Reportage

#95 IL VIAGGIO DI UN FIGLIO, LE PAURE DI UNA MAMMA

testo e foto di Francesco Raco

03/01/2021
9 min
Il Bando del BC20

Il viaggio di un figlio, le paure di una mamma

di Francesco Raco

Mamma, se rinasco voglio essere uno zaino. Uno di quelli belli grandi e capienti, con tanti scomparti.

Ma soprattutto uno di quelli che prendono i veri viaggiatori, di cui non puoi fare a meno solo se devi fare il viaggio della vita. Vorrei essere uno di quegli zaini perché se ne vanno a spasso per il mondo, il loro tessuto si consuma di esperienze, giorno dopo giorno. Certo dovrei sopportare lo stress dei controlli al confine, il buio della stiva degli aerei, lo sporco delle strade, la claustrofobia dei box degli ostelli. Ma credo ne valga la pena.

Vorrei avere due begli spallacci ben imbottiti ed una forma ergonomica che si adatti al meglio alla schiena del mio amico. Vorrei essere impermeabile per far bene il mio lavoro in caso di pioggia.

Vorrei evolvermi poi col mio compagno di viaggio, trasformandomi da semplice contenitore di oggetti a contenitore di emozioni, sensazioni, incontri. Potrei infine ambire ad una meritata pensione in qualche dimenticato sgabuzzino o in un garage. Mangiato dalla polvere, accanto a vecchi arnesi, potrei sperare di rimanere l’ultimo forziere di ricordi di qualche avventura, l’ultimo baluardo di esperienze indimenticabili. Dovrò essere forte perché il mio compagno di viaggi potrebbe all’improvviso trascurarmi, assorbito dal lavoro e dai figli, dalla quotidianità, dalla vita “normale” dell’uomo comune.


Sarebbe bello diventare per lui qualcosa di più, essere una presenza costante nella sua vita. Non relegato ad un’isolata esperienza di gioventù, ma simbolo e strumento di uno stile di vita all’insegna della natura, del movimento, della libertà. Tirato in ballo periodicamente per riportare il mio alleato ancora sul sentiero più selvaggio, sulla cresta più irraggiungibile, sulla spiaggia più incontaminata.

Quando andai in Sud America correva l’anno 2020. Anzi non correva, camminava abbastanza lentamente a dire il vero.
Io e Benno avevamo deciso di partire. Era stato lui a mettermi la pulce nell’orecchio ed io avevo fatto presto ad entrare in quella che a distanza di più di un anno non chiamerei più “crisi”, ma “momento di lucidità”. Mollai la mia vecchia vita e accettai l’incertezza.

Te lo ricordi, mamma? Qualche giorno prima di decollare ero passato a salutarti. Ero arrivato con il mio enorme container di bagagli dal nord e avevo occupato illecitamente lo scantinato con le mie cose. Tu già ti lamentavi da un po’ per quella stanza che stava diventando il deposito delle cose dei figli, il residuo di svariati traslochi.

Fu in quei giorni che presi la decisione di rivolgere a te quel diario che avrei voluto scrivere durante il viaggio. Per certi versi sarebbe stata la prosecuzione “on the road” del quaderno in cui, da circa un anno, avevo preso l’abitudine di appuntare i miei pensieri, certamente più intimi e personali. Avrei mantenuto con te una quotidiana corrispondenza. Probabilmente per tranquillizzarti sarebbe bastato vedere sui social qualche mia foto in cui me la passavo bene. Ma mi divertiva l’idea di unire la semplice cronaca del viaggio con una sorta di piccolo esperimento relazionale. Saresti stata tu la mia interlocutrice. Questo gioco di cartoline dal mondo volevo raccoglierlo in un blog. In un mare di #travelblogger e #wanderluster, io puntavo tutto sulle ansie della mamma.

Mancava solo il nome, che venne fuori pochi giorni prima di partire, grazie ad un brainstorming con Marco: “Scrivimi quando arrivi”. Adesso sì, adesso potevo prendere quell’aereo per San Paolo. Il Sud America mi aspettava.

E così fu.

Il viaggio iniziò. Io e Benno ci trovammo catapultati nel pieno dell’estate sudamericana. Dopo pochi giorni urbani, fra i mercati e le piazze di San Paolo, specchio di una società dalle mille contraddizioni e disparità sociali, un aereo ci lasciò nel bel mezzo della foresta subtropicale di fronte alle spettacolari cascate di Iguazú. Arcobaleni colorati cercavano di mitigare e sdrammatizzare quella violenza inaudita. Oltre allo stupore e all’inquietudine che suscita una massa d’acqua che si sfracella al suolo, io di fronte a quella scena, devo ammetterlo, non potevo non tornare con i ricordi alla lezione di fisica sull’energia potenziale. Salì sul autobus con ancora il rumore assordante e poderoso delle cascate nella testa. 18 ore di autobus per arrivare a Buenos Aires. Alla faccia della lentezza.

Nei giorni di preparazione precedenti alla partenza mi dicevi “ma perché non ti porti una valigia anziché uno zaino? È più comoda da trasportare e ci sistemi meglio la roba”. E prima di partire anch’io avevo qualche dubbio sul fatto che le rotelle potessero tornarmi utili.

I primi giorni di viaggio, non lo nego, ti davo ragione: trovare le mutande in quel marasma era un‘impresa. Pian piano mi affezionai a quello zaino. Sviscerarlo, riporre il suo contenuto in maniera ordinata sul letto e ridare una forma dignitosa al tutto divenne un rito quotidiano immancabile. Andavo fiero del mio zaino, ne ero geloso, nonostante me lo portassi sul groppone e mi rallentasse i movimenti. Capii in seguito, strada facendo, perché questi fossero i viaggi “zaino in spalla” e non ”trolley alla mano”. Lo zaino ti donava la libertà più assoluta. Ti regalava la possibilità di essere praticamente indipendente da tutto. Di andare ovunque perché tutto quello di cui avevi bisogno era là dentro. Letteralmente. Il prezzo da pagare era la lentezza e la fatica. Ma, di nuovo, andando avanti ho imparato che anche questi aspetti facevano parte del pacchetto regalo.

Le avventure proseguivano: il couchsurfing a Buenos Aires, l’autostop sulla Ruta 40, le prime notti in tenda nella regione dei sette laghi e finalmente i primi ghiacci di El Chalten. E poi le persone: viaggiando incontri persone che ti aprono la mente, che ti ispirano. Che si tratti di uno scambio di sguardi o di lunghe conversazioni lungo un cammino, in queste occasioni ti rendi conto che sei stato chiuso in una scatola per anni. E che non basta guardare la tv o scrollare uno smartphone.

Una volta messo piede in Patagonia, io e Benno non ci siamo più fermati. Macinavamo chilometri ogni giorno. Rallentare il passo, fermarsi per dissetarsi era il pretesto per assaporare quei meravigliosi silenzi.

Era stato un gioco incredibile selezionare cosa portare per un viaggio di qualche mese. All’inizio ti sembra impossibile concentrare tutto in pochi litri di capienza. Per giorni ti arrovelli sulla fondamentale decisione di rinunciare a quella t-shirt pur di portare due calzini in più. E devo dirti una cosa mamma. Se c’è una cosa che ho imparato da quest’esperienza è che si ha bisogno di molto meno di quello che uno pensa e che quello zaino poteva essere ancora più leggero. Non vorrei esagerare ma credo che in viaggio la tua libertà sia inversamente proporzionale alla quantità di oggetti che possiedi. E forse non solo in viaggio.

La spedizione proseguiva su strade dritte come frecce e puntavano verso Sud. Viaggi infiniti su bus economici. Dulce de leche e Sepulveda a colazione. Continuavo a scriverti. Mi promettevo di trasformare le tue paure, che poi spesso diventavano contagiosamente anche le mie, in parole, storie e aneddoti. Sempre con qualche riferimento al mio passato. Grazie al viaggio e a questo atto creativo che è la scrittura, riuscivo finalmente a esorcizzare le ansie di una mamma verso il figlio. Quelle emozioni negative adesso attecchivano meno facilmente ed erano anzi benzina per nuove riflessioni, nuove storie.

Eravamo reduci dalla splendida esperienza del trekking sul ghiacciaio del Perito Moreno in Argentina. Camminare su distese infinite di ghiaccio con i ramponi ai piedi è forse l’esperienza più extraterrestre della mia vita.

Adesso toccava al parco cileno di Torres del Paine. Si procedeva come muli. Spesso a testa bassa. Il mio sguardo si è posato su miliardi di sassi e di foglie. Si saliva verso vette a cui ci si avvicinava progressivamente. Ci si girava intorno, a volte scomparivano per poi tornare all’improvviso di fronte ai nostri occhi ancora più maestose. Forme che si rivelavano a poco a poco che si percorreva la via. E ci si innamorava di quelle sagome di pietra e di ghiaccio.

Saliscendi fangosi, pendii ghiacciati e scarpate rocciose. Croce e delizia dei miei piedi. Loro hanno sempre preferito la salite. Contenuti negli scarponi, avrei voluto spesso voluto lasciarli nudi, scalzi.

Io credo in un’intelligenza plantare. Mentre il cervello spesso si distrae fra pensieri, come una scimmia impazzita che zompa da un ricordo ad una proiezione nel futuro, i piedi mi sembrano più affidabili, perché sono in grado di “sentire” davvero. Mi sembra inoltre un ottimo modo per sviluppare l’ascolto, in senso lato.

Davanti ai mini-iceberg che danzano nella Laguna de Los Tres, davanti ad un’alba che si riflette sul Mirador Las Torres i miei occhi godevano. Ma erano i piedi che mi univano fisicamente alla natura, erano i piedi che mi facevano sentire parte del tutto.

In quei momenti la pianta del piede sembrava sprofondare, forse sotto il peso di uno zaino troppo pesante, verso le viscere della Terra. Nel silenzio più solenne, nei pressi della fine del mondo australe, avrei voluto mettere radici in quell’avamposto di bellezza. Magari diventare uno di quegli alberi modellati dal vento, dalla forma così asimmetrica, così diffusi a queste latitudini.

Facile amare il mare.

La montagna invece va scoperta. Richiede un certo sacrificio iniziale. E non è per tutti. Ma perché ci si dovrebbe mettere in cammino allora? Solo per scoprire nuovi luoghi dalla bellezza mozzafiato? Se mi avessero portato direttamente sulla cima del Fitz Roy sarebbe stata la stessa cosa?

Come per tante altre attività che richiedono fatica e sudore è indubbio che ci sia una componente chimica di endorfine. Ma non è quello il punto, altrimenti avrei fatto fatto meglio a iscrivermi in palestra.

E’ questione che raggiungere la vetta non è il fine, ma un mezzo per conoscere te stesso, attraverso la natura. La natura ti mette davanti a degli ostacoli, ai dei pericoli, ti costringe a misurarti con lei, ma soprattutto con i tuoi limiti.

Mettersi in cammino, perdersi nella natura, esplorare, tendere verso l’alto, ambire a qualcosa che ci sembra irraggiungibile e più grande di noi. La storia dell’uomo non è altro che un viaggio, è la storia di un cammino iniziato tanto tempo fa. E io voglio continuare a percorrere questo sentiero, alla ricerca di qualcosa che ancora non so bene cosa sia.

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Questa storia partecipa al Blogger Contest 2020.

Francesco Raco

Francesco Raco

Francesco Raco, 33 anni, videomaker e psicologo. Curioso per professione.
Appassionato di trekking, streetphotography, scrittura, meditazione. Cinefilo accanito, ascoltatore di musica e di silenzi, lettore a tempo perso.


Il mio blog | A febbraio 2020 mollo tutto per fare un viaggio in Sud America, poi interrotto per la pandemia. Le ansie della mamma alla partenza sono l'incipit per una particolare corrispondenza che diventerà il blog "www.scrivimiquandoarrivi.com". La scrittura e il viaggio diverranno il mezzo per esorcizzare le paure.
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