Tradurre significa andare oltre, oltre la realtà conosciuta, oltre il proprio limite
Tradurre significa attraversare, appunto, camminare aprendo un via, un sentiero, in un ambiente nuovo, morfologicamente variabile, in un tessuto (textus) con una sua particolare vegetazione, con rocce, acque, odori, perturbazioni, rumori, silenzi. Si sale, si procede in quota, poi si sale ancora, si raggiunge un valico, e da quel valico lo sguardo si allunga verso l’orizzonte o precipita in basso, verso la valle, ma in ogni caso si tratta di uno snodo prospettico, di un punto di svolta, una piccola altura che permette una visuale inedita, da non trascurare.
Tradurre significa porsi un obiettivo, una cima, o semplicemente un punto di arrivo. Significa arrivare all’ultima pagina del testo, ma con la certezza che percorrere quell’itinerario è già di per sé traversare un altrove, è la volontà di immergersi in una realtà dissimile, che rintocca dentro di te, e per la quale cerchi parole della tua lingua che possano riprodurla, specchiarla, è un viaggio, un’avventura, ma preparata, calibrata.
Tradurre significa procedere con passo lento, e attento: la lentezza della cura e dell’amore per l’ambiente circostante, quindi il testo, la scrittura, la lentezza vigile che percepisce anche gli umori e le atmosfere più impercettibili. Il passo lento di quando si vuole davvero sciogliere la trama più intima di una lingua straniera, con le sue sintassi emotive, le sue visioni, le sue stratificazioni storiche, le sue conformazioni mentali, i suoi immaginari addensati o diluiti. Il passo lento di quando finalmente si cerca se stessi.
Tradurre significa mettersi in ascolto: dei piccoli e grandi sommovimenti del testo, dei “terreni” morfologicamente duttili e di quelli astrusi, delle condizioni atmosferiche che addolciscono o percuotono le parole e le strutture, del silenzio vasto, immenso, che protegge e nel contempo espone le fragili impalcature espressive. Spesso i testi hanno una loro specifica melodia di fondo, sonorità palesi e sonorità sotterranee, nascoste tra le maglie fitte della sintassi, e a volte è necessario fermarsi, chiudere gli occhi, respirare e sospendere il passo, lasciare che il vento narrativo ci porti qualche nota, o ci conduca in qualche radura luminosa, ci sveli uno scorcio lirico, o un assetto lessicale difficile, doloroso.
Tradurre significa rispetto: per i “paesaggi” testuali che attraversiamo, per la loro morfologia, per come si struttura il pensiero altrui, per il ritmo che impone la lettura, la comprensione, l’interpretazione, con la necessità quindi di modulare il passo. Rispetto vuol dire anche umiltà e dignità: l’ambiente in cui ci muoviamo non ci può appartenere per il semplice fatto che stiamo lavorando a “declinarlo” secondo altri codici, non può esserci possesso in questa operazione, né sovrapposizione della nostra identità sull’identità altrui.
Tradurre significa procedere con l’attrezzatura corretta, adeguata: sensibilità, cura, esperienza, discrezione, abilità tecniche e teoriche, rigore.
Tradurre significa andare oltre, oltre la realtà conosciuta, nota, oltre il proprio sguardo, il proprio punto di vista, oltre se stessi, oltre il proprio limite anche. E nel momento in cui si raggiunge la destinazione, nel momento in cui il testo originale si specchia nel testo tradotto, diventa chiaro che conquistare quella cima, quel punto di arrivo, è in qualche modo coincidere meravigliosamente e magicamente con se stessi o, come già detto, trovare finalmente se stessi.
Riparto da Sent qualche giorno dopo, sotto la neve, il saluto più dolce della montagna.