In fila per salire sull’aereo avevo notato cinque signori poco più avanti a me: indossavano un giubbetto arancione che presentava vari marchi legati all’alpinismo.
Era logico pensare che sarebbero andati a fare una spedizione sull’Himalaya. Fortuna vuole che il mio posto sull’aereo si trovasse proprio dietro alle due file che questi signori occupavano. Sulla mia destra c’era Niccolò, uno dei miei undici compagni di viaggio appena conosciuti; gli altri si trovavano sparsi un po’ per tutto l’aereo che da Milano ci avrebbe portato ad Istanbul. Solo dopo l’atterraggio nella città turca iniziamo a parlare con questi signori, che scopriamo essere di Trento. Ci chiedono se anche noi fossimo diretti in Nepal e andassimo a fare trekking, spiego loro che avremmo fatto principalmente turismo a cui avremmo aggiunto un piccolo pezzo dell’Annapurna Circuit di quattro giorni.
«Invece voi che montagna andate a scalare?» chiedo, ormai divorato dalla curiosità.
«Un ottomila», mi rispondono.
«Quale?»
«Il Manaslu». Sull’onda dell’entusiasmo chiedo se avessero già fatto qualche altro ottomila.
«Noi ci siamo fermati al massimo a settemila, solo lui ne ha fatto uno», mi indicano un componente del gruppo che deve aver passato da poco la quarantina, alto e decisamente robusto che effettivamente sembra il più “tosto” dei cinque. Nonostante avessero voglia di chiacchierare (successivamente mi consiglieranno dove andare a bere e a mangiare una buona bistecca a Kathmandu), sono molto restii a parlare delle loro imprese, denotando molta modestia.
«Quale ottomila hai fatto?»
«Mah niente di che» mi risponde. Ma non esiste un ottomila che sia “niente di che” penso tra me e me, mentre aggiunge, avviandosi verso l’uscita dell’aereo: «Il K2». Credo che a quel punto mi sia letteralmente caduta la mascella. Il K2!
Usciti dall’aereo, con Niccolò ci ricongiungiamo ai nostri compagni di viaggio, e, nel tragitto verso il gate designato per l’aereo che ci porterà a Kathmandu, di due gruppetti che siamo se ne forma in realtà solo uno. Si chiacchiera tutti insieme, ognuno è entusiasta dell’avventura che lo sta spettando. Il gate è lontanissimo, dall’altra parte dell’aeroporto, ma facendo conversazione quasi non ce ne rendiamo conto. Mi accorgo invece che uno degli alpinisti, un signore dai capelli brizzolati che deve aver superato la cinquantina (probabilmente il più “âgée” del gruppo), zoppica vistosamente. Timido come sono non ho il coraggio di chiedergli cosa si sia fatto, ma penso che in quelle condizioni sia difficile arrivare in vetta. Mi viene in soccorso Sara, fresca di laurea in Medicina, che, probabilmente per deformazione professionale mista a curiosità, gli domanda cosa si fosse fatto alla gamba e come farà ad affrontare la montagna.
«Me la tolgo» ci risponde. Il mio sguardo interrogativo incrocia quello di Sara.
«Ma cosa ti togli?» chiediamo quasi in coro.
«La gamba!». Per una frazione di secondo ho creduto stesse scherzando, poi, per la seconda volta in pochi minuti, resto a bocca aperta. Nel poco tempo che ci rimane per arrivare al gate ci racconta di come avesse perso la gamba qualche anno prima in un incidente in bicicletta, e di come abbia continuato ad andare in montagna. Ci spiega che ha già superato quota seimila e che sul Manaslu proverà ad arrivare fino a dove riuscirà, senza troppe pressioni.
Siamo arrivati, facciamo ancora insieme la fila per salire sull’aereo, una volta all’interno è troppo grande e noi troppo sparpagliati per riuscire a chiacchierare ancora un po’, in più arriveremo alle 7 del mattino a Kathmandu ora locale, quindi cerchiamo di dormire qualche ora.
Incontriamo i cinque alpinisti per l’ultima volta il mattino seguente all’immigration e li salutiamo rapidamente, c’è molto caos e noi siamo più veloci avendo già stampato il visto. Nessuno di noi si è scambiato un contatto e questo è il mio grande rammarico; dopo il rientro mi sono chiesto più volte se ce l’avessero fatta, ho effettuato anche qualche ricerca su internet, ma non ha prodotto risultati. Mi piace pensare che se uno di loro dovesse leggere questo breve racconto, possa poi contattarmi per raccontare il resto della loro avventura.
Il mio “Nepal discovery” iniziò così.