Non ho alternative, devo girarmi e lasciarmi andare. Lo zaino mi proteggerà la schiena, l’attrito dei talloni mi eviterà di prendere troppa velocità. Sono attimi senza conoscenza, corrono veloci. Mi ritrovo alla fine della neve, i piedi puntati sulle prime roccette. Tremo, ho delle ferite sulle mani, ma ne accorgo solo dopo una decina di minuti quando riapro gli occhi. Resto lì, nel piccolo cuneo senza sole della montagna. Poi mi rialzo, faccio due passi e mi metto al sicuro. Continuo a tremare. Mi sfilo lo zaino, ho i pantaloni rotti. Tolgo qualcosa da mangiare, ma ho un nodo che mi chiude la gola.
Le gambe continuano a tremare, l’aria fredda che soffia dal ghiacciaio mi scuote. Guardo la valle e accanto a un masso erratico, riconosco due punti colorati fermi. Stiamo vivendo due realtà parallele eppure completamente differenti. Sono le due facce della montagna. Sul prato al sole i due sconosciuti si stanno godendo gli ultimi istanti prima di raggiungere la città, mentre io sono ancora in bilico tra il freddo e la paura. Tra l’incoscienza e la speranza. Mi precipito verso di loro. Voglio raggiungerli, ho un bisogno inspiegabile di umanità, mai provato prima. Prego che non se ne vadano, che mi aspettino. Le ginocchia mi cedono, inciampo e sembra non abbia più il controllo delle gambe. Eppure alla fine ci arrivo, quelli che un’ora fa erano solo due puntini colorati, ora sono lì, a pochi passi da me. Mi avvicino e senza neppure accorgermene racconto loro quanto mi è accaduto. Mi offrono del tè caldo. E dopo poco riprendiamo il cammino insieme.
La montagna non la si domina, ma la si conosce, la si capisce, le ci si adatta. Alle volte la si sopporta e la si ama così com’è. Ci sono tornata in Valle Adamè. Ho passato la notte al bivacco Cecco Baroni.
E ho fatto pace con me stessa e con la mia stupidità.