Reportage

#21 PASTORALE ALPINA CONTEMPORANEA

testo e foto di Maria Anna Bertolino  / Pinerolo (TO)

30/11/2020
9 min
Il Bando del BC20

Pastorale alpina contemporanea

di Maria Anna Bertolino

Che di festival siano state invase le Alpi non è notizia sconosciuta ai più.

Nuovo genere di fruizione della montagna, «non c’è dubbio che (questi) abbiano riempito un vuoto» come scrive Enrico Camanni (Dislivelli, n° 99). Riscossa definitiva delle terre marginali o fenomeno sociale transitorio, è presto per dirlo. Il tempo – e la pandemia – ci daranno risposte.
Per ora l’interesse è nello scovare così tanta creatività. Per farlo, partiremo da un luogo nelle Alpi svizzere del Canton Vallese: il villaggio di Bruson, divenuto quartier generale dell’équipe del Palp Festival che, nell’anno più nero per gli organizzatori di eventi, ha potuto comunque festeggiare i 10 anni di attività.

Il Palp è un festival che unisce musica, in luoghi insoliti della Val de Bagnes, al re incontrastato dei prodotti della cucina locale: il Raclette (rigorosamente al maschile); strizza l’occhio alle passeggiate letterarie e ad una museografia innovativa; accoglie residenze artistiche e di ricerca; offre laboratori culinari e di scrittura. Il tutto accompagnato con del buon vino proveniente da vigneti autoctoni (tra cui spiccano il Johannesberg e il Petit Arvin), austeri come la terra da cui si nutrono. Terra che reca ancora le tracce di quando, in tempi immemori, qui si estendeva l’immenso ghiacciaio del Rodano.

Giungo a Bruson in un caldo pomeriggio di mezza estate dopo aver scollinato un poco affollato Passo del Gran San Bernardo, a dispetto della stupenda giornata e dell’overtourism registrato in numerose località alpine.
Siamo nel distretto dell’Entremont, sulla sinistra la Val Ferret, perpendicolare la Val de Bagnes. Oltre, il confine francese. Alle mie spalle, l’Italia. Tre stati intorno al massiccio del monte più alto d’Europa, che curiosamente qui nega la sua presenza all’occhio del visitatore. Eppure c’è, e lo si vede dalle vie di comunicazione che sin dall’epoca romana hanno permesso il transito: strade, colli e più recenti trafori lo attorniano, ne sfidano l’orografia e ne ridisegnano i significati. L’addomesticamento del monte è passato anche dalla trasformazione dell’oronimo poiché oggi il candore di un monte chiamato Bianco ha ovattato e offuscato uno dei precedenti nomi attribuitigli, quello di Mont Maudit (Monte Maledetto).

Se il Bianco sfugge alla mia vista, non così è per il cartello di svolta che dice di girare a destra per Verbier e per Bruson, due borgate del Comune di Bagnes da cui deriva il nome a tutta la valle.
Quanta stonatura vedrò successivamente nell’accostare questi due abitati. Verbier, località sciistica tra le più conosciute al mondo, enclave inglese ed ora anche set di un noto best-seller ambientato in uno degli hotel 5 stelle che si alternano alle boutique griffate, inarrivabili persino per un portafogli svizzero. Bruson, posta sul versante opposto. L’una vede l’altra, la scruta, in quello che è stato però uno sviluppo moderno diametralmente opposto. Perché a Bruson non troverò la classica stazione sciistica, le piste sono più in alto collegate con una cabinovia da Bagnes capoluogo, nel fondovalle.

Bruson è rimasto un villaggio di montagna a quota 1100 metri. Al mio arrivo in luglio mi accolgono i campi che si preparano al secondo taglio di fieno e qualche vacca Hérens (le altre sono in alpeggio). Più in alto i boschi, un bisse – nome francese dato a quelle opere ingegneristiche incredibili quali sono i canali di trasporto dell’acqua costruiti nel Medioevo – che li attraversa e i mayens, le abitazioni temporanee dei pastori, utilizzate un tempo come base d’appoggio per la transumanza a quote più elevate.
Una chiara volontà politica ne guida una visione sin dagli anni ’60, quando sul versante opposto veniva avviata un’infrastrutturazione pesante. Il professor Jean Vallat lo elesse villaggio simbolo dell’agricoltura eroica all’esposizione nazionale del 1964 a Losanna. Da allora seguirono studi approfonditi sul mantenimento dell’agricoltura mista di montagna e sulle trasformazioni sociali in atto (in particolar modo i nuovi impieghi nell’edilizia e nel turismo). Qui trovò accoglienza anche Daniela Weinberg, antropologa statunitense impegnata negli anni ’70, al pari di altri colleghi, a sfatare il paradigma dell’ottuso montagnard restìo ai cambiamenti.

Un paesaggio, quindi, che si può pensare fisso da decenni. Eppure di trasformazioni ce ne sono state. La più eccezionale? Basti pensare che qui sono stati coltivati fragole e lamponi per più di 50 anni. Bruson, dagli anni ’30 agli anni ’80 del Novecento, è stata costellata interamente di campi a piccoli frutti. Gli anziani si ricordano ancora il profumo di fragole che avvolgeva l’abitato nei mesi estivi. Così come si ricordano del rovescio della medaglia, ossia della raccolta che definiscono come pénible (dura). Si iniziava molto presto al mattino per non patire il caldo e, quando si terminava con i campi di piccoli frutti, si posavano cassette e coltello per munirsi di forcone con il quale si continuava la giornata lavorativa sfalciando l’erba per farne fieno.
Eppure si continuava a coltivarle, le fragole. Poiché questi frutti profumati e colorati hanno portato la modernità nelle case dei brusonard. Senza giri di parole: grazie ai soldi ricavati dalla raccolta di questi frutti si sono costruiti i servizi igienici nelle abitazioni.

Lascio l’auto ad uno degli ingressi del paese e vengo accolta da una via stretta fatta di case in legno e punteggiata di fontane che conservano la forma di abbeveratoi per animali. Solo con il tempo imparerò a riconoscere, grazie al racconto della comunità, che non sempre di abitazioni si trattava: raccards, granges à écurie e maisons si distinguevano per architetture precise e funzionali, oggi sconosciute ai più. Gli animali d’altronde non vivono più nel paese, le moderne stalle sorgono al limitare del paese.
Incontro Sébastien, prima presenza umana nel villaggio. Sono le 2 di pomeriggio e il sole picchia forte, mi chiedo se sia sempre stato così secco e caldo il clima di questa valle o se sia per via degli ormai onnipresenti cambiamenti climatici, per cui in ogni luogo il leitmotiv è “un tempo non era così”. Sébastien è il direttore del Festival e mi aspetta di fronte alla nuova épicerie del paese, aperta coraggiosamente a maggio di quest’anno dalla sua équipe. Erano anni che non vi era un negozio aperto in paese. Qui si possono trovare frutta e verdura, pane fresco, formaggi e carne di fornitori locali, oltre a noleggiare gratuitamente le cuffie per visitare l’esposizione “Bruisson”. Ecco cos’erano quei totem sparsi qua e là lungo la via. “Bruisson” – felice connubio tra Bruson, bruit (rumore) e son (suono) – è la mostra temporanea aperta al pubblico e totalmente gratuita, frutto delle precedenti residenze artistiche che hanno mescolato linguaggi sonori e visivi. La museografia è innovativa, le collaborazioni anche, la sfida vinta: costruire un itinerario con gli abitanti che hanno aperto i propri luoghi privati per accogliere postazioni più o meno ardite, ma che soprattutto si sono lasciati conoscere e interpretare mediante linguaggi artistici contemporanei. Dal graphic novel alla musica elettronica, gli abitanti hanno saputo trarne spunti di riflessione sul proprio avvenire.

La comunità è unanime nel riconoscere la presenza del Palp Festival in Bruson come fonte di arricchimento non solo culturale. E menomale, poiché Bruson è interessato da un andirivieni giornaliero dell’équipe che qui ha i propri uffici, oltreché degli artisti in cerca di spunti, sempre pronti ad avviare una chiacchierata con l’abitante di turno.
Durante il mio soggiorno Sébastien mi spiegherà che il Festival è nato a Martigny ma ben presto ha trovato la sua linfa vitale a Bruson. Mentre lui, papà di due bimbi, ha deciso di viverci stabilmente. Palp, acronimo di “place à la place” (spazio alla piazza), si è trasformato nel tempo in “place à la montagne” (posto alla montagna), pur non tradendo il suo nome originale. Perché come ha sottolineato a un TEDx organizzato lo scorso settembre in un intervento dal titolo “Le tradizioni come motore dell’innovazione”: «è passato il tempo del “tutto in pianura”, promulgato da tanta politica. Il futuro è in montagna».

Ingressi contingentati e spazi aperti hanno permesso lo svolgimento regolare di tutti gli eventi estivi in programma nell’estate del Covid-19, rinforzando lo spirito originale che vuole essere il più possibile rispettoso dei luoghi: utilizzo dei mezzi pubblici, riciclo delle stoviglie, orari degli eventi fino alle 18, cuffie modalità silent disco.

La sfaccettatura del festival si vede anche nella presenza di più generazioni tra il pubblico. Scruto la composizione dei partecipanti e mi accorgo che giovani genitori sono accompagnati dai nonni dei loro figli, che gruppi di amici trentenni giocano assieme ai ragazzini, più interessati al freesbe che all’ultimo album del cantante invitato, che durante le passeggiate organizzate molti di coloro che si aiutano con moderni bastoncini da camminata hanno oltrepassato le ottanta primavere.

Sono trascorse tre settimane dal mio arrivo quando ha inizio il momento clou del festival: la “Rocklette”. Dieci giorni di gruppi rock e di racleurs (così sono chiamati coloro i quali, con un passaggio di coltello sulla forma di formaggio fusa dal calore, creano il piatto della Raclette) che si contendono la scena: da un lato l’abilità musicale sul palco, dall’altro il gesto semplice ma sapiente di chi ha creato un piatto cult. Da qui la felice fusione linguistica tra rock e raclette.
Nel mentre ho avuto modo di conoscere Eddy, che il papà voleva elettricista negli anni ’80 e divenuto oggi l’ambasciatore del piatto Raclette nel mondo, con presenza alle Olimpiadi coreane nel 2018 e all’Expo di Milano nel 2015. Eddy, che ha rilevato la latteria comunitaria quando nessuno voleva proseguire un lavoro definito anacronistico e che oggi ha fatto del Raclette di Bagnes un AOP (appellation d’origine protegée) d’eccellenza. È possibile incontrare questo mito vivente presso la Raclett’House, luogo di aggregazione per eccellenza in Bruson, o agli eventi del Festival, rigorosamente dietro ad un forno a raclette. Ed è qui che avviene la sua trasformazione mitologica, perché proprio non so come faccia a sopportarne il calore nelle assolate giornate estive e a raclare (dal verbo racler, l’atto di tagliare il Raclette) per 8 ore.

Ho conosciuto Jean-Luc che, nel mondo incontrastato delle reines – le vacche di razza Hérens note per il loro temperamento che le spinge a combattere per un nonnulla –, ha accolto la proposta del figlio di introdurre l’allevamento di ovicaprini, con l’apertura all’innovazione propria solo dei pionieri. È nata così, da qualche anno, la raclette di pecora e di capra, che Eddy propone durante gli eventi e presso il suo ristorante.

Ho conosciuto Francis, patoisant, che mantiene viva la lingua locale durante i “Café des patoisants” organizzati dal festival, momenti di confronto al bar dove è ammesso solo il francoprovenzale, al quale partecipano sempre più giovani desiderosi di apprendere una lingua che nella loro famiglia non è stata trasmessa.

Ho conosciuto la storia di Nicolas, classe 1992, che ha fatto dell’arte della costruzione delle sonnettes (i campanacci al collo di vacche e capre) una vocazione ancora prima di un mestiere. Sonnettes che hanno trovato spazio nella mostra “Bruisson” e che il pubblico può suonare liberamente, magari dopo aver creato al computer la propria colonna sonora elettronica nella tappa precedente o potuto ammirare il “Raclophonic”, curioso prototipo di strumento musicale creato da un forno a raclette.

Ho conosciuto Jean, il più anziano del paese, che con saggezza ha saputo rinunciare alle visite dei suoi compaesani per tutelarsi dal Coronavirus seppur ciò gli pesi, ma che non ha rinunciato a visitare l’esposizione “Bruisson”. Mi parla dal balcone di casa con voce ferma e chiara, trovando nei racconti del suo vissuto la spinta per non mollare alle avversità dei tempi moderni.

Ma soprattutto ho conosciuto i tanti progetti del Palp Festival. Non un festival in montagna ma un festival di un luogo di montagna.
Lascio Bruson in un giorno insolitamente freddo per essere l’inizio di settembre. Le cime in lontananza, che superano ampiamente i 3000 metri, sono ormai bianche. Il Palp ha ancora eventi in calendario. La situazione di incertezza legata all’emergenza sanitaria costringe a vivere di giorno in giorno con l’apprensione di dover, purtroppo ma con coscienza, rinunciare alle ultime manifestazioni. L’unica certezza è che arriverà l’inverno, e con esso si aprirà un periodo di progetti e di scambio con gli abitanti, la cui creatività rivivrà l’estate seguente e di cui Bruson sarà ancora protagonista.

_____
foto:
1. Sonnettes esposte in uno dei raccards messi a disposizione dagli abitanti di Bruson per l’esposizione “Bruisson”.

2. 
Veduta del villaggio di Bruson dal versante di Verbier. Nell’immagine si possono osservare i campi un tempo coltivati a fragole e lamponi – ed ormai sono solo più destinati al taglio dell’erba per il bestiame –, la strada che porta ai mayens e agli alpeggi e, nei punti più alti del versante, le piste da sci.

3. Partecipanti all’evento Bis Bis (I agosto 2020), una passeggiata enogastronomica accompagnata da musica dal vivo lungo il Bisse de Levron, imponente canale costruito nel Medioevo ed ancora, in parte, in uso. A destra, vacche di razza Hérens all’“alpage de la Chaux”. Sullo sfondo, il Grand Combin (a sinistra) e il gruppo del Monte Bianco (a destra).

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Maria Anna Bertolino

Maria Anna Bertolino

Nasco ai piedi di tre valli, all’incontro di due credi (cattolico e valdese) e vicino a una frontiera politico-amministrativa. Pinerolo è la mia città d’origine, il Monviso il mio punto di riferimento, le Alpi il mio campo di indagine, l’etnografia la restituzione del mio lavoro. Scrivo saggi antropologici per mestiere, ma amo cimentarmi nella scrittura giornalistica.


Il mio blog | Non ho un blog/pagina digitale, eleggo altitudini.it come la mia rivista digitale. Ho avuto modo di conoscere altitudini recentemente ed ne ho subito apprezzato la qualità dei contenuti e la presentazione grafica. È divenuto così per me fonte di ispirazione e di miglioramento. Mi piace il vostro manifesto perché riporta al tangibile, in un era in cui l'intangibile spesso sfuma nell'oblio.
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