Il bivacco

testo e foto di Umberto Isman  / Monza (MB)

comfort/nocomfort 1
02/12/2017
4 min

Buio, vento, pioggia. Davanti a lui una distesa indefinita, impraticabile di notte.
Gli era già capitato di bivaccare, all’attacco di una parete, in tenda, sotto le stelle, in un igloo, ma quella era la prima volta che la notte all’addiaccio era un fuoriprogramma. Per una serie di imprevisti aveva fatto tardi e ora non poteva più continuare. Non aveva alternative, occorreva aspettare l’alba.
Leggendo di bivacchi forzati aveva sempre pensato che la prima cosa da fare fosse usare bene il cervello, analizzare e scegliere la soluzione migliore. Si guardò in giro, nella semi-oscurità, non si era neanche portato la frontale e il telefono era scarico. Camminò avanti e indietro per un po’ e trovò una sistemazione che non gli pareva male; aveva persino una specie di tetto sopra la testa. Posò lo zaino, indossò un pile, l’unico che aveva, e si sdraiò, senza materassino né sacco a pelo. Il vento soffiava a raffiche e si infilava tra i pertugi intorno al suo giaciglio, portando a tratti qualche schizzo di pioggia.

Era da tanto che non dormiva così sul duro. Si rese conto che era soprattutto un tanto anagrafico. Aveva male dappertutto, scopriva via via ossa e protuberanze di cui ignorava l’esistenza. Poi pensò che lo yoga, il tai chi, il fachirismo lui non sapeva neanche bene cosa fossero ma in quel momento potevano essere utili. Li mischiò tutti insieme e corpo e mente trovarono finalmente un po’ di pace.
Nel dormiveglia mescolava sogni e realtà. Il vento prese ad un tratto le sembianze di un compagno russante e lo fece sobbalzare. Gli parve addirittura di sentire persone vocianti, come stessero uscendo da un ristorante, di vedere lame di luce di auto lontane. Quello è il mondo, pensò. Anzi no, in questo momento io so di loro e loro non sanno di me; sono io nel mondo, quello vero, e loro soltanto in un suo piccolo sottoinsieme. Nonostante la scomodità si sentiva un privilegiato, che aveva accesso a orizzonti ben più ampi di quelli quotidiani.

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Nel dormiveglia mescolava sogni e realtà. Il vento prese ad un tratto le sembianze di un compagno russante e lo fece sobbalzare.
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Pensò anche alla “zona di comfort”, un termine che l’aveva sempre intrigato. Pensò che era più di tutto un luogo della mente, che era semplicemente quella dove avevi il cervello per analizzarla e le parole per raccontarla. Pensò a quel confine, quello che nell’azzardo e nell’imprevisto gli era capitato di superare, quando aveva visto il capo della doppia uscire dal discensore mentre si calava, quando si era perso in una grotta subacquea. Ecco, quel confine, si disse, non va superato, va solo spostato davanti a sé.
A un tratto i pensieri lo portarono a immaginare l’irrompere di un proprietario di quella sua alcova di fortuna.
– E tu cosa ci fai qui? – Niente, scusa, ti spiego, non l’ho scelto io, per sopravvivere non avevo alternative, se vuoi ricambio aiutandoti in quello che devi fare. Tu cosa avresti fatto al posto mio? –
Quest’ultima frase gli rimbombò in testa per un po’. La trasportò anche fuori di lì, in contesti di fughe disperate. Poi finalmente si acquietò, usò quell’ultimo scampolo di notte per dormire profondamente.

L’alba lo raggiunse. Si sollevò, raccolse le sue poche cose e si caricò lo zaino. Poi, come era entrato, uscì di soppiatto dal suo riparo e si incamminò.
Il primo sole illuminava le case di Porto Santo Stefano. Passò davanti alla pizzeria dove la sera aveva mangiato e guardato Spagna-Italia. Davanti all’albergo che non aveva stanze libere. Il traghetto per l’Isola del Giglio era già lì, lo stesso che all’imbrunire aveva visto salpare da lontano per colpa del dannato ritardo del suo treno da Milano. Salì a bordo, sul ponte a dritta, guardò verso il molo pescherecci. Contò la quarta imbarcazione da destra e alzò un braccio. “Il solito strano”, pensò la gente intorno a lui. Nessuno capì che stava salutando un luogo, un luogo che se ne sarebbe andato via anche lui. Il luogo che l’aveva aiutato ad allargare i suoi confini.

Umberto Isman

Umberto Isman

Alpinista vecchio stampo, o vecchio e stanco, resisto senza ricorrere alla chimica ma ancora per poco. Fotografo vecchio stampo, o da vecchia stampa, ragiono ancora a pellicola e scatto in digitale, la cosa peggiore. Giornalista solo di quello che piace a me.


Il mio blog | Si chiama Ski-Random, è un oggetto errante ospitato qua e là. Come tutti gli ospiti, puzza un po', soprattutto di muffa. Ogni tanto riceve iniezioni di Gerovital che gli consentono una momentanea, breve, resurrezione. Soffre la presenza di facebook con il quale si litiga i contenuti.
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