Reportage

#91 LA MONTAGNA DI ZEF

testo e foto di Marco Ranocchiari  / Roma

02/01/2021
8 min
Il Bando del BC20

La montagna di Zef

di Marco Ranocchiari

Dal finestrino del furgon, nel sottobosco ai bordi della pista, vedemmo una vipera dal corno. Il guidatore l’aveva vista chissà come e aveva inchiodato, e per poco non mordemmo tutti la nuca dei passeggeri davanti a noi.

Dal tettuccio, intanto, le corde che a stento reggevano il carico di comodità cittadine per i montanari lanciavano gemiti sinistri. L’autista si voltò verso le due escursioniste e i loro compagni con un sorriso a trentadue denti (uno lucente di metallo), invitandole a prendere la macchina fotografica.

Una vecchia in carne dalla pelle arrossata, intanto, non aveva neppure interrotto il discorso. Parlava nel modo che sembra accomunare tutti gli albanesi delle montagne: urlando, e rideva, forte, per poi farsi seria e tornare a ridere. Zef, il mio ospite, invece, la ascoltava serio serio.

Il rettile strisciava via lentamente. Le circostanze o l’anatomia gli davano un’aria visibilmente seccata, poi s’infilò in un anfratto e per tutti fu come se non ci fosse mai stato.
La pista si arrampicava nella penombra del bosco per stretti tornanti, poi “di colpo” dovemmo strizzare gli occhi nella luce abbagliante. Davanti a noi si aprì la vallata di Theth, contornata da poderosi bastioni di roccia grigio azzurra, mentre miriadi di guglie acuminate erano sfumate nei contorni da nuvole vaghe e chiazze di neve.

A Theth alcuni uomini attendevano gli escursionisti con in mano una bottiglia di rakì, che offrirono anche a noi passeggeri, inclusa la vecchia. Scesero tutti, uno dopo l’altro, finché a bordo solo Zef, il guidatore e io. Fino a K. mancava ancora parecchia strada.

Il vecchio diesel rantolava paziente, ma il furgon rimaneva fermo. Quando capì che non aveva intenzione di proseguire – solo due passeggeri, un vecchio montanaro e il suo ospite, non valevano il viaggio – il viso di Zef si contrasse. Si contrasse anche quello del guidatore, e io mi trovai al centro di raffiche opposte di insulti, al  massimo del volume, senza afferrare una parola.

Quando si quietarono, comunque, capii che bisognava rassegnarsi. Scendemmo. Ma come il guidatore mise la marcia indietro, il mio ospite balzò. Si aggrappò con tutta la forza delle sue mani nodose allo specchietto retrovisore, mentre il furgon ripartiva e inchiodava, sterzava, inchiodava di nuovo. Lui restava appeso, immobile. Quando mollò la presa – non la perse – si ritrovò in perfetto equilibrio. Si asciugò il viso nero, sputò, poi bofonchiò qualcosa che significava “andiamo”.

***

Intanto, gli escursionisti si sistemavano nei bed and breakfast ricavati dalle vecchie kulla, le antiche dimore fortificate. Sulla tavola li aspettava un pasto abbondante di peperoni arrosto, formaggio aspro, carne e acquavite. Nelle sistemazioni più ricercate, le serate sarebbero state accompagnate dal suono dell’unica corda della gusla, o lahutë, e dalla voce dei canti epici delle montagne albanesi. Se non era possibile comprenderne le strofe piene di battaglie, ospitalità, presagi, la melodia era ipnotizzante. L’indomani gli escursionisti avrebbero potuto avventurarsi sui sentieri delle montagne più selvagge d’Europa, accarezzando lo spirito del sublime. Nel pomeriggio non avrebbero mancato di visitare la Torre di Koçeku, ormai trasformata in museo.

ph. Jacek Czerwieniec

Nella sua penombra, avrebbe detto l’attuale proprietario e guida, i maschi della sua famiglia, per molte generazioni, avevano passato anni per proteggersi dalla faida. Un’usanza, la presa del sangue, che a differenza dei volgari assassinii d’onore che falcidiavano le famiglie rivali in altre parti del mondo emanava un fascino tanto terribile quanto indiscutibile. Era regolata, anzi ritualizzata  nei minimi dettagli dall’antica legge delle montagne, il Kanun, come del resto quasi ogni aspetto della vita. Le vaghe allusioni al fatto che, forse, quel passato non era del tutto finito, facevano rabbrividire ogni straniero.

Prima di cena c’era tempo per una birra fresca in un chiosco, dove la tv riproponeva i canti tradizionali nella loro versione di video turbo-folk, pieni di auto di lusso,  ragazze seminude e bandiere con l’aquila bifronte.

***

La pista costeggiava il letto di un torrente inondato da un sole autunnale ancora implacabile. I mocassini di Zef saltellavano tra le pietre irregolari mentre il vecchio avanzava, senza bagaglio, con solo una giacca di tela appesa distrattamente a un dito. Intanto, le  Montagne Maledette, sempre aspre, si facevano più verdi e ombrose.
Aguzzando la vista fu possibile infine scorgere le sparse case di K. arrampicate lungo il versante,  fino ai piedi delle pareti rocciose, camuffate da alberi da frutta e covoni di fieno.

***

Era stata un’anziana studiosa straniera a darmi, per un caso inaspettato, la possibilità  di sbirciare oltre la cortina che inevitabilmente si costruisce, da entrambe le parti, attorno al visitatore. La donna, che avevo conosciuto in città, mi voleva coinvolgere in un progetto europeo su sostenibilità ed educazione nelle montagne a cui aveva dedicato tutta la sua vita.

Ricevuta però una notizia inaspettata, dovette partire in fretta e furia, non prima di avermi consegnarmi, senza tanti complimenti o spiegazioni, a una famiglia di montanari suoi amici, di un villaggio dei più sperduti. Si trovavano per qualche mese in città ma il capofamiglia, Zef, si offriva di portarmi a K. non appena il tempo fosse migliorato.

Ero diventato un ospite, inteso alla vecchia maniera: qualcosa di estremamente importante a cui aprire, letteralmente, le porte delle case delle montagne del nord. Una fortuna che aveva tuttavia un risvolto quasi grottesco: Zef parlava solo albanese, e anche se quasi tutti gli altri, nelle montagne, sapevano l’italiano o il tedesco nessuno traduceva nulla. Meglio non intromettersi in questioni di ospitalità. In quei giorni di immersione nelle terre alte ero solo un testimone sordo.

Guardavo. Difficilmente gli escursionisti avrebbero scoperto che al tempo delle nostre visite, nel 2017, la faida, lungi dall’essere una sorta di attrazione turistica, incombeva ancora su circa un terzo delle famiglie di quelle montagne. Anche, e soprattutto, a Theth. Magari proprio dietro quelle finestre dagli scuri socchiusi accanto al bed and breakfast. Non l’abbellivano  canti o torri, c’erano solo poliziotti che sanno e non sanno, assistenti sociali e associazioni umanitarie, mentre le donne – le uniche, almeno secondo la vecchia legge, risparmiate – si sobbarcavano tutto il peso del lavoro e dell’onore dei maschi.

Io tutto questo lo vedevo, anche se, sprovveduto com’ero, i mille dettagli, gli sguardi, le assenze, si sarebbero messe insieme solo a rientro avvenuto, dopo lunghe e pazienti spiegazioni. Ed è stato meglio così. Certe cose vanno lasciate ad altri.

***

I tre fratelli, riuniti intorno alla tavola di legno, alla fiamma viva di una candela, sembravano briganti nel loro covo.  Le loro ombre tremolanti sulla parete, mentre ingurgitavano il pasto di peperoni, carne, patate, e formaggio, erano enormi. L’acquavite gli bagnava i baffi e l’odore del fuoco impregnava l’aria.

L’elettricità, si badi bene, c’era già da mezzo secolo, ma i blackout erano sempre frequenti. Le candele illuminavano la stanza decorata di immagini sacre, vecchie fotografie, lo schermo di un grosso televisore sintonizzato, c’è da scommetterci, sulla televisione italiana. La gusla con Skanderbeg intagliato sul manico, appesa a un chiodo, sembrava sul punto di intonare una delle sue ballate.

Tutto era come nel bed and breakfast di Theth, ma diverso.

Eravamo arrivati alle ultime luci del giorno. Prima, avevamo fatto visita a tutte le case del villaggio. Il copione, a grandi linee, era sempre lo stesso: un grugnito, un raglio o un muggito, un cane che ringhia ferocemente, Zef che lo ammansisce col solo sguardo. Gli umani. Se è un uomo si scherza, ci si stringono le mani e ci si siede. Se è una donna si presenta sottovoce, sparisce subito per ricomparire con uno xhezve fumante di caffè e un vassoio con bicchieri pieni di rakì. Quel giorno ne avevo dovuti bere almeno una dozzina, di caffè solo la metà.

Alle domande si risponde mir, mir, shum mir – bene, bene, benissimo – odore di stalla e di fuoco, fumo di camini che si arrampica nel cielo.
Quasi tutti avevano gli occhi azzurri, gli occhi degli antichi illiri (così, almeno, amavano dire i montanari).
Se la padrona di casa è una vedova o una donna anziana, strilla, dà pacche e ride, proprio come un uomo. Beve, ma non fuma.

Era tra le più belle case di K., su due piani, di legno pitturato di bianco, l’enorme tetto  spiovente. L’altro fratello e sua moglie, che indossava una gerla, rientravano dai campi. In una botte il fratello minore di Zef, ex camionista in Germania, faceva macerare le prugne per il rakì, e un muggito insistente arrivava dalla stalla. Ci sedemmo a tavola, e mentre aspettavamo che le donne ci portassero la cena, la lampadina iniziò  a ronzare finché, dopo qualche minuto di agonia, si spense.

Con la scusa di scaldarmi le mani, mi alzai dalla tavola per entrare in cucina, dove, tra le marmitte fuligginose, le mogli dei fratelli di Zef stavano mangiando. Erano due donne ancora giovani, ma accovacciate sugli sgabelli davanti al fuoco sembravano senza età. Di Besa, la minore, mi colpì il lampo vivo, che, forse per il riflesso di una scintilla, le si accese negli occhi  quando alzò il volto.

Per tutta la sera e il mattino seguente i fratelli mostrarono i noci arrampicati sulle montagne, gli strumenti di lavorazione del formaggio, le botti, raccontando (uno dei tre, finalmente, mi parlava in italiano) dure storie di emigrazione. Le donne, però, rimasero invisibili.

Tu non vedrai i mille contrappassi, mi avrebbe detto al mio rientro la studiosa.  La cultura, spiegava, è fatta di piccole cose, ammortizzatori invisibili, segrete architetture femminili. Aspetti che, a  differenza dell’onore, non si difendono con le armi. Così, da quando il tempo della modernità aveva iniziato a correre anche sulle Montagne Maledette, sono i lati più dolci delle tradizioni i primi a soccombere. L’impatto con con il mondo globale significava tante cose, la più appariscente delle quali era l’emigrazione. Ma a rischiare di più, come sempre durante le crisi del resto, rano donne, disabili, malati, e i più poveri. Era il coraggio di costoro, diceva la studiosa, la cosa più rilevante di quelle montagne. Altro che faide e gusle. Non ci capirai granché, ma  puoi guardare. E io guardavo.

Me la cavavo meglio a soppesare le molte divisioni di Zef, a cominciare dal suo viso rugoso, i folti baffi orizzontali, lo spazio vuoto tra due denti. La sua espressione ispirava insieme autorità e debolezza. Voleva, forse doveva, dimostrare di essere il capofamiglia, un’impresa che ogni anno diventava più difficile, soprattutto negli inverni che ormai passava in città. Doveva avere l’ultima parola su tutto, matrimoni e fidanzamenti compresi, ma sapeva benissimo che la vita reale era retto dallo sguardo svelto e ironico della moglie, vent’anni più giovane, che lavorava sodo come operaia e poi faceva tutto il resto. E sua figlia, studentessa universitaria che sapeva tre lingue e lavorava sin da bambina, era di casa in due mondi, mentre lui solamente in uno.

***

Dormii raggomitolato sul divano, a notte fonda, in un sonno agitato ma profondissimo. Alle primi luci dell’alba, quando aprii gli occhi, tutti erano già al lavoro. Sulla sedia che mi aveva fatto da comodino mi aspettava un bicchiere stracolmo di rakì.

 

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Marco Ranocchiari

Marco Ranocchiari

Nato a Roma ma trapiantato in Trentino da quasi un decennio, mi occupo di comunicazione scientifica ed educazione. I miei reportage su ambiente, territorio e aree remote sono apparsi su varie testate giornalistiche nonché nella guida "Scoprire i Balcani" (Cierre, 2019).


Il mio blog | I valori di Altitudini - le storie al centro di tutto, le persone, le esplorazioni, la comunità, la montagna come ispriazione - coincidono praticamente con il mio "manifesto personale". Spero di dare un piccolo contributo a questo bellissimo archivio. Altitudini.it è la mia rivista digitale.
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