Racconto

#18
MANI

Una direzione. Ricordarla e poterla riconoscere è un dono. Mantenerla richiede impegno.

testo e foto di Michele Corinaldesi  / Jesi (AN)

Al risveglio si trovava in una piccola altura di fronte alla vetta della Sibilla, che si stagliava sull’orizzonte del mare.
30/12/2021
9 min
Marco_Rossignoli_014

Mani

di Michele Corinaldesi

Una direzione. Ricordarla e poterla riconoscere è un dono. Mantenerla richiede impegno.

Ludovico nella sua stanza calda sentì finalmente che stava riposando. La tensione accumulata nei suoi muscoli andava sciogliendosi, il respiro si faceva più lento e regolare, il volto era disteso. Sentiva il suo corpo pesante appoggiarsi al letto morbido, gli occhi si chiusero lentamente. Un pensiero semplice: «andare avanti». Si addormentò.
Al risveglio si trovava in una piccola altura di fronte alla vetta della Sibilla, che si stagliava sull’orizzonte del mare. Dall’altra parte la lunga fila delle creste si srotolava illuminata dal chiarore dell’alba. La sua Strega era seduta poco distante, e gli parlava senza emettere suoni.

«Hai fatto la tua scelta. Il cammino è davanti a te».
«Come farò a vedere? Come lo riconoscerò?».
«Nel Regno hai scoperto l’Unità, l’intreccio delle storie di tutto ciò che è vivo. Grazie a questo saprai vedere».
«Dovrò capire dove guardare».
«Spesso gli uomini provano ad analizzare, scomporre, distaccarsi da ciò che stanno osservando. Ma la vera conoscenza non ama il distacco, richiede la fusione. Sentire è ciò che conta, entrare nelle relazioni. Entrare in contatto con l’aria che ti sfiora la pelle, con la terra che ti sostiene, con il sole che ti scalda, sciogliersi. Ciò che conta davvero lo devi cercare con la coda dell’occhio. O della mente. Solo così ti apparirà».

Ludovico sentiva quelle parole fluire dentro di sé e trasformarsi in fiducia. «Sono pronto». Si era alzato, fece un passo avanti, si girò nuovamente verso la Strega, vide la Montagna. Il sole si era staccano dall’orizzonte e proiettava toni tra l’arancione e il viola sulle rocce rossastre della Sibilla, incorniciate dal verde intenso dei prati. Ludovico si sentì nel posto giusto e fu inondato di bellezza. Si girò verso il suo cammino. Uno stretto sentiero si svolgeva sinuoso tra le creste sotto di lui, fino a perdersi dove la luce dell’alba stentava ancora ad arrivare. Raccolse la sacca con le poche cose che aveva da portare con sé, e partì.

Camminava in cielo. Era partito ormai da molte ore, e si era già fermato per un pasto frugale e un po’ di riposo. Il cammino in cresta era agevole, saliscendi continui gli permettevano di recuperare un po’ di fatica ogni tanto. La luce del sole che l’aveva accompagnato alle spalle tutta la mattina aveva risaltato ogni ombra, ogni riflesso e colore. Ogni fiore montano e ogni sfumatura della roccia gli si erano mostrati al meglio. Tutta la bellezza di quel luogo l’aveva riempito di energia ed entusiasmo.

Come ogni pomeriggio l’umidità della valle della Gardosa iniziava a risalire i pendii scoscesi, formando nuvole bianche e spumeggianti che lambivano da un lato le creste sulle quali Ludovico era in cammino. Era uno spettacolo surreale. Sembrava che le nuvole nascessero dalle montagne stesse e invadessero di lì tutto il cielo. Stava camminando in un luogo sacro, dove il cielo stesso veniva generato e si spandeva per il mondo.
Era quasi sera, e vedeva ora alla sua sinistra il profilo roccioso e slanciato di una vetta la cui parete sprofondava in una stretta valle. Doveva essere Palazzo Borghese da come glielo avevano descritto. Sarebbe dovuto passare di lì, superarlo, per poi raggiungere un passo chiamato Forca Viola, al cospetto del Redentore.

Affrettò il passo. Se verso sud lo spettacolo delle nubi bianche era ancora lì ad incantarlo, da nord soffiava ora un vento fresco, e quella che qualche ora prima era solo una sottile linea scura all’orizzonte si era trasformata in un ampio fronte minaccioso di nubi nere e cariche. Un temporale su quelle creste sarebbe stato pericoloso, non avrebbe potuto certo passare la notte allo scoperto, doveva trovare un riparo.
Cercò di arrivare prima possibile vicino alla vetta rocciosa, sperando di trovare qualche grotta o angolo nascosto dove accamparsi. Ma la situazione cambiò rapidamente. Il fronte si muoveva veloce. Il vento fresco si trasformò improvvisamente in sferzate violente e umide. Calò un buio improvviso e gelido. Lampi rossi accendevano le nubi nere, la pioggia arrivò sotto forma di gocce enormi e fredde.

“Era uno spettacolo surreale. Sembrava che le nuvole nascessero dalle montagne stesse e invadessero di lì tutto il cielo. Stava camminando in un luogo sacro.“

Stava camminando in un luogo sacro, dove il cielo stesso veniva generato e si spandeva per il mondo. 

Ludovico si coprì più che poté con la sua veste. Procedeva tenendosi basso per non essere spostato dalle raffiche di vento. Pensò di fermarsi ma quel tratto era troppo scoperto. Proseguì ancora, sempre più lento, preda del freddo. I passi erano ormai incerti, la roccia bagnata li rendeva precari. Ormai vicino alla vetta rotondeggiante del monte Porche notò una profonda spaccatura nella montagna, che correva proprio lungo la cresta, probabilmente aperta da uno dei tanti terremoti. Sentì di non riuscire più a proseguire. Era stanco e impaurito. Si infilò nella fenditura, cercò un posto comodo e si coprì meglio con tutto ciò che aveva.
Il rumore della tempesta si faceva sempre più intenso, la pioggia sempre più abbondante, ma lì dentro il vento colpiva con meno violenza. Fu sollevato per un po’, la Montagna gli stava donando un po’ di sollievo. Cercò di pensare. Cercò lucidità in quel momento di riposo. Aveva freddo. Non ce l’avrebbe fatta. Era quasi del tutto buio ormai, la tempesta montava a velocità incredibile, restare lì in quel riparo troppo esposto non sarebbe bastato, doveva provare a scendere di quota, trovare un posto asciutto nel quale accendere un fuoco, seppur piccolo.

Cercò di raccogliere tutte le energie che gli erano rimaste per alzarsi. Tremava. Pensò che forse camminando sarebbe andata meglio. Si coprì come meglio poteva ma ogni cosa era fradicia ormai. Uscì dalla fenditura arrampicandosi. Sferzate di vento lo colpirono in volto, come pugni. Iniziò ad avanzare lungo il sentiero che vedeva a malapena. Passi incerti, roccia viscida. Un passo ancora, un gradino verso il basso, scoperto. Un sasso si mosse sotto il suo piede. Sentì per un attimo il suo corpo che cedeva al suo stesso peso. Lanciò un grido spezzato.

Erba strappata, sassi, dolore, girare, cadere, nulla.

Mani. Lo toccavano, lo afferravano, voci chiare, occhi pesanti si aprivano con fatica. Tutto girava. Immagini sfocate di erba scura, un prato ondulato che si muoveva, un lamento di dolore, forse era la sua voce. Lentamente, ancora, oscurità, silenzio e buio.

Dolore. Occhi che girano lentamente. Non vedeva più il cielo. Calore tenue. Colori rossi e bruniti. Ancora mani, stavolta non lo afferravano, lo toccavano, lo tenevano giù. Dolore, gambe, braccia, rombi assordanti. Ancora un lamento, forse era il suo. Acqua fresca gli bagna appena le labbra. Dolore, ancora, pungente, ad una gamba. Prova ad aprire meglio gli occhi e vedere ma questi non lo seguono. Di nuovo, oscurità.

Una lieve sensazione di benessere che solo il corpo di per sé riesce a percepire. Pesantezza. La forza dolce di una superficie salda e liscia che accoglie il peso di membra svuotate. Sostegno. Gli occhi si aprono più facilmente stavolta, ritrovano i toni caldi. Da un lato il tepore è ancora lì. L’udito si sveglia un attimo dopo e coglie un lieve crepitio, e voci grevi e al tempo stesso leggere. Gli occhi girano per la stanza osservando travi grezze di legno antico, roccia liscia e un muro di mattoni cotti dal tempo. C’è luce che entra da una minuscola finestra a lato.
Il collo si muove, con attenzione. Ancora una volta il corpo sa da solo ciò che fare. Giovani uomini si muovono nella stanza stretta. Tre, forze quattro. Ragazzi. Hanno da fare, uno di loro versa acqua fumante in una tinozza, un altro entra da una piccola porta con in braccio qualche ramo umido che mette ad asciugare vicino al fuoco.

“Immaginò una vita in completa armonia con la natura, con i prati sterminati da coltivare, con gli animali, a casa loro tanto quanto gli uomini del villaggio.“

Una capanna di pastori, tra il monte Argentella e Sasso Borghese. 

Guardava la porta, il chiarore più intenso dietro di questa. Ma si rese conto che rivolgere lì lo sguardo lo innervosiva.

«Si è svegliato».
«Chi siete?».
«Siamo ragazzi».
«Dove siamo?».
«In una capanna di pastori, tra il monte Argentella e Sasso Borghese, stai giù».
«Cosa è successo?».
«Ti abbiamo trovato svenuto dentro ad una dolina, sotto la cresta del monte Porche, durante la tempesta. Eri ferito e ti abbiamo portato qui due giorni fa».
«Sarei morto senza di voi. Come mi avete trovato?».
«Abbiamo guardato la Montagna, e visto la tempesta. Ora stai giù».
Uno di loro si avvicinò con una ciotola. Odore pungente. Aveva in mano una spatola di legno che intinse in un miscuglio verdastro. Allungò la mano verso la sua gamba. Ludovico si accorse solo ora di averla ancora. Un dolore fortissimo, bruciante, urlò contorcendosi. Fu un attimo. Mentre stava svenendo nuovamente, un ragazzo si girò verso di lui con occhi brillanti: «buona fortuna».

Si svegliò che era ormai buio, nel silenzio. La capanna era vuota e calma, nessun rumore, neanche da fuori. Si guardò la gamba. Era ancora dolorante. Vide una benda larga che gli avvolgeva la coscia, leggermente macchiata del colore verdastro che aveva visto nella ciotola. Il piccolo fuoco era acceso e crepitava debolmente.
Si sentiva meglio. Le forze stavano tornando e il corpo riacquistava un minimo vigore. Provò a muovere la gamba, ci riuscì. Con attenzione le spostò entrambe al di fuori del letto e si mise seduto. Si guardò intorno: un ambiente semplice e frugale ma accogliente. Ogni cosa che potesse servire a trascorrere in pace notti di tempesta era lì: semplici stoviglie, qualche pezzo di legna di riserva, una piccola botte piena d’acqua evidentemente lasciata dai ragazzi. Guardò sul piccolo tavolo lì a fianco e si alzò con molta cautela, avvicinandosi. Scostò un canovaccio pulito trovando sotto pane e formaggio. Il profumo gli risvegliò una fame intensa, primordiale. Mangiò con foga. Appena dopo iniziò a pensare ai ragazzi, a quelle poche immagini confuse, con un profondo senso di gratitudine.

Si guardò ancora intorno. Le sue cose erano appese ad asciugare non lontano dal fuoco. Si sentiva come in un’oasi protetta nel deserto. Una sensazione mai provata prima: guardava la porta, il chiarore più intenso dietro di questa. Ma si rese conto che rivolgere lì lo sguardo lo innervosiva. Cercò di comprendere quella sensazione. Timore. Le immagini della tempesta, il freddo, il vento che era cambiato così improvvisamente, senza dargli tempo di agire. Era confuso. In tutto il suo cammino aveva sentito l’ambiente intorno a sé come un supporto, una fonte di energia e fiducia. La bellezza l’aveva sempre accompagnato. Ora ripensava ai giorni passati e vedeva il buio, i lampi in lontananza, la sensazione di cadere nel vuoto. Paura. Non era preparato a tutto questo. Non ad avere paura del mondo. Cercò di distogliere il pensiero da quelle immagini. Si concentrò ancora sulla stanza che aveva intorno, ricercò i dettagli, provò a darsi da fare sistemando le sue cose, provò a placarsi, senza particolare successo.
Attese ancora, fino al tramonto. Capì che doveva provare.

Quando i riflessi della luce che entrava dalla piccola finestra iniziarono a scaldarsi fu sulla soglia. Fece qualche passo fuori dalla piccola porta di legno su un piccolo pianoro erboso protetto da rocce basse. Il sole era ancora abbastanza alto da restituirgli un calore lieve che lo rinfrancava. Aveva gli occhi chiusi. Li aprì. Proprio di fronte alla capanna, e ai suoi occhi, sotto un pendio infinito, un altopiano di dimensioni incomprensibili, marcato da campi coltivati ordinatamente, circondato da montagne maestose. Un villaggio sulla sommità di un piccolo colle, al centro della pianura, unica testimonianza di vita umana. La sua mente faceva fatica a percepire la grandezza di quel paesaggio. Cercava punti di riferimento, trovandoli con difficoltà. Ebbe la sensazione di stare osservando una contea al di fuori del mondo. Isolata e felice. Un regno segreto. Immaginò una vita in completa armonia con la natura, con i prati sterminati da coltivare, con gli animali, a casa loro tanto quanto gli uomini del villaggio. Immaginò che l’armonia degli uomini con la natura dovesse per forza essere l’armonia degli uomini tra loro stessi. Sentì che questo pensiero lo stava riportando alla vita, a sé stesso. Sentì il turbamento e lo sconcerto per quello che era accaduto trasformarsi lentamente in esperienza. Lo stava accettando. La fiducia tornava. Subito dopo avvertì un lieve calore alla gamba ferita, piacevole. Il sole del tramonto lo stava accarezzando. Né fu felice. La gamba stava migliorando. Un giorno ancora, e sarebbe stato pronto a ripartire.

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Michele Corinaldesi

Michele Corinaldesi

Sono Michele Corinaldesi, ho 40 anni e sono padre di una bambina di 8. Sono un ingegnere elettronico e vivo a Jesi, nelle Marche. Amo infinitamente la montagna, il cammino e la natura in tutte le sue manifestazioni. E la ricerco ogni volta che posso. Ho iniziato a scrivere da un po', scoprendo questa passione in ritardo e un po' per caso.


Il mio blog | Non ho un blog/pagina digitale, eleggo altitudini.it come la mia rivista digitale. Altitudini mi è stata consigliata da un'amica, anche lei appassionata di scrittura. Altitudini mi piace perché coniuga due delle mie grandi passioni: la scrittura e la montagna. Un binomio perfetto per me.
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