissare lo scarpone allo sci fu l’austriaco Mathias Zdarsky. Fra altre innovazioni, mise a punto una nuova tecnica, chiamata “voltata d’appoggio”, una sorta di spazzaneve effettuato con le ginocchia piegate e un solo bastone.

Scrisse anche un manuale di sci che ebbe larga diffusione nelle località sciistiche di tutta Europa (4).

La pubblicità delle ditta Vieider di Bolzano del 1928 presenta una sciatrice che compie una perfetta curva «Stem Cristiania».
Un altro manuale che ebbe grande diffusione e segnò in maniera importante l’evoluzione dello stile, in epoca diversa che preludeva alla diffusione dello sci tra i ceti popolari, fu quello scritto da un regista cinematografico (Fanck), specialista di riprese in ambiente alpino, e un celebre maestro austriaco (Schneider), apostolo di una tecnica nuova rispetto a quella di derivazione norvegese (5).
In 1928 Schneider and Arnold Lunn (fondatore della britannica agenzia di viaggi Lunn Poly) organizzarono il primo campionato di sport invernali noto come Arlberg-Kandahar, una denominazione che associa il nome di una località turistica austriaca a quello di una città afgana.

Mathias Zdarsky durante una dimostrazione del suo stile di sciata.

Conan Doyle in Svizzera nel 1893, impegnato in una “voltata”.

Riv. Mensile del CAI, sett.-ott. 1928

Copertina del manuale di Schneider e Fanck.

Radici culturali della pratica dello sci

L’idea attualmente diffusa degli sci è associata all’uso a cui sono attualmente destinati, quasi esclusivamente ludico, ma che fu di natura incerta fino all’inizio del secolo. Ad una concezione ludico-sportiva e alla sua diffusione diede un importante contributo l’inventore di Sherlock Holmes.
Nel 1894 Arthur Conan Doyle – non ancora Sir – fece un lungo soggiorno sulle Alpi svizzere, nella speranza che il clima giovasse alla moglie, malata di tisi (6).Lo scrittore ne approfittò per lavorare e, da atleta qual era, dedicarsi agli sport invernali, vale a dire allo slittino e al pattinaggio. Si fece anche arrivare un paio di ski dalla Norvegia, dove li aveva visti all’opera, e insieme a due svizzeri fece anche quella che oggi si chiamerebbe una “scialpinistica”, adottando una strana tecnica: legare insieme gli sci in modo da formare una sorta di slitta da utilizzare in discesa. Una delle prime volte che tali arnesi venivano utilizzati per puro divertimento (7).

Sullo Strand Magazine, una rivista a grande diffusione in Inghilterra, Doyle pubblicò una relazione sulle sue imprese sciistiche che costituisce un bell’esempio di british understatement.

Non vi è nulla di particolarmente minaccioso nell’immagine di un paio di sci. Sono due assi di legno di frassino, di otto piedi lunghezza, di otto pollici di larghezza, con un tallone quadrato, le estremità anteriori piegate verso l’alto e cinghie al centro per fissarvi i piedi. Nessuno, al vederli, e potrebbe immaginare le potenzialità che racchiudono. Ma appena li calzi e ti giri a vedere se i tuoi amici ti stanno guardando, nell’istante successivo ti ritrovi con la testa immersa nella neve a scalciare freneticamente con i piedi e, appena rialzato, a cozzare contro un altro mucchio di neve, mentre i tuoi amici partecipano allo spettacolo più divertente che non avevano mai pensato potessi offrire. Questo solo quando stai imparando. Sei pronto ad affrontare nuove difficoltà e non sei disposto ad arrenderti. Ma, non appena progredisci di poco, la cosa diventa ancora più irritante. Gli sci sono gli oggetti più capricciosi su questa terra. Un giorno non riesci a fare tutto, un altro, con lo stesso tempo e la stessa neve non ne indovini una. Ed è quando finalmente ti sei convinto che le cose comincino ad andare. Ti trovi sulla cima di un pendio e ti prepari ad una rapida scivolata; ma i tuoi sci si inchiodano al terreno e cadi con la faccia sulla neve. Oppure ti trovi su un plateau che ai tuoi occhi appare orizzontale come il tavolo di un biliardo, e in un istante, senza causa apparente, partono come schegge, e tu cadi all’indietro, faccia al cielo. Per una persona affetta da una considerazione esagerata della propria dignità, un corso di sci norvegesi avrebbe notevoli conseguenze morali (8).

La fama letteraria dell’autore, unita alla fame di sport, nell’accezione che la parola aveva allora nel mondo anglosassone, diede un forte impulso alla conoscenza e, di conseguenza, alla pratica dello sci, particolarmente in Svizzera (9).
Un’idea dell’uso che si faceva in Svizzera di questi attrezzi negli anni che precedettero la Grande Guerra ci viene da un altro grande scrittore, questa volta tedesco. Infatti, un’intera sezione del VI capitolo de «La montagna magica» di Thomas Mann, uscita nel 1924, è dedicata ad un’esperienza che oggi diremmo scialpinistica (10).
Mann iniziò a scrivere il romanzo all’inizio del 1913, dopo aver trascorso alcune settimane in compagnia di sua moglie, ricoverata in sanatorio per combattere una grave forma di tubercolosi. L’opera è ambientata in un villaggio delle Alpi svizzere (Davos, attualmente rinomata località sciistica) già allora centro di vacanze sia estive che invernali e sede di un grande sanatorio che accoglieva la nobiltà e l’alta borghesia affetta da tisi, malattia che al tempo non lasciava scampo.
Un giorno del secondo inverno di degenza nel sanatorio, il protagonista Hans Castor «acquistò in un negozio specializzato della via principale un paio di sci eleganti, verniciati di marrone chiaro, di ottimo frassino, con la punta ricurva e con magnifici attacchi di cuoio, comperò anche i bastoncini con puntale di ferro e con la racchetta rotonda …» (11).
Significa che già prima della Grande Guerra in un paese della montagna svizzera vi erano negozi specializzati nella vendita di materiale da sci, compresi bastoncini ed attacchi. Neppure l’apprendimento era un problema:

Castorp notò che si acquista presto un’abilità della quale si sente il bisogno interiore, Non che pretendesse di diventare un campione. Tutto quanto gli occorreva lo imparò in pochi giorni senza scalmanarsi perdere fiato. Si avvezzò a tenere i piedi vicini e a tracciare orme parallele, imparò ad usare il bastoncino per dirigersi in discesa, trovò il modo di superare ostacoli, come piccole gobbe del terreno, , prendendo lo slancio a braccia distese , sollevandosi e avvallando come una nave nel mare in burrasca e, dopo la ventesima prova, non cadde più quando nell’arresto a telemark frenava in piena corsa con una gamba tesa e il ginocchio dell’altra piegato (12).

Un passo che ci dice che la tecnica della sciata era avanzata e che quella prevalente al tempo era il Telemark. Ma la differenza fondamentale, rispetto ai nostri tempi, consisteva nel fatto che gli sci erano intesi come strumenti per muoversi in ambiente innevato. Quindi, non solo per discendere agevolmente, ma anche (e soprattutto) per risalire pendii nevosi, attraversare boschi, superare gole e forcelle. È l’uso che fa dei suoi nuovi sci l’infelice protagonista del romanzo quando, un pomeriggio, si allontana dall’abitato, risalendo i pendii innevati dei monti che tante volte ha scrutato dalla terrazza del sanatorio, finendo per rischiare la vita in una bufera di neve.

Non era però un divertimento, perché la vista era impedita dalla danza dei fiocchi che pareva non cadessero nemmeno, ma riempivano lo spazio con i loro fittissimi vortici, le raffiche gelate provocavano dolori acuti alle orecchie , paralizzavano le membra, rendevano insensibili le mani, tanto che Castoro non si rendeva conto se stringesse o ne il bastone ferrato. […] Si fermò dunque, scrollò forte le spalle e voltò gli sci. Il vento contrario gli mozzò subito il respiro, sicché dovette sobbarcarsi un’altra volta lo scomodo procedimento della voltata per prendere fiato ed affrontare poi in miglior modo l’indifferente nemico (13).

Scriveva Adolfo Hess nel 1899 sul Bollettino del Club Alpino Italiano:

Oggidì gli ski sono diffusi per tutta la Norvegia, un po’ meno verso occidente causa le meno favorevoli condizioni della neve. Però, in linea generale si può ritenere che in tutta la Norvegia ben pochi uomini o ragazzi non conoscono l’uso dei pattini norvegesi, senza contare che vi sono dedite anche molte donne, come già ai tempi di Olao Magno (an. 1555), quando «si vedevano andare a caccia le donne con abilità uguale, se non maggiore, degli uomini».
I più esperti pattinatori risiedono a Telemark e Kristiania, ma si hanno ancora forti campioni in Oesterdalen, Oplandene, Numedalen, Hallingdalen, Balders, Drontheim, Finnmark, ecc. In Isvezia gli ski furono importati contemporaneamente alla Norvegia, ma le condizioni climatiche meno favorevoli, la natura del paese meno montuosa, limitarono il pattinaggio alla parte più settentrionale del paese (14).

Caricatura di C. Doyle. Da E.T. Reed, Mr, Punch’s animal land, Bradbury, London, 1898.

Caratteristiche fisiche degli sci

Nel già citato articolo sul Bollettino del C.A.I. del 1899 Adolfo Hess forniva puntuali informazioni tecniche sugli sci.
Raccomandava che le dimensioni degli sci siano raccordate a quelle dello sciatore e a questo proposito citava una regola che sopravvisse fino alla fine degli anni ’90 del secolo scorso: «messo lo ski eretto sul suolo, il pattinatore deve, allungando il braccio, poterne toccare l’estremità». La larghezza andava dai 7 cm delle code ai 9 cm delle punte; lo spessore variava da 1 cm. (alle due estremità) a 3 cm. (nel mezzo). Un punto molto delicato era rappresentato dal sistema di fissaggio dello sci al piede dello sciatore. Si ricorreva ad un «giunco ricurvo a ferro di cavallo», detto staffa posteriore alla quale si opponeva una staffa superiore, costituita da una correggia larga 8 cm, foderata internamente di pelliccia per ammortizzare la pressione sulle dita. Pertanto, il tallone del piede dello sciatore era libero di essere sollevato, come si fa tutt’ora nello sci di fondo, nella tecnica Telemark e, in salita, nello scialpinismo.

Le punte dovevano elevarsi di 20-22 cm rispetto al suolo: una curvatura minore avrebbe comportato il rischio che le punte si infilassero nella neve, una maggiore che la neve si accumulasse sulla parte anteriore dello sci che avrebbe avuto la funzione di spazzaneve.
Hess attirava l’attenzione sulla curvatura che lo ski doveva presentare nella sua parte mediana, per cui, quando sia posato sul suolo, aderisca solo con la coda e nel punto in cui si curva l’estremità anteriore, con una saetta che non supera i 3 o 4 cm. Si trattava di una caratteristica che aveva un ruolo fondamentale nella tecnica di sciata e che ha tuttora nello sci di fondo. Infatti, quando il peso dello sciatore è distribuito su ambedue gli attrezzi, questi toccano il terreno solo con le estremità, mentre, quando il peso si esercita su uno solo dei due, questo aderisce completamente al piano nevoso. Anche nei moderni sci, sia da fondo che da discesa, l’elasticità degli attrezzi ha un’importanza fondamentale.
A lungo si combatterono, fino agli anni della guerra due scuole di pensiero sciistico: quella che predicava l’uso di un solo, lungo e robusto, bastone e quella che sosteneva l’uso di due bastoni, corti e leggeri e muniti di racchette per non affondare nella neve.
Il bastone aveva un ruolo nel mantenimento dell’equilibrio dello sciatore; ma soprattutto poteva fungere da freno nelle discese su pendii ripidi e gelati. Lo sciatore lo teneva fra le gambe e lo trasformava in una leva analoga a quella del remo per la barca, con il fulcro nel punto in cui si esercitava il suo peso. Completamente diverso, e innovativo, era l’uso dei due bastoncini, che avevano, inizialmente, la funzione di alleviare la fatica della salita.
Particolarmente interessante è la descrizione che Hess fa della tecnica di “voltata”, senza significative differenze rispetto a quella attualmente utilizzata da scialpinisti nella salita su forti pendenze.

Appare incredibile; ma la prima forma di utilizzo ludico ovvero sportivo nell’accezione attuale del termine, fu il salto. Infatti, mentre gi sci normali venivano usati per salire monti coperti di neve; escursioni dove la funzione principale degli attrezzi si aveva in salita, e in discesa richiedevano una maestria tecnica che si raggiungeva solo con molta applicazione, il salto con gli sci comportava una pista appositamente preparata. Hess ne dava una descrizione accurata:

La pista, si può dire, consiste in tre parti. La superiore è costituita da un pendìo sul quale il pattinatore ha campo di acquistare una certa velocità. Poi il pendio si appiana per un breve tratto, generalmente di 3 a 5 m, che permette al pattinatore di prendere la posizione voluta per il salto; questo ripiano posa sopra un rialzo alto circa un metro. Infine, si ha un nuovo pendio, più ripido del primo, sul quale salterà il pattinatore. Con una tale disposizione si sono ottenuti risultati veramente incredibili: si sono fatti salti di 30 m. di traiettoria (15).

Il salto con gli sci nei Paesi nordici era un’attività sportiva diffusa da molti anni quando fece una timida comparsa in Italia. Nel paese di Holmenkollen, vicino ad Oslo, un trampolino per il salto era in funzione dal 1892. Ai Giochi della terza Olimpiade Invernale, che si tennero a Lake Placid (Stati Uniti) nel febbraio del 1932, l’ Italia partecipò con una delegazione di 12 atleti che fecero una magra figura. Degna di essere ricordata è la gara di salto affrontata da Gino Soldà (di Recoaro) che, senza alcuna preparazione, si classificò ventiseiesimo. In questa specialità primeggiavano i norvegesi, ricchi di una lunga tradizione. A Lake Placid la medaglia d’oro andò infatti al norvegese Ruund, che dominò la specialità per molti degli anni seguenti e in particolare nell’olimpiade che seguì, a Garmisch-Partenkirchen, in Germania.
Il massimo esperto italiano di sci, Piero Ghiglione, affrontava il problema della formazione dei saltatori italiani in un articolo per la Rivista Mensile già nel 1923, partendo dalle caratteristiche dell’attrezzo:

Per salto è bene che il pattino sia alquanto più lungo e pesante di quello normale per gite; oltre ad ovvie ragioni, si viene a determinare con tali sci una superficie di miglior resistenza all’aria che dà una discesa parabolica. Gli sci da salto debbon pure essere più larghi dei soliti: tuttavia non troppo, perché allora son più difficili a manovrare. Per sci da salto, lunghi, poniamo, circa m. 2,40, la larghezza all’attacco deve raggiungere al più 8 cm. Il legno meglio adatto è notoriamente l’hicory (16).

Non esitava anche a dare qualche raccomandazione circa la tecnica del salto:

All’arrivo sul suolo la posizione classica dei norvegesi è quella di telemark, cioè col ginocchio destro all’innanzi: essa offre una base più larga, abbassa il centro di gravità, in una parola equilibra meglio per la susseguente rapidissima discesa. Il buon stile esige tuttavia che il telemark non sia esagerato. Non appena attutito l’urto all’arrivo, lo sciatore ritorna alla posizione normale di discesa, curando sci ben uniti e paralleli: particolare attenzione bisogna fare nel passaggio dal pendio al piano: appena oltrepassato ciò, è d’uopo prepararsi all’arresto finale. Non vi si deve giungere con velocità eccessiva: il Girard-Bille, grande stilista, non appena sul piano, si porta a sci ben stretti alquanto sopra un lato della pista, eventualmente anche sull’altro, frenando man mano ma vigorosamente con lunghi e impercettibili kristiania scivolati (17).

Forma classica degli sci. Da A. Hess, Bollettino del CAI, 1899

Attacco dello sci. Da A. Hess, Bollettino del CAI, 1899

Tecnica di inversione. Da A. Hess, Bollettino del CAI, 1899

Salto a due. Rivista Mensile del CAI , 1909

Contributi militari alla diffusione dello sci

Già a partire dal 1896 l’ing. Kind, pioniere dello sci in Piemonte, aveva organizzato corsi di sci per ufficiali dell’esercito, prefigurando impieghi militari. Tuttavia, a scopo di risparmio, furono forniti attrezzi di cattiva qualità per cui l’iniziativa venne abbandonata. Tuttavia, avvertite da quanto si faceva in Austria, si levarono alcune voci in favore di una sua ripresa. Ne scriveva Adolfo Hess nel già citato articolo sul Bollettino del CAI:

L’Italia possiede fortunatamente un corpo di forti ed arditi soldati: gli alpini. Essi stanno lunghi mesi dell’anno nella zona delle nevi, e si trovano quindi nelle più favorevoli condizioni per imparar bene il pattinaggio. Bisognerà tener conto di alcune altre condizioni concomitanti: il soldato dovrà essere appositamente abbigliato ed attrezzato: stivali non chiodati, sandali chiodati, «molletières» ecc. Inoltre, invece del bastone di bambù, si dovrebbero adottare bastoni di frassino, alti non più di m. 1,50, costruiti in modo che possa adattarvisi la baionetta o la sciabola. In qualunque momento questa deve potersi sguainare facilmente, mentre il fodero rimane fissato. Sarà bene che il bastone possa essere messo a tracolla, quando si vuol fare uso del fucile. Lo zaino va tenuto più leggero che sia possibile, essendo di grande svantaggio nel mantenere l’equilibrio sugli ski (18).

A imitazione della Svizzera, le cui guardie di frontiera al Gottardo erano dotate di sci da alcuni decenni, nel giovane Regno d’Italia i primi tentativi di introduzione dello sci nei reparti militari furono condotti solo nell’inverno del 1896 dal tenente d’artiglieria Luciano Roiti. Nello stesso periodo, alcuni reparti degli Alpini durante escursioni invernali, svolsero alcune esercitazioni per sperimentare sul terreno i nuovi attrezzi alpinistici. Il risultato fu che gli sci consentivano spostamenti su terreno innevato molto più rapidi delle tradizionali racchette da neve. Il risultato fu che i comandi militari ingaggiarono esperti svizzeri e norvegesi per preparare istruttori italiani. Durante i primi anni del secolo gli sci divennero una componente ordinaria dell’attrezzatura delle truppe da montagna.
Il modello adottato fu lo «sci norvegese»: 2,20 metri di lunghezza, 9 cm di larghezza anteriore, 8 in quella posteriore, con un peso che andava da 4 e 6 kg. L’utilizzo previsto era principalmente quello di sorveglianza dei confini.
Un ufficiale che molto si prodigò per la diffusione dello sci in ambito militare fu il piemontese Oreste Zavattari (1856 – 1941), allora maggiore, destinato a raggiungere il grado di Generale di Corpo d’Armata. Già nel 1900 espose le sue proposte in un corposo articolo sulla Rivista Militare Italiana (19).
In qualità di ufficiale istruttore degli Alpini, sottopose a severi controlli sperimentali la funzionalità di sci e sciatori in ambiente estremo:

La neve cadde in gran copia, e rese triste e disagevole la vita al Monginevra. La strada nazionale era coperta da un immenso strato di neve, e le valanghe precipitate a valle, ai primi di febbraio, avevano reso impossibile il transito sulla rotabile. Isolati nella Caserma difensiva dal centro principale di rifornimento — Cesana — rotte le comunicazioni telefoniche, i nostri Alpini sperimentarono la discesa dalle Casermette fino a Cesana. Furono costituiti due drappelli; uno di venti skiatori, seguito dietro da altro drappello di individui muniti di racchette. Il percorso fu facilmente e felicemente superato in 1 ora. Gli ski affondavano fino a 50 cm. Notevolissimo fu il vantaggio che il drappello munito di racchette risenti dalla pista tracciata dagli skiatori. Su tale pista, la racchetta affondava solo da 30 a 40 centimetri, mentre, fuori pista e colle racchette, si affondava da 80 a 90 centim. Credo che senza il vantaggio di un po’ di pista fatta, le racchette non avrebbero potuto compiere il percorso in meno di quattro ore (20).

Ma già l’anno prima Zavattari era intervenuto sulla Rivista Mensile allo scopo di sostenere la necessita di creare reparti di sciatori militari (21).
Il maggiore Zavattari precisava anche che, nelle esercitazioni, i militari erano in tenuta di marcia con armamento, che parte degli skiatori calzava le uose di lana modello Valle d’Aosta, e un’altra le cosiddette fasce mollettiere, senza zaino. A tracolla portavano mantellina, telo da tenda e coperta di lana, avvoltolate, e dentro di queste i pacchetti delle cartucce; oltre a tascapane, borraccia e gavetta. Il modello di fucile che il colonnello proponeva era il Modello 91, destinato a diventare famoso nella Grande Guerra.
Gli articoli di Zavattari suscitarono grande interesse negli ambienti militari, non solo in Italia, tant’è che furono raccolti e pubblicati da un editore francese specializzato in temi militari (22).
A partire dai primi anni del secolo i vertici militari, diedero allo sci un impulso crescente, incoraggiando la partecipazione di reparti alle gare che in varie località venivano organizzate dalle associazioni di skiatori che sorgevano generalmente all’interno di sezioni locali del CAI. Grande interesse suscitò il Concorso Internazionale di Ski che il tenne al Monginevro fra il 10 e il 12 febbraio 1907, con la partecipazione di atleti di Italia, Francia, Svizzera e Norvegia. Gli skiatori italiani ebbero modo, nell’occasione di evidenziare i progressi che i nostri militari avevano fatto, in pochi anni, nel nuovo sport, salto compreso. L’inviato della rivista francese, La vie illustrée, il 22 febbraio, scriveva che «Nos voisins sont très habiles en l’art du ski: leurs troupes alpines sont, sur ce point, des mieux exercées. Un officier des chasseurs à pied disait même très simplement, la veille du concours: “Nous aurons beaucoup à apprendre en regardant manoeuvrer les Italiens”».
Anche la forma con cui questi campionati vengono organizzati presenta diversi motivi di interesse. Nell’occasione ricordata si tenne una “Gara di velocità per ufficiali” su una distanza di 3 km con più di 100 m di salita, una gara sullo stesso percorso per la truppa, una gara di fondo per ufficiali e una per la truppa su 13 km. Il giorno successivo si disputò la gara di salto, anch’essa separata in due, per gli ufficiali e per la truppa.
Alla vigilia dell’entrata in guerra (maggio 1915) l’Italia poteva vantare una soddisfacente formazione sciistica delle truppe di montagna che tuttavia, una volta sul terreno, dimostrò scarsa efficacia militare. Nelle tante memorie di coloro che hanno fatto esperienza dei diversi fronti alpini, non si parla quasi mai di impiego di reparti di sciatori come tali. Contro quella che Carlo Emilio Gadda chiamava “la macchina”, i movimenti di incursori o di reparti muniti di sci erano destinati a esiti nefasti. Gli oggetti che nella memoria richiamano la Grande Guerra sono, da sempre, la mitragliatrice e il filo spinato.

Militari italiani impegnati in esercitazioni sciistiche. Riv. Mens., marzo 1911.

Lo slalom della Marmolada

La Grande Guerra e il tormentato dopoguerra bloccarono lo sviluppo dello sci, sia dei vincitori che degli sconfitti. I primi sintomi di risveglio si manifestarono alla fine degli anni ’20, sempre per merito dei Paesi nordici.
Infatti, solo alla fine degli anni ’20 , quando si tornò ad organizzare le prime gare internazionali, si misero in luce atleti che generalmente portavano nomi tedeschi. In Italia in occasione dei primi Campionati Mondiali di Sci del 1932, si rivelò l’altoatesina Paula Wiesinger, allora 24enne, che già aveva fatto parlare di sé come rocciatrice. Le cronache ci informano che percorse gli oltre 3 chilometri e mezzo della pista in 7’13”4/5. La Wiesinger si potrebbe considerare la risposta italiana alla teutonica Leni Riefenstahl, della quale aveva fatto da controfigura in alcuni film di tema alpinistico. Anche la giovane atleta ebbe un ruolo importante nella diffusione della pratica dello sci che, in pochi anni, si distaccò definitivamente dal primitivo tronco culturale dell’alpinismo.

Per la verità, già nel 1924 si era dato vita a Chamonix ad una Settimana Internazionale degli sport invernali nei quali lo sci aveva giocato un ruolo di primo piano, ma unicamente nella disciplina dello sci di fondo e del salto: lo sci alpino (discesa, slalom, ecc.) venne introdotto nei giochi olimpici solo nel 1936.
Fu merito di Gunther Langes capire che il versante settentrionale della Marmolada poteva essere il terreno ideale per una gara di discesa. E fu in questo ambiente che nel 1933 si organizzò un Campionato Internazionale di discesa libera. Vincitore ne emerse l’austriaco Hans Nöbl, dal 1931 direttore della prestigiosa scuola di sci del Sestrière, promossa dalla famiglia Agnelli. Il primo slalom gigante si fece al Mottarone nel gennaio del 1935 e dopo due mesi si tenne in Marmolada la grande gara ideata e organizzata da Langes unitamente a Virgilio Neri, ambedue alpinisti di chiara fama, il primo come salitore dello Spigolo del Velo sulla Cima della Madonna (1920), il secondo come scalatore solitario del Canalone della Tosa (1929). Fu con la grande discesa della Nord della Marmolada che si diffuse l’espressione “slalom gigante”.
L’idea di Langes poggiava sulla convinzione che non convenisse limitare le possibilità offerte dal ghiacciaio alle manifestazioni legate alla discesa, ma che l’ampiezza, la pendenza e la lunghezza della pista consentivano di immaginare un nuovo tipo di gara che non richiedesse solo velocità, ma anche l’abilità di evitare ostacoli di vario genere (pali disposti sul percorso), interruzioni comprese che implicassero salti con gli sci e resistenza allo sforzo. Lo scopo era quindi quello di unire alle doti di velocista dello sciatore, quelle richieste dallo slalom, nella speranza che ne scaturisse , come difatti avvenne, una nuova e diversa concezione dello sci da discesa. Sulla Rivista Mensile del CAI, ne parlò Franco de Zulian descrivendone le peculiarità:

Venendo alle caratteristiche di questa nuova gara, […], diremo brevemente che la pista obbligata si svolgerà dai 3260 ai 2000 metri, con un dislivello cioè di 1260 metri e su una lunghezza di circa 3 km. La pista, larga dai 5 ai 7 metri, rimarrà allo stato naturale, cioè senza preparazione ed indurimento (Iella superficie, e sarà delimitata non più dalle solite bandierine da slalom, ma da forti pali emergenti dalla superficie della neve per 2-3 metri e tali da resistere validamente alla possibilità di striscio o di urto da parte dei concorrenti(23).

Si trattava quindi di una gara che richiedeva doti atletiche diverse sia dalla discesa libera che dallo slalom. Ciò non desta meraviglia quando si pensi che è stata ideata da due uomini che avevano dato prove fisiche di alto livello nelle scalate dolomitiche. Superfluo ricordare poi che il luogo non era servito da impianti di risalita, per cui gli atleti dovevano raggiungere il punto di partenza con i propri mezzi, portando gli sci sulle spalle.

Tracciato dello slalom gigante della Marmolada. Da Riv. Mens., febbraio 1935

Paula Wiesinger ai Campionati Mondiali di Sci a Cortina d’Ampezzo (1932).

Ruolo del cinema nella diffusione dello sci

Lo sci come pratica ludico-sportiva prese piede in Europa a partire dalla fine degli anni ’20. In questa grande rivoluzione culturale, che trasformò la montagna da luogo di fatica, pericolo e sofferenza, a terreno di gioco, il cinema, che da pochi anni aveva iniziato a diffondersi, ebbe un ruolo di primo piano. Sul suo successo ebbe grande peso l’introduzione del sonoro nel 1927. Ci limitiamo a ricordare quello che è considerato l’inventore del genere “alpinistico” nella produzione cinematografica. Arnold Fanck (1889 – 1974), tedesco di Frankentahl, nel 1920, fondò una “Berg und Sportfilm GmbH Freiburg”, con sede a Friburgo, per riprese cinematografiche in montagna. I suoi film più noti sono Der Berg des Schicksals (1920), Der heilige Berg (1926), Die Weiße Hölle vom Piz Palü (1929), Stürme über dem Montblanc (1930) e S.O.S. Eisberg (1933). Tutti con Leni Rieferstahl come protagonista.

Arnold Fanck e il suo attore prediletto, Hannes Schneider, diedero un importante contributo alla diffusione delle attività sciatorie con diversi film, il più importante dei quali fu Der Weisse Rausch (L’estasi bianca), del 1931, che fu il primo film sonoro sulle gare di sci alpino.

Si trattava di una commedia leggera e gioiosa, che non si poneva altro scopo che mostrare le gioie dello sci fuori pista.
Johann “Hannes” Schneider (Arlberg 1890 – North Conway, 1955), maestro austriaco di sci, è considerato il padre dello sci moderno. Cresciuto in un ambiente in cui lo sci era apprezzato più come mezzo di trasporto, piuttosto che come attività sportiva, essendosi fatto conoscere come esperto, si trasferì in Svizzera dove tenne corsi di sci per principianti, al servizio di albergatori. La sua tecnica divenne nota come “Metodo Arlberg” e quella di curva come “Stem Cristiania”.

Nel 1928 Schneider e l’inglese Arnold Lunn organizzarono il primo campionato internazionale di sci, noto come Arlberg-Kandahar. In seguito all’Anschluss, a cui era contrario, nel 1938 venne imprigionato dai nazisti come oppositore politico, ma, grazie alle pressioni di un banchiere americano interessato a diffondere lo sci nel New England, venne liberato ed ebbe la possibilità di riparare con la famiglia negli Stati Uniti dove contribuì ad addestrare la Decima Divisione di Montagna dell’esercito americano e diede vita ad una fiorente scuola di sci.
Il successo del film di Fanck era affidato soprattutto alle magnifiche scene d’ambiente e all’ottimismo del messaggio, in un periodo storico di gravi difficoltà economiche e politiche per l’Europa e, in particolare, per la Germania. Racconta dell’apprendistato sciistico di una giovane montanara (la Riefenstahl) che si propone di imparare la tecnica dello sci e del salto con gli sci, sotto gli insegnamenti di un esperto, interpretato da Schneider. La protagonista femminile era Leni Riefenstahl, non ancora trentenne, nella parte di un’affascinante apprendista sciatrice che, dopo alcune lezioni, si trasforma in un’abilissima “volpe” che quaranta provetti sciatori inseguono, tra spettacolari acrobazie, sulle nevi di Sankt Anton am Arlberg (Austria). Come in ogni film leggero, è necessario presentare personaggi ridicoli. Qui il compito di far ridere è affidato a due tirolesi, campioni di sci, Walter Riml e Guzzi Lantschner, che fanno la parte di due carpentieri di Amburgo che si recano ad Alberg allo scopo di imparare a sciare studiando su due diversi manuali di sci. Uno dei due manuali porta come titolo «Arlbergtechnique» e il secondo «Allerneuste Möeglich keiten im Skilauf»(24).
Di questo manuale parla anche Dino Buzzati, appassionato sciatore fin dagli anni ’20, in un articolo sulle diverse tecniche sciistiche, sul Corriere della Sera del 21 novembre del ’33, in riferimento alla tecnica Arlberg, nella recensione di un saggio di Lunn dedicato alla storia dello sci(25).
In Italia, maggior successo ebbe un film di ambiente sciistico diretto e interpretato dal gardenese Luis Trenker. «Liebesbriefe aus dem Engadin», uscito in Italia col titolo «Lettere d’amore dall’Engadina». Lo spirito che anima il film di Trenker non è dissimile da quello di Fanck in «Der Weisse Rausch» : due commedie leggere che ispirano ottimismo sul futuro e propagandano lo sci come attività sportiva. La trama è semplice: un albergatore dell’Engadina, sfrutta il fascino di un maestro di sci (interpretato da Trenker) per attirare clientela femminile. Le scene più entusiasmanti sono quelle finali: una interminabile discesa di un gruppo di spericolati sciatori e l’inseguimento di un treno da parte del protagonista con gli sci a lato della strada ferrata, che prelude al prevedibile happy end.
Le due opere, tuttavia, sono separate da nove anni di un tempo che aveva subito una grande accelerazione per tutta l’Europa, dopo la presa del potere del Nazismo nel 1933. Volendo rimanere nell’ambito sciistico, si potrebbe dire che il film di Fanck tende a propagandare l’attività sciistica; mentre quello di Trenker sfrutta, se pur magnificamente, una concezione della montagna che si è ormai definitivamente affermata. Ma anche Trenker, da alpinista quale era stato, non rinuncia a introdurre un elemento drammatico per coinvolgere ulteriormente lo spettatore: il recupero del protagonista caduto in un crepaccio, fornisce l’occasione per magnifiche riprese notturne di nevi e ghiacci illuminati dalla luce delle torce.

Un fotogramma del film Der Weisse Rausch di Fanck, 1931.

Pubblicità veicolata dallo sci

Già dall’inizio della storia dello sci moderno, ovvero dall’inizio del Novecento, lo sci rappresentò un impulso alla produzione – e quindi alla pubblicità – di oggetti in qualche modo legati alla sua pratica. I più ovvi erano, naturalmente, vari tipi di sci e relativi attacchi, ma anche generi di conforto per lo sciatore. La pubblicità ospitata dalle riviste alpinistiche riproducono fedelmente l’immagine diffusa della pratica dello sci nelle varie epoche, ma anche dei mezzi usati per far breccia nell’animo del lettore. Non di rado, all’inizio del secolo come oggi, si faceva ricorso alla testimonianza di un personaggio prestigioso, come in quella della ditta Campari del 1900, che si affidava ad un celebre clinico.

Naturalmente, il tema prevalente della pubblicità riguardava gli arnesi collegati allo sci, proponendo talvolta soluzioni sorprendenti per il tipo di attrezzo, ma anche per la forma pubblicitaria. Ne riportiamo un esempio tratto dalle Rivista Mensile del CAI dei primi anni del secolo: lo Ski pieghevole:

Chiunque si diletti di calzare il veloce ski, leggerà certo con piacere l’intestazione di questo annuncio sapendo qual grave inconveniente porti la sua lunghezza, principalmente quando alla stazione ferroviaria si resta obbligati ad abbandonarlo nelle mani dei bagaglieri. Per esempio, chi scrive d’ora in avanti non sarà più invidiato dai colleghi a cagione della statura piuttosto alta, tale da aver fatto sovente passare gli ski inosservati davanti al vigile occhio del controllore, e averli tenuti con sé per tutto il viaggio. Accade poi che, salendo per un’erta in cerca del sempre lontano… campo d’esercitazioni, gli ski, ora in uso, si impigliano negli arbusti, nei rami degli alberi, e in caso di caduta avete le mani ingombre. Al vostro ritorno in città, poi, siete quasi sempre obbligati a chiedere l’aiuto di un facchino o montare su una carrozza onde non tirarvi dietro uno sciame di ragazzi. Ad ovviare questi inconvenienti i signori Anghileri Vittorio e Pio, soci del C. A. I., dopo aver fatto costruire parecchi congegni più o meno pratici di chiusura per ski, e dopo coscienziosi esperimenti perfezionarono un apparecchio a doppia cerniera con molle a scatto, il quale subito hanno fatto brevettare ed è una vera trovata. Questo congegno è di acciaio inossidabile e applicato a metà circa dello ski gli permette, con semplice manovra, di chiudersi dal lato opposto a quello ove si mette il piede, di modo che il peso del corpo è quello che tiene, nell’uso, lo ski disteso. Naturalmente la doppia cerniera è fatta in modo che, alzando il piede, lo ski non si piega sotto, nemmeno quando si copre di neve, opponendosi una molla a scatto la quale lavora in condizioni tali da presentare le maggiori garanzie di sicurezza. Mi sarei forse spiegato meglio col sussidio di una fotografia, ma mi fu impossibile farla riprodurre in tempo per pubblicarla in questo numero, mentre non volevo .che di questa novità ne avesse magari parlato prima una rivista estera, o se ne venisse a conoscenza a stagione troppo inoltrata. In ogni modo, i signori Anghileri si prestano fin d’ora a fornire tutti gli schiarimenti desiderabili a qualunque socio del C. A. I. ne faccia loro richiesta. I due ski, piegati, si portano attaccati con apposite cinghie ai margini laterali del sacco, uno a destra, l’altro a sinistra ; oppure al margine superiore, fissati come la tenda sullo zaino del soldato ; anche in braccio non danno noia(26).

La pubblicità della ditta Pivetti di Brescia è testimonianza di una pratica sciistica ancora fortemente ancorata all’ambiente alpino.

Le “Laupar” o “Lauparschuhe” pubblicizzate sono scarpe da sci norvegesi di cuoio ingrassato.

L’entrata in guerra del maggio 1915 bloccò la pratica dello sci; ma solo come esercizio ludico, perché nel contempo acquisì una rilevante importanza militare per gli eserciti che si fronteggiavano sulle Dolomiti. Non ci fu giovane che avesse un rispettabile curriculum alpinistico che non venisse chiamato a dare prova della sua valentia sull’uno o sull’altro fronte. Molti esperti sciatori ricevettero l’incarico di istruire pattuglie e reggimenti di sciatori da impiegare nella guerra in montagna. Non bisogna poi dimenticare che la Marmolada e le valli dolomitiche, destinate, dopo la guerra, ad un grande sviluppo come stazioni sciistiche, erano territori stranieri. Cortina, che già aveva scoperto la sua vocazione turistica, entrò a far parte del territorio nazionale, unitamente al Tirolo del Sud, solo dopo la fine della Grande Guerra.
Negli anni immediatamente seguenti, austriaci e tedeschi frequentarono le Dolomiti come alpinisti; lasciando ammirevoli esempi di coraggio e abilità. Ci limiteremo ai nomi di Emil Solleder e Gustav Lettenbauer che nel 1925 aprirono la prima via alpinistica di sesto grado sulla parete Nord-Ovest della Civetta. Lento fu, alla fine degli anni ’20, il ritorno degli sciatori sui nevai che ancora non erano piste e che fino a pochi anni prima erano teatri di guerra.
Un gustoso esempio di pubblicità ingenua è quella adottata dalla ditta “Cornetto”che nel 1927 produceva una crema per cinghie di cuoio, notevole per due motivi. Il primo è che la denominazione del prodotto è in inglese (American belt oil) il che indica che il messaggio era indirizzato ad un pubblico acculturato. Il secondo che il personaggio – oggi si direbbe testimonial – Filiberto Ludovico di Savoia-Genova, Duca di Pistoia, era un nobile strettamente imparentato con la Casa Reale. E anche questo fornisce indicazioni sulla platea oggetto del messaggio.

Un caso interessante è rappresentato dall’evoluzione della pubblicità della ditta Merlet. Nato a Vienna nel 1886, Erwin Merlet fece studi di medicina a Innsbruck e, conseguita la laurea, si iscrisse all’Accademia di Belle Arti di Monaco. Dopo essersi dedicato all’arte, acquistò fama come alpinista, avendo compiuto imprese di alto livello con Gunther Langes nelle Pale di San Martino: la scalata dello «Spigolo del Velo» della Cima della Madonna nel 1920. Nel 1925 Merlet si diede al commercio di articoli per la montagna, sia estiva che invernale, aprendo negozi a Bolzano e a Cortina d’Ampezzo. Come artista produsse dipinti notevoli di ambiente alpino, ma fornì anche opere importanti come illustrazioni pubblicitarie, sia per la propria azienda, che per le stazioni turistiche. Morì a Bolzano nel 1939, senza vedere riconosciuto il proprio genio artistico.
Le opere che ha lasciato sono una testimonianza di amore per una montagna che stava scomparendo in favore di un’ideologia a cui resisteva inutilmente. Il manifesto pubblicitario del 1930 – gli affari della ditta non andavano troppo bene – parla infatti di una montagna diversa da quella, domata, che si avviava a diventare patrimonio diffuso.

L’immagine pubblicitaria del 1928, quella di uno sciatore di fondo, testimonia che lo sci di discesa non si era ancora affermato presso il grosso pubblico.

Il testo del 1935 rivela che, nella concezione di Merlet, la transizione dallo sci inteso come attrezzo alpinistico allo sci inteso come attrezzo sportivo non era ancora avvenuto.

Altri all’inizio degli anni ’30, avevano sciolto le vele commerciali al nuovo corso dello sci che si andava affermando, grazie alle nuove facoltà di accesso alle stazioni invernali, e alle nuove tecniche di battitura delle piste. Fra queste la ditta Vieider di Bolzano e la ditta Cola Astier di Milano, delle quali riportiamo due locandine pubblicitaria.

Il fiorire della pubblicità di prodotti legati all’attività sciistica e all’espansione di centri turistici ebbe inizio alla metà degli anni ’30. Non si può non restare colpiti dal confronto fra la rappresentazione delle gioie dello sci e degli agi offerti dai lussuosi soggiorni in quota, che sembrano ispirare il cinema dei telefoni bianchi e la realtà durissima conseguenza – anche- dell’onda lunga della grande crisi economica del ’29.
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1) Felice Mondini, «Abbigliamento e arredamento degli alpinisti», Rivista Mensile del CAI, Luglio 1896, pp. 284 – 285.
2) Nansen, Fridtjof, The first Crossing of Greenland, Longmans, Green , and Co., London, 1892.; Nel cuore della Groenlandia. 1888: la prima traversata con gli sci, a cura di Davide Sapienza, Galaad Edizioni, 2011.
3) Paulcke, Wilhelm, Der Skilauf in den Alpen: eine Anregung, Alpenverein, 1901; Der Skilauf, Seine Erlernung und Verwendung im Dienste des Verkehrs, sowie zu touristischen, alpinen und militärischen Zwecken, Aufl, Freiburg, 1908.
4) Zdarsky, Mathias, Die Lilienfelder Skilauf-Technik, eine Anleitung für Jedermann, in einigen Wochen den Ski vollkommen zu beherrschen, Verlagsanstalt, 1897.
5) Arnold Fanck, Hannes Schneider: Wunder des Schneeschuhs. Ein System des richtigen Skilaufens und seine Anwendung im alpinen Geländelauf. Hamburg 1925.
6) Arthur Conan Doyle, Sulle Alpi svizzere, Nuova Editrice Berti, Parma 2019.
7) Delay, Vincent, Conan Doyle, Sherlock Holmes et la Suisse, Atti del Museo “Museo Sherlock Holmes”, Lusens, 2005.
8) Arthur Conan Doyle, «Crossing an Alpine Pass on Ski», Strand Magazine, dec.
9) Quin, Gregory, Tissot, Laurent, Leresche, Jean-Philippe, Le ski en Suisse, une histoire, Chateau et Attinger, Orbe, 2023.
10) Mann, Thomas, Der Zaubeberg, Fisher Verlag, Berlin, 1924.
11) Mann, Thomas, La montagna incantata, traduzione di Ervino Pocar, Corbaccio, Milano, p. 454.
12) Mann, Op. cit, p. 455.
13) Mann, Op. cit, p. 462.
14) Hess, Adolfo, Gli «Ski» norvegesi, loro storia, uso e applicazione, specialmente agli eserciti ed all’ alpinismo, Bollettino del Club Alpino Italiano, Torino, 1899.
15) Hess, Adolfo, Op. cit., p. 370.
16) Ghiglione, Piero, «Salti in sci», Rivista Mensile del CAI, novembre 1923.
17) Ghiglione, Op. cit.
18) Hess, Adolfo, Op. cit., p. 380.
19) Zavattari, Oreste, «Gli skj nella guerra d’inverno sulle nostre Alpi », Rivista Militare, n.5, 1900; Marce in montagna sulla neve , Biblioteca Militare Alpina, vol. II, 1° F. Casanova editore, Torino, 1900.
20) Zavattari, Oreste, « Gli ski e i nostri Alpini», Riv. Mens. del CAI, febbraio 1902, pp. 40-48.
21) Zavattari, Oreste, Op. Cit:, pp. 45-51.
22) Zavattari, Oreste, Rapport sur les expé riences faites sur la neige en Italie dans ces dernières années, Librairie, Militaire, Henri Charles-Lavauzelle, Paris, 1904.
23) De Zulian, Franco, «Lo “slalom” gigante in Marmolada », Rivista Mensile del CAI, febbraio 1935, pp. XXIII – XXVII.
24) Schneider, Hannes, Fanck, Arnold, Die Wunder des Schneeschuhs, ein System des richtigen Skilaufens und seine Anwendung im alpinen Geländelauf, Hamburg, Gebrüder Enoch, 1925.
25) Lunn, Arnold, A History of Ski-ing, Oxford University Press, H. Milford, 1927 , Cap. 8.
26) Scotti, Gaetano, Rivista Mensile del CAI, novembre 1904, p. 440.

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Rivista Mensile del CAI, febbraio 1900

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Riv. Mensile del CAI, gennaio 1915

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Pubblicità della ditta Merlet, Riv. Mens. del CAI, Febbraio 1928

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Rivista Mensile del CAI, febbraio 1935

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Pubblicità della ditta Merlet, Riv. Mens. del CAI, gennaio 1933.

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Pubblicità della ditta Merlet, Riv. Mens. del CAI, febbraio 1935

Pubblicità della ditta Merlet, Riv. Mens. del CAI, marzo 1934.

Ledo Stefanini

Docente di fisica all'Università di Pavia (sede di Mantova), studioso di storia dell'alpinismo.


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