“E se tornassimo indietro?”
“No”
Salendo verso la cima, il vento era sempre più intenso e la nebbia si intarsiava su capelli e ciglia, nella barba. La galaverna si ispessiva sugli occhiali, ingioiellando ogni superficie di spilli bianchi.
Arrivati sulla dorsale, la percorremmo verso destra fino alla sommità. Nella nebbia, ogni cima ha una valenza puramente orografica: qui finisce la salita, nel nulla.
Nicola, già arrivato avanti a me, era pronto a scendere e a recuperare Giulia poco più in basso. Mi feci scattare una foto per ricordare questa inverosimile calabrosa e, cercando di fare in fretta, mi rimisi gli sci. Iniziai la discesa con alcune curve, per poi fermarmi e chiedermi dove stessi andando e dove fossero gli altri. Il pendio non era familiare, in basso si aprivano solchi di roccia verticale e svanivano nell’invisibile, sopra la mia testa sporgevano cornicioni di neve minacciosi, testimonianza del severo impegno della Bora. Sentii gli altri che mi chiamavano dall’alto; urlai loro di aspettarmi, ma le mie parole venivano ricacciate indietro dal vento ed a poco a poco non sentii più le loro voci.
Calcolai che mi ci sarebbero voluti quindici minuti per risalire lassù: ero sul versante sbagliato ma non capivo come ci fossi arrivato. Tolsi gli sci e risalii faticosamente, fino a trovarmi in un punto nel quale si vedevano buchi di scarponi nella neve: un punto di sosta (mia o degli altri?), ma nessuna altra traccia di sci che rivelasse un verso, su questo pendio dove il vento aveva obliterato ogni segno.
E fu così che persi la bussola. Immerso nel bianco dove ogni punto è uguale, dove i contorni sono ombre e senza capire dove avessi sbagliato strada, rimasi inchiodato in quel punto, ogni riferimento scardinato dalla Bora, come se il mondo finisse a due passi in ogni direzione.