Reportage

LAUGAVEGUR: MALÌA DI UN TREKKING ISLANDESE

Un viaggio in Islanda è un'occasione per entrare a far parte, facendosi piccoli piccoli, della Natura. Con Laura Bortot il viaggio tra vulcani, fiumi e ghiacciai è anche un viaggio dentro le parole, e quelle della Terra di Ghiacci sono così, con lei, meno inaccessibili.

testo e foto di Laura Bortot  / Thiene (VI)

27/08/2022
13 min
C’è un luogo, oggi raggiungibile con un volo di poche ore, che resta mitico e misterioso: quel luogo è l’Islanda. La terra dei ghiacci.

Andarci è un’occasione per entrare a far parte, facendosi piccoli piccoli, della Natura. Ognuno lo fa a suo modo. I più sensibili, allora come in questa caldissima estate, sanno vedere e raccontare quello che hanno visto. Con Laura il viaggio tra vulcani, fiumi e ghiacciai è anche un viaggio dentro le parole, e quelle della Terra di Ghiacci sono così, con lei, meno inaccessibili.
∼ la Redazione di altitudini

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29 luglio 2022 – Giornata di avvicinamento, alle estremità due escursioni e nelle ore centrali un tragitto in furgone che ci conduce da una terra civilizzata, per quanto poco, a paesaggi via via più aspri, solitari, immensi.
La prima escursione inizia sulla soglia di una piccola formazione montagnosa che appartiene a un altopiano più esteso caratterizzato da periodiche eruzioni fissurali: Fagradalsfjall, in realtà più un sistema di fenditure che di crateri. Il suo picco più alto misura 385 m. Il vulcano è tornato in attività nel marzo del 2021 dopo un lungo periodo di quiescenza (l’ultima eruzione risaliva al XIII secolo) e si trova a circa quaranta chilometri da Reykjavík, a sud dell’omonimo monte Fagradalsfjall. I primi di agosto di quest’anno il vulcano è tornato a eruttare.

Il sentiero si allunga in mezzo ai prati, poi solca un terreno sassoso e infine si blocca davanti a una distesa di lava grigio-nera, al tatto roccia abrasiva, bucherellata da minuscole bolle di ossigeno che le danno un aspetto spugnoso. Dobbiamo arrampicarci sui bordi di questo mare cristallizzato per poter sollevare lo sguardo e renderci conto dell’enorme colata che ha cambiato i tratti al paesaggio preesistente. Due sono gli stati d’animo: la sensazione di violare in qualche modo una natura forte che respinge le impronte dell’uomo, e una sorta di straniamento per la difficoltà a memorizzare i nomi di questi luoghi. E ugualmente due sono i pensieri che nelle ore e nei giorni successivi risponderanno a questi primi stati d’animo. Alla bellezza e all’infinito non è possibile sottrarsi, ma si può percorrere la traccia segnata – eco di orme antiche – con passo lento, silenzioso, rispettoso, e mettendosi in una condizione di ascolto; la lingua, che scandisce tappe forse più recenti, come sempre dischiude itinerari, valichi, scorci, e ci vuole pazienza, amore.

Cammino con attenzione su un suolo lunare dalla conformazione ondosa, corrugata, che in certi punti rivela fori e fenditure da cui escono fumi grigi e odore di zolfo. Le fumarole ci accompagneranno per tutto il trekking. Fjall in islandese significa rilievo, montagna. La lingua di questa terra è agglutinante, giustappone morfemi distinti che tendono a rimanere invariati; ogni morfema veicola un singolo significato. Una constatazione che nel corso dei giorni acquisirà nel paesaggio una sua evidenza plastica e descrittiva.

Il furgone corre su una pista sterrata. Guadiamo due torrenti entrando in acqua fino a metà delle portiere. Verso le cinque di pomeriggio arriviamo al rifugio dove passeremo la prima notte: letti a castello di legno addossati alle pareti, un tavolo al centro della stanza, una stufetta e un angolo cucina. Wc esterno, doccia a duecento metri in un casottino battuto dai venti. I rifugi si somiglieranno tutti. Lasciamo gli zaini e ci avviamo a piedi lungo un sentiero che si inerpica sul crinale di un vulcano dormiente, ormai ricoperto da una vegetazione bassa verde e rosata.

Quando lascio il sentiero e metto il piede sul terreno colorato mi accorgo che si tratta di licheni e muschio: è come camminare su un materasso di gomma, i licheni arpionano le suole delle scarpe e non si scompongono, anzi ti accompagnano, ti sollevano quasi. Percorriamo una traccia sempre più esile per tre ore, discendendo e risalendo avvallamenti e rilievi. In lontananza intravediamo un lago blu. Il vento dissolve le frenesie e le sollecitazioni della vita civilizzata che ci siamo lasciati alle spalle, scompiglia i pensieri, li rende fluidi, sottili, docili. Si allentano le resistenze, la luce di un sole che non accenna a tramontare disegna un orizzonte curvo, un sorriso.

30 luglio 2022 – Il trekking inizia a Landmannalaugar, toponimo in cui riecheggia anche una parte del nome del trekking stesso: Laugavegur. La prima ora di cammino è tranquilla, poco impegnativa, e quindi la mente vaga e ritorna sulle parole, sulla lingua. Landmannalaugar, vi individuo tre morfemi, land, che, come in molte lingue europee, significa paese, terra, manna, che significa uomo (per deformazione professionale riconosco il tedesco Mann, ma anche l’inglese man) e laugar che in base alle mie ricerche si riferisce a pozze di acqua calda, o sorgenti. Il termine mi descrive perfettamente il luogo da cui siamo partiti: piscine naturali per l’uomo che si è impadronito di questa terra, per il primo colonizzatore quindi, un ristoro per il viaggiatore stanco che già in tempi remoti attraversava queste lande (!) sferzate dai venti ed esposte alle intemperie, fino a raggiungere il mare.

L’area è caratterizzata da un’intensa attività geotermica e da una geologia particolare. Ce ne accorgiamo quando cominciamo a salire. Il sentiero (vegur, e di nuovo vi riconosco il tedesco Weg, ma anche l’inglese way) si arrampica in mezzo a cime e pendenze ghiaiose colorate di giallo, arancione, rosso, con lingue verdi e striature azzurre. Qua e là nevai perenni. Responsabile di questo arcobaleno roccioso è la presenza di minerali combinati alla riolite e di affioramenti di ossidiana. Gli sbuffi di fumo, gli interstizi e le screpolature che tradiscono un ribollire sottostante di acqua e fango, creano un’atmosfera quasi surreale, un ordito di riflessi cromatici che sembra appartenere a una realtà contemporaneamente troppo antica per essere ricordata e troppo futura per essere intuita.

Per la prima volta provo una sensazione che emergerà ancora, nei giorni successivi, una sorta di proiezione distopica e onirica: da un lato mi sento sul ciglio di una reminiscenza, che mi rivela una natura primordiale poi scivolata nell’oblio, dall’altro sono catapultata in una realtà metastorica in cui l’uomo è ormai ammutolito e la natura ha ritrovato il suo spazio. Ma non ho il tempo di ragionare a lungo su queste percezioni perché il paesaggio cambia di nuovo, e improvvisamente. Dopo aver sostato in una valletta riparata e solcata da ruscelli e sussurri di sorgenti calde proseguiamo su un terreno che diventa via via più impervio, sassoso e nero, una distesa di polvere e residui vulcanici su cui si allungano, sempre più frequenti e ampi, i nevai. Le tonalità cromatiche che mi hanno riempito gli occhi si spengono in un paesaggio in bianco e nero dai contorni definiti.

Mi raggiungono altri pensieri: i colori sono invasivi, propulsivi, innescano emozioni, incidono, scuotono, accarezzano in un inevitabile movimento estroversivo dell’animo. Il bianco e nero invece introverte, ripiega un lembo alla volta, ansiti, refoli, soffi, e riporta a una dimensione riflessiva ancorata a due sole cromie, che di fatto sono una l’opposto e quindi la negazione dell’altra. Il pensiero recupera spessore, consistenza, definizione, confine. Il paesaggio aspro, la neve che comincia a cadere, il vento che ci fa procedere lenti e cauti mi fanno immensamente bene. Sfrondo, semplifico, mi ascolto. In profondità. Gli omini di pietra mi ricordano che siamo esseri fragili. E che abbiamo bisogno di segni.

Il suolo diventa una distesa ghiacciata senza orizzonte su cui camminiamo fino a raggiungere il rifugio Hrafntinnusker, dove letteralmente ci rifugiamo per mangiare il nostro panino. Hrafntinna è l’ossidiana (lett. “pietra corvina”), sker significa scoglio, roccia, scogliera. Il percorso originario prevedeva di concludere qui la prima giornata, ma poi si è deciso di unire due tappe, proseguire lasciandoci alle spalle questo altopiano graffiato dal respiro dei ghiacci e infine raggiungere il lago Àlftavatn.
Lo vedremo dall’alto, dopo un continuo saliscendi su terreni che impercettibilmente riacquistano colore e si corrugano sul filo di una miriade di torrenti e torrentelli nutriti dai nevai. Il lavoro di scavo dell’acqua conforma il paesaggio ricavando grotte dentellate sotto la neve che a sua volta protegge nuove lingue di vegetazione verdissima, le quali si specchiano insieme al cielo, ora di un azzurro intenso, nei rivoli e nelle pozze.

Sulla sommità di uno di questi nevai cavi individuiamo un uccellino bianco e nero, l’unico animale che incontreremo in questi giorni di trekking. Una presenza minuscola, immobile, quieta, forse di nuovo un segno, un saluto di qualcuno che ho perduto un anno fa.
Guadiamo due torrenti, il primo camminando sul greto o saltellando da una pietra all’altra, il secondo togliendo le scarpe e infilandoci i sandali: l’acqua è gelida, imparo ad assecondare la corrente; quando mi rimetto in moto mi sembra di volare.

Scendiamo lentamente attraversando altri nevai, sempre più esili, mentre le increspature del terreno brillano di un verde irreale e compaiono i primi, solitari fiorellini rosa. Solchiamo poi una serie di valli finché non ci troviamo sul ciglio dell’altopiano e scorgiamo il lago. Sulle sue sponde il rifugio dove dormiremo. A quel punto il sentiero si precipita ripido e faticoso verso Àlftavatn. La vista è travolgente. Vatn, acqua, lago, inevitabile il richiamo al tedesco Wasser e all’inglese water.

31 luglio 2022 –  Riprendiamo il cammino su immensi altopiani ricoperti d’erba, con la consapevolezza di essere ancora in quota. Una quota quasi ridicola se pensiamo alle nostre montagne (le Alpi o le Dolomiti), poco meno di mille metri, ma ovviamente qui è la latitudine a giocare un ruolo. Quali sono i colori dell’infinito, delle distese senza orizzonte? Lo spazio si tinge di verde, di marrone in tutte le sue gradazioni, di un incredibile giallo acido in prossimità dei torrenti. Nel cielo azzurro corrono le nuvole.
Approfittiamo del tempo buono e lasciamo gli zaini ai piedi di un piccolo vulcano spento. Quindi ci arrampichiamo su un sentiero ripidissimo che sale a zig-zag seguendo il filo di una corrugazione. Sulla sommità ci aspetta una vista a 360° per cui non ci sono parole. Ci abbandoniamo senza resistenze alla bellezza che ci abbraccia da ogni parte. Non riesco a trattenere le lacrime. Il sublime.

Al di là di questa deviazione oggi è prevista una lunga, lunghissima traversata, una giornata orizzontale. Anche i pensieri si distendono, e di nuovo indossiamo l’abito del viaggiatore antico, quando il tempo si misurava appunto in ore e giorni di cammino. Il battito del cuore, ognuno ha il suo, si accorda con il passo in un movimento ancestrale. Intorno e dentro di me un silenzio perfetto, forse molto vicino alla meditazione, in cui le vibrazioni del mio essere, i piccoli sussulti dell’animo, fluiscono e confluiscono lievi per poi allontanarsi e disperdersi.

Attraversiamo un ponte di legno e vediamo sotto di noi una cascata e un torrente impetuoso, Nyrðri Emstruá (il termine ricomparirà nel nome del successivo rifugio), che ha scavato un piccolo canyon. Fiume in islandese si dice á, nyrðri significa più a nord e insieme insieme a syðri è una tipica componente nei toponimi. La potenza dell’acqua irrompe come una perturbazione energetica, una scossa che riattiva, una dopo l’altra, le facoltà assopite in stato di quiete. L’acqua è energia pura, che si trasmette al corpo tanto vigorosa quanto invisibile.

Ancora una volta un mutamento repentino, il verde diventa nero. Ci troviamo davanti un deserto di lava di cui di nuovo non siamo in grado di definire i confini. Unici indizi di un orizzonte i profili, in lontananza, di due meravigliosi vulcani di un verde quasi acido. Sabbie e polveri vulcaniche riempiono lo sguardo, la prospettiva. E qui provo un senso di desolante solitudine, come se la terra si fosse fatta di colpo luogo cavo, obliquo, pronto a ingoiarmi, come se cominciassi a slittare, scivolare, senza appigli. Una condizione strana per me, che amo la solitudine e cammino spesso solitaria. Rimango volutamente indietro, e ancora mi metto in ascolto, questa terra mi parla. Eppure, in un angolo della mia coscienza sono grata di poter sollevare lo sguardo e vedere sulla traccia sottile e grigia del sentiero puntini colorati che si muovono verso i vulcani, gli zaini dei miei compagni di trekking.

La verticalità perfetta delle piramidi verdi che si avvicinano mi travolge. Stupore e meraviglia raddrizzano le obliquità e mi riportano in equilibrio. La bellezza assoluta che sto vivendo assume a questo punto due nuove sembianze: sono circondata da un deserto fiorito, e all’orizzonte si staglia il ghiacciaio Mýrdalsjökull. Minuscoli ciuffi di fiori rosa hanno trovato modo di crescere sulla sabbia vulcanica, mi guardo intorno e non posso che sorridere felice. Raggiungo gli altri per condividere quello spettacolo. E mentre mi rimetto in cammino, puntino giallo insieme a puntini rossi, blu e arancioni, mi perdo con lo sguardo sulla distesa di ghiaccio che ho davanti, un mare bianco, levigato, spaventosamente orizzontale (ma è solo l’abitudine ad altri scenari). Jökull significa ghiacciaio, tutti i nomi dei ghiacciai islandesi terminano con questo morfema; mýr è un terreno palustre (si ritrova nel tedesco Moor) e dal è collegato a dalur, valle (anche qui ritrovo il tedesco Tal). Come dicevo, una lingua plastica e descrittiva, come lo sono molte lingue antiche.

Ci lasciamo alle spalle il monte Hattafell (863 m., fell è una montagna isolata, piatta sulla sommità, e Hatta, qui azzardo e volo con la fantasia, potrebbe collegarsi a hattur, cappello, e quindi con effetto domino al tedesco Hut e all’inglese hut, che è rifugio perché copre e protegge) che sembra uscito da un sogno, e ci intrufoliamo in una valletta verde dove intravediamo il nostro rifugio, Emstrur-Botnar. Sono quasi le cinque di pomeriggio. Beviamo un tè, lasciamo gli zaini e partiamo per una nuova escursione. Un sentiero in salita ci porta sulla sommità di un altro altopiano.

E improvvisamente vediamo alla nostra destra lo strabiliante canyon Markarfljotsgljufur, profondissimo, tortuoso, scavato dal fiume Markarfljot. Allungando lo sguardo individuiamo la convergenza di due canyon in un paesaggio rugoso, inciso, concavo, definito da luci e ombre che precipitano, dilagano, si rincorrono sulle poche superfici piane. Gljufur: gola, burrone, abisso; fljót: fiume, ma con un letto più ampio di á, e suddiviso in vari rami (Fluss in tedesco, ma anche il latino fluctus non è lontano, nonostante il ceppo diverso); mark indica un segmento di terra (come la nostra marca).

1° agosto 2022 – Imbocchiamo un sentiero che digrada lentamente in un continuo saliscendi su dossi erbosi alternati a sabbie nere. Sappiamo di muoverci verso l’altro canyon, il Syðri-Emstruágljúfur, scavato appunto dal torrente Syðri-Emstruá che raccoglie le acque di scioglimento del ghiacciaio Mýrdalsjökull. Attraversiamo il canyon servendoci di un ponte sospeso e proseguiamo sull’altra sponda. Intorno a noi pareti basse, orizzontali, come tanti pilastri di roccia abbracciati, e poi ruscelli, tavolati, gole. Ci lasciamo alle spalle le rugosità e distendiamo nuovamente i pensieri in un paesaggio più aperto, una brughiera verde punteggiata di vegetazione rossa.

Dal ciglio ancora in quota di un tavolato vediamo sotto di noi un fiume di origine glaciale (Fremri-Emstruà) che si dirama in una miriade di rivoli e si allarga in un delta. In lontananza un luccichìo: il mare! Guadiamo il torrente appendendo di nuovo le scarpe allo zaino e quindi risaliamo una collina entrando in un boschetto. È la prima volta dall’inizio del trekking che ci troviamo immersi in una vegetazione “alta”. Percorriamo quindi tutto il crinale montuoso di Þórsmörk o Thórsmörk, letteralmente foresta (mörk) di Thor, la quale prende il nome dal dio della mitologia norrena.

Infine, attraversiamo l’immenso greto del fiume Krossá, davanti a noi montagne di un verde rigoglioso e lingue di ghiaccio che discendono direttamente dal Mýrdalsjökull, come se il ghiacciaio volesse proteggere con le sue lunghe dita una terra minacciata. Dormiamo al rifugio Básar. La tappa del giorno dopo sarà la più impegnativa, ma anche una delle più incredibili di questo trekking.

2 agosto 2022 – Oggi ci aspettano i due ghiacciai, Mýrdalsjökull e Eyjafjallajökull. Ci passeremo in mezzo. Il sentiero sale a zig-zag dal fondovalle, prima in un bosco, poi su terreni erbosi costeggiando un crinale che ci incanta per gli scorci spettacolari. Prendiamo quota molto rapidamente. E arriviamo sulla sommità sassosa di un altopiano che di nuovo ci toglie il fiato: il Morinsheiði. Heiði significa landa, altopiano, brughiera (esattamente come la brughiera tedesca del termine Heide, e con lo stesso poetico slittamento semantico che porta il termine a significare anche pagano, colui che risulta estraneo alla religione perché perso nelle brughiere desolate della non conoscenza di Dio).

Vediamo a volo d’uccello tutti i punti di riferimento che hanno scandito le nostre tappe. Possiamo idealmente ripercorrere il Laugavegur a ritroso, in qualche modo la distanza percorsa, il cammino, divengono misura della terra, della bellezza e del tempo della vita. Questo è il punto, penso: se la percezione della bellezza è istantanea e circoscritta rimane un evento, singolo, confinato in uno spazio comunque angusto. E questo evento può sì sedimentarsi nella memoria, ma tende a rimanere incasellato, perché la tendenza dei nostri giorni è quella di strutturare la memoria come un armadio con tanti cassetti che ci permettono di accumulare informazioni senza doverle perdere. Invece accade che chiudendo a uno a uno i cassetti per conservare suggestioni e informazioni abbiamo smarrito il senso del fluire delle cose, il senso della fragilità, della fugacità e quindi della perdita.

Il viaggiatore antico se poteva, se c’erano le condizioni, prendeva nota di qualcosa, ma certamente non percepiva il cammino come un susseguirsi di istantanee (come le nostre, inevitabili, fotografie di questi luoghi), bensì come un movimento continuo, un trascorrere, dove la nostra latina preposizione trans racconta di terre attraversate e oltrepassate, al ritmo di un tempo naturale, che trascorre a sua volta, il tempo del passo umano. Anche perché “correre” deriva dalla radice indoeuropea kar, che significa incedere, avanzare, senza quella fretta che abbiamo imparato a collegare al verbo latino e quindi italiano. Per andare oltre bisogna attraversare e trascorrere. Un insegnamento che è possibile adattare alla vita di ognuno di noi, a tutti i nostri piccoli e grandi accadimenti. E per cogliere davvero l’intensità della vita bisogna saperne accettare la fuggevolezza e la friabilità, come mi mostra questa natura che cambia, si colora, si spegne, si sgretola, si solidifica, si conforma e si deforma.

Saliamo rimanendo in cresta e proseguiamo su una traccia sempre più aspra e sassosa in direzione dei ghiacciai. Raggiungiamo un’immensa distesa di neve consistente, non faticosa, poi a un certo punto ci troviamo immersi nel bianco, neve sotto le scarpe, neve dal cielo. Il vento è sferzante. Eppure, le condizioni cambiano in maniera repentina e dopo un tempo che ormai non calcoliamo più vediamo lingue di sabbia nera e rossa che piano piano si sollevano fino a diventare piramidi. Percorriamo saliscendi, stretti tra i due ghiacciai Eyjafjallajökull e Mýrdalsjökull, al nostro fianco i crateri Magni e Móði del vulcano Fimmvörðuháls. Magni e Móði erano due figli di Þór, il primo nome deriva da magn, che significa quantità, massa, il secondo da móður, entusiasmo, animo, coraggio e … meraviglia: móðir significa madre, esattamente come in tedesco Mut è coraggio e animo, e madre si dice Mutter! Fimmvörðuháls: háls è un “collo” montano (come il tedesco Hals), vörðu è collegato al concetto di guardia, ma è anche il termine utilizzato in Islanda per indicare gli omini oppure ometti, che segnalano il sentiero. I due crateri sono gli esiti dell’eruzione del 2010 che ha trasformato il punto d’incontro dei due ghiacciai in un deposito di lava e di rocce minerali che assumono colori incredibili.

Rimaniamo in estasi di fronte a questo spettacolo. Ci rimettiamo in cammino e attraversiamo un’altra distesa di neve e ghiaccio fino a intravedere il più desolato e spartano dei nostri rifugi: Fimmvörðuskáli, dove skáli significa appunto rifugio, bivacco. Stando in piedi davanti alla porta vediamo il mare, quel mare verso cui ci dirigeremo il giorno successivo, ultima tappa del nostro trekking. Il ghiacciaio è lì a due passi, voglio camminarci sopra, ma poi, dopo il tè caldo, mi addormento. Lì per lì al risveglio mi arrabbio con me stessa, poi ripenso alle riflessioni di poche ore prima e capisco che non ce n’è motivo. Imparare a perdere qualcosa, lasciarlo andare, non chiuderlo in un cassetto. Il tramonto “notturno” del sole torna a commuovermi. All’orizzonte un velo rosato sfiora dolcemente il mare.

3 agosto 2022 – Partiamo con folate di freddo e di vento e scendiamo lungo un sentiero che seguirà per ore l’andamento tortuoso e precipitoso del fiume Skógaá, il fiume dei boschi (skógur: bosco, selva), il quale proviene dal ghiacciaio Eyjafjallajökull. Anche questa ultima giornata di trekking ci rivela viste mozzafiato. Il cielo si rasserena, il mare turchino illumina il verde dei prati e la roccia scavata dal fiume ci accompagna con una serie di cascate fino all’ultimo passo, davanti alla famosa, gigantesca Skógafoss, una delle cascate più famose dell’Islanda. Ogni cascata ci regala incredibilmente un arcobaleno, il sorriso dell’aria, dell’acqua, della terra e del fuoco (nella forma del calore del sole).

Strana la sensazione quando cominciamo ad avvicinarci al paesino di Skógar: cominciamo a incontrare persone, qualcuno fa il trekking in senso opposto, qualcuno si è arrampicato fin lassù per vedere a una a una tutte le cascate o per raggiungere il ghiacciaio. Poi la gente aumenta, troviamo gruppi e infine turisti: il mio primo istinto è un atteggiamento di difesa, saluto e proseguo oltre, non cerco sguardi né tanto meno parole. Così proseguo finché non sono costretta a uscire dal tempo antico e a volte irreale in cui sono stata immersa nei giorni precedenti, dal silenzio e dalle brughiere ventose della mia mente. E allora mi tengo stretto il cuore, tutta l’emozione della bellezza che ho attraversato.

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Grazie di cuore a Silvia Cosimini, bravissima traduttrice dall’islandese che ha controllato e integrato le mie incursioni linguistiche.

Laura Bortot

Laura Bortot

Amo le montagne e amo le parole. La montagna mi insegna a usare le parole come segnavia. Ogni tanto sono le parole ad aprire una via.
Sono traduttrice letteraria: cammino su due versanti, la lingua tedesca e la lingua italiana, vegetazioni diverse, scorci diversi. Ogni giorno attraverso felice questi territori.


Il mio blog | altitudini.it è la mia rivista digitale: mi fa viaggiare, camminare. In altitudini la vita e la montagna nutrono la scrittura e la scrittura lascia un segno nella vita e nella montagna.
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