Racconto

ANNA E MISTER ROOSEVELT #7

Parcheggiai con una derapata la Bugatti accanto all’abete al centro del piccolo piazzale. Lo avevano anche addobbato. Già, pensai, in fondo fra tre giorni è pure il 25 dicembre. «Guarda Anna, che bell’albero di Natale!».

testo di Franco Faggiani

Rifugio Antonio Curò (Archivio Fotografico Guido Ferrari)
23/12/2022
7 min
«Babbo... scusa...».
«Che c’è?», domandai con un tono leggermente gracchiante che di solito non era il mio.
«Niente». Probabilmente si era accorta della mia apprensione.

Alzai lo sguardo dalla strada innevata che separava in due il fitto bosco dei larici e tentai di fissarlo sullo specchietto retrovisore che tremolava ai sobbalzi della Bugatti avuta in prestito, per l’occasione, da un collega del giornale; facoltoso, monarchico e gran cacciatore di zitelle della borghesia torinese più defilata ma, per questo, più danarosa.
Un po’ di sudore agli angoli degli occhi i pulviscoli di terra ghiacciata entrati dentro contribuivano a rendere più difficile la messa a fuoco.

«Che c’è!”, chiesi di nuovo e con maggior veemenza, facendo roteare gli occhi dallo specchietto alla strada, per via dei due tornanti secchi in arrivo. Avevo fretta, non potevo certo bucare l’appuntamento, ma dovevo essere prudente, accidenti all’inverno che arriva sempre senza farsi annunciare, silenzioso e bianco.

Anna non rispose. Tentò di sorridermi, notai con la coda dell’occhio. Era pallida e sudava nonostante il freddo. Forse le avevo comprato il vestito nuovo troppo accollato. Accanto a lei, sul sedile posteriore, Franklin Delano Roosevelt, detto Frank per comodità nel richiamo, stantuffava alito a ritmo sostenuto, con gli occhi chiusi e cisposi e la lingua ormai quasi bianca e rugosa.
Anna aveva undici anni ed era mia figlia. Sua madre era morta sei anni prima e lei aveva vissuto buona parte della sua infanzia con i nonni, a Roma, e un po’ con me, quando il giornalismo nomade attraverso le province del nord ovest italico subiva fortunosi attimi di sosta.
Ora, però, anche per me la situazione stava per cambiare.

Frank era un golden retriver che mi aveva regalato due anni prima, al mio ritorno dagli Stati Uniti dove avevo seguito vari avvenimenti, comprese le elezioni presidenziali, una signorina di buona famiglia biellese con la quale avevo avuto una relazione lunga e, credevo, solida. Invece non lo fu poi tanto. Si innamorò di un altro (quando me lo disse lo avevo capito già dalla premessa: «Non ci sei mai quando ho bisogno”) e non ci furono neanche tanti convenevoli. Semplicemente non si fece più viva e Mister Roosevelt era tutto quel che mi rimaneva di lei.

«Babbo… mi viene da vomitare”, disse Anna in un perlage sempre più fitto di sudore. Lo disse in un fiato crescente. Alzare gli occhi al cielo, imprecare e poi pentirsi, schizzare dalla macchina fu un tutt’uno.
Mister Roosevelt, piuttosto eccitato per l’aria fresca e l’inaspettata libertà, saltò giù come un felino, nonostante la stazza e l’indolenza, quasi travolgendo Anna.
Lei scese lentamente.
Rimase per un po’ con le braccia conserte e gli occhi acquosi a fissare i vapori che salivano dal sottobosco, per via del gelo che aveva passato la notte acquattato tra ramaglie e cespugli e adesso cercava di disperdersi nel sole. Poi piegò leggermente il busto in avanti e vomitò. Con molta dignità.

«Scusami babbo», disse poi, «sono emozionata».
Mi intenerì, con questa sua giustificazione; forse non sapeva neanche bene il significato di emozione.
«Non potevi fare tutto prima, quando ti sei fermata a fare pipì?”, le chiesi cercando di scherzare.
«Ma non mi veniva», rispose seria.
«Stai meglio?». Poi, senza aspettare risposta, avevo aggiunto, «torna in macchina che è tardi». Mi misi a fischiare per richiamare Frank, subito partito alla ricerca di qualche capriolo nel bosco, con cui ingaggiare una gara da perdente, un inseguimento di breve durata. Un vezzo, più che una caccia.

Il cane tornò subito e saltò dietro con la solita irruenza, finendo in grembo ad Anna che rise e lo accarezzò. Era andato a bere in una pozza e c’era pure entrato dentro. Le gocciolò acqua e fango sul vestito, sul quale avevo già fatto finta di non notare alcune tracce di saliva. Ma così era davvero impresentabile.

E adesso? Non potevo tornare indietro, ero già in folle ritardo. Mi venne l’ispirazione quando vidi il cartello di latta ammaccata che indicava l’alpeggio di Fosco Gualtieri, malgaro e addetto alla manutenzione delle mulattiere.

Girai con decisione verso il vallone, consapevole del rischio di non uscirne più, affrontando la salita con la Bugatti che faceva schizzare sassi e piccoli blocchi di ghiaccio dappertutto e mi fermai solo davanti alla porta della baita, che per fortuna aveva un camino sbuffante, segno che dentro c’era qualcuno. La macchina era un disastro, striata di terra grigiastra rappresa e aghi di pino marrone.
«Rossella!”, gridai, «Fosco!».

La possente signora Gualtieri uscì facendo gemere la grande porta in legno e mi abbracciò con vigore. «Monsieur Umberto, che bello. Auguri… ma qui, a quest’ora?”.
«Guardi”, dissi quasi piangendo, puntando l’indice accusatore, senza voltarmi, sulla mesta Anna.
Rossella, donna delle terre alte, di lavori duri, di tempeste e soprattutto madre di sei figlie femmine, non esitò. Prese Anna in braccio e zompò dietro la porta, sparì oltre la cucina, gridandomi un perentorio «entri!».
Invece rimasi fuori, a guardare il sole che cercava di intrufolarsi tra gli smunti rami dei larici. Infilai la mano nella tasca del panciotto ormai sgualcito per cercare con timore l’orologio. Non c’era, era rimasto a casa, appoggiato chissà dove. Quando ritrassi la mano, sotto le unghie avevo dei minuscoli grani di lavanda. Ce li aveva messi Anna. Lo faceva spesso. «Così le tue dita d’inchiostro si profumano un po’», diceva con quel suo fare protettivo.

Mi guardai istintivamente i palmi. Erano un po’ sudati ma le punte delle dita si erano normalizzate dalle grinze bianche e non odoravano più di sapone da cucina. Prima di uscire di casa avevo lavato pentole e padelle e due pile di piatti della sera precedente. Gli amici e i colleghi della Stampa e quelli del locale settimanale cattolico La Valsusa avevano democraticamente scelto la mia grande cucina per discutere fino a notte fonda, sfiorando a volte i limiti della rissa, su quanto si erano detti il giorno prima Hitler e Mussolini a conclusione del loro incontro a Venezia. E poi per cercare goliardicamente di convincermi a non caderci una seconda volta. E infine, visti vani i loro sforzi, per farmi gli auguri.
A mie spese però, viste il prosciugamento indiscriminato delle bottiglie di Grignolino e di Barolo che proteggevo da tempo in una nicchia, non poi così tanto ben nascosta, nel muro della cantina.

Era fine giugno del 1934, io avevo quarant’anni e stavo per sposarmi di nuovo. Martina aveva trentuno anni, era una torinese d’oltre-Po, della collina di Superga. Era allegra e bionda, con i capelli tagliati cortissimi, da ragazzo, e suonava la viola in un’orchestra da camera e tutti la guardavano con attenzione. Come del resto avevo fatto anche io, lo scorso anno. Di sicuro con molta più attenzione degli altri.

Mister Roosevelt, che era venuto ad accucciarsi e a sbavare pure sopra le mie scarpe, alzò la testa di scatto.
«Pronti!» disse Rossella uscendo di corsa e buttando, quasi, Anna sul sedile posteriore della Bugatti.
«Tenga il cane davanti e lasci un po’ di spiragli nei finestrini della macchina, che l’aria deve entrare, sennò la bambina non respira. Meglio con le gote rosse che con il pallore dell’affanno. Poi arriva un po’ scapigliata fa niente, è bella sempre. E tanto”, aggiunse ammiccando verso il fondo valle, «la sposa lo stesso, stia tranquillo, anche se si presenta con quelle scarpe lì e il vestito un po’ conciato…».

Non finii di ascoltare le raccomandazioni, partii senza nemmeno ringraziare, con la macchina che sculettava sullo strato sottile di neve che ricopriva la strada come Mister Roosevelt quando gli porgevo la ciotola piena.
Anna stava meglio, aveva ripreso un po’ di colore. Era pettinata e profumata nel vestito celeste a fiori, un po’ démodé, della figlia più giovane di Fosco e Rossella.
Mi sorrise nello specchietto. Riuscii a tornare senza danni sulla strada principale, che regalava per fortuna qualche tratto dritto, e potevo dare un po’ di gas, anche se, per la tensione, avevo la schiena e le braccia rigide come i tronchi storti dei faggi che sembravano venirmi incontro dal basso della valle.

Il ruggito del motore sembrava voler annunciare una valanga. Dopo i rettilinei, ma ancora lontano, c’erano tre grandi curve e poi la chiesa, le cui campane dovevano aver smesso di echeggiare per la valle da un pezzo.
Ero in ritardo di quasi un’ora. Martina però la vidi subito, sulla soglia, tra gli ospiti imbacuccati che le stavano intorno, forse per consolarla o per proteggerla dal freddo o forse per dirle lascia perdere sei ancora in tempo, quello che vorresti sposare è uno squinternato. Come fai a fidarti?

A un certo punto guardarono tutti verso di me. Il polverone di neve che saliva dietro la Bugatti come il fumo di un incendio, doveva avermi annunciato e, nelle curve, avevo anche suonato timidamente il clacson semicongelato, che aveva emesso il verso della cornacchia sfrontata che veniva a chiedere il pane vecchio becchettando sul vetro della finestra della nostra cucina. C’ero quasi, la nuova vita stava per cominciare. Parcheggiai con una derapata la Bugatti accanto all’abete al centro del piccolo piazzale. Lo avevano anche addobbato. Già, pensai, in fondo fra tre giorni è pure il 25 dicembre. «Guarda Anna, che bell’albero di Natale!».

Ma Anna e Franklin Delano Roosevelt s’erano nel frattempo addormentati.

"Dietro la spalla stanca". Il Natale di Altitudini 2022.

Anche quest’anno per farvi gli auguri di Natale, abbiamo preparato un piccolo calendario dell’Avvento, segnato da quello che rende prezioso il nostro magazine, che ci condurrà al prossimo Natale.

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Palle di natale 2022_03
Franco Faggiani

Franco Faggiani

Vive a Milano, giornalista, come si ama definire, di lungo corso e lungo sorso, essendo passato, dopo anni di reportage in giro per le aree più calde del mondo, a scrivere di enogastronomia per numerose riviste internazionali. I suoi romanzi sanno condurci, in modo gentile, dentro storie di coraggio e di profondi sentimenti. Con "La manutenzione dei sensi" (Fazi Editore, 2018), vincitore del Premio Parco Majella 2018, del Premio Letterario Città delle Fiaccole 2018 e del Be Kind Award 2019, si è fatto conoscere e amare da moltissimi lettori. Con "Il guardiano della collina dei ciliegi" (Fazi Editore, 2019), ha vinto il Premio Biblioteche di Roma 2019 e il Premio Selezione Bancarella 2020. Il suo ultimo libro è "Tutto il cielo che serve". Da leggere assolutamente.
Franco è tra i più generosi amici di altitudini.it, perché, come quelli di altitudini, ama scrivere e vivere di montagna.


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1 commenti:

  1. Luca ha detto:

    Un saluto ad Anna e Frank.

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