Era solo un piccolo volatile indifeso quando arrivò. Attirato con astuzia da uno specchio per allodole, non gli pareva vero poter planare e adagiarsi finalmente dopo gli sforzi prematuri che la vita gli aveva messo innanzi.
Felice della nuova sistemazione. O quantomeno tranquillo, rilassato nella speranza di non doversi più guardare alle spalle, conscio di essere circondato da predatori di ogni genere.
La gabbia cominciò così ad essere costruita mentre ancora l’uccellino si guardava attorno, spaesato da un mondo dove affermarsi voleva dire arrivare a sera, tirare a campare.
“Agiatezza” prese presto il posto di “sopravvivenza” nel suo vocabolario.
La costruzione della gabbia procedeva più velocemente di quanto potesse rendersene conto. Dalle zampette arrivava già agli occhi. Occhi che cominciavano a farsi grandi e tristi. Una stia non di acciaio o di chissà quale lega speciale. La gabbia fu realizzata con steli di finta amicizia, mascherata alla vista dietro a cumuli di mangime e promesse. Issata mentre lo sguardo era attirato altrove, chiusa con chiave di volta e doppio lucchetto.
I tempi dei canti e degli allegri cinguettii erano finiti, nemmeno qualche cip dentro la gabbia e la stanza dov’era posto il volatile. S’era fatto grigio e silenzioso, non cantava più da intere annate.
Guardava le montagne dalla finestra, quei picchi di roccia così elevati che si stagliavano nei cieli della Carnia, erano l’unico sollievo rimasto.
Quel gracchio non aveva più scampo, non avrebbe più volato né cantato.
Gli amici che svolazzavano nei pressi lo incitavano a resistere, gli davano coraggio. La gabbia poteva essere rotta, i materiali di base non erano nobili. La via di fuga restava quella porticina con il lucchetto, un lucchetto forse troppo grande per il pennuto.
Doveva scappare, seguire il suo istinto ma la paura della fuga lo attanagliava. Continuare a vivere un’esistenza sicura, ma da recluso?